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| << | < | > | >> |IndicePrefazione di Martin Gardner pag. 7 Nota per il lettore 11 Ringraziamenti 13 Fonti delle illustrazioni 17 Prologo 19 1. Un computer può avere una mente? . . . . 21 Introduzione 21 - Il test di Turing 24 - L'intelligenza artificiale 31 - Un approccio dell'IA al «piacere» e al «dolore» 35 - L'IA forte e la stanza cinese di Searle 39 - Hardware e software 48 2. Algoritmi e macchine di Turing . . . . . 56 Lo sfondo del concetto di algoritmo 56 - Il concetto di Turing 62 - Codificazione binaria di dati numerici 71 - La tesi di Church-Turing 77 - Numeri diversi dai numeri naturali 80 - La macchina di Turing universale 82 - L'insolubilità del problema di Hilbert 91 - Come sconfiggere un algoritmo 99 - Il calcolo di lambda di Church 102 3. Matematica e realtà . . . . . . . . . . 109 Il paese di Tor'Bled-Nàm 109 - I numeri reali 116 - Quanti numeri reali ci sono? 119 - La «realtà» dei numeri reali 123 - I numeri complessi 125 - Costruzione dell'insieme di Mandelbrot 131 - I concetti matematici hanno una realtà platonica? 133 4. Verità, dimostrazione e intuito . . . . 138 Il programma di Hilbert per la matematica 138 - Sistemi matematici formali 142 -Il teorema di Gödel 147 - Intuito matematico 150 - Platonismo o intuizionismo? 155 - Teoremi del tipo di Gödel derivanti dal risultato di Turing 160 - Insiemi ricorsivamente numerabili 163 - L'insieme di Mandelbrot è ricorsivo? 170 - Alcuni esempi di matematica non ricorsiva 176 - L'insieme di Mandelbrot è simile alla matematica non ricorsiva? 187 - La teoria della complessità 190 - Complessità e computabilità in cose fisiche 196 5. Il mondo classico . . . . . . . . . . . 198 Lo status della teoria fisica 198 - La geometria euclidea 206 - La dinamica di Galileo e di Newton 214 - Il mondo meccanicistico della dinamica newtoniana 221 - La vita è computabile nel mondo delle palle da biliardo? 224 - La meccanica hamiltoniana 229 - Lo spazio delle fasi 232 - La teoria elettromagnetica di Maxwell 242 - La computabilità e l'equazione d'onda 246 - Le equazioni del moto di Lorentz; particelle prossime alla velocità della luce 248 - La relatività ristretta di Einstein e Poincaré 251 - La relatività generale di Einstein 264 - Causalità relativistica e determinismo 276 - La computabilità nella fisica classica: a che punto siamo? 281 - Massa, materia e realtà 283 6. Magia quantistica e mistero quantistico 289 I filosofi hanno bisogno della teoria quantistica? 289 - Problemi nella teoria classica 293 - Gli inizi della teoria quantistica 295 - L'esperimento delle due fenditure 298 - Ampiezze di probabilità 304 - Lo stato quantico di una particella 312 - Il principio di indeterininazione 319 - Le procedure di evoluzione U e R 312 - Una particella può essere in due luoghi simultaneamente? 324 - Lo spazio di Hilbert 331 - Misurazioni 335 - Lo spin e la sfera degli stati di Reimann 339 - Obiettività e misurabilità di stati quantici 345 - La copiatura di uno stato quantico 347 - Lo spin del fotone 348 - Oggetti con grande spin 351 - Sistemi a molte particelle 354 - Il «paradosso» di Einstein, Podol'skij e Rosen 360 - Esperimenti con fotoni: un problema per la relatività? 368 - L'equazione di Schrödinger; l'equazione di Dirac 371 - La teoria quantistica dei campi 373 - Il gatto di Schrödinger 314 - Vari atteggiamenti nella teoria quantistica esistente 378 - Dove ci lascia tutto questo? 382 7. La cosmologia e la freccia del tempo . .386 Il flusso del tempo 386 - L'inesorabile aumento dell'entropia 389 - Che cos'è l'entropia? 395 - La seconda legge in azione 401 - L'origine della bassa entropia nell'universo 406 - La cosmologia e il big bang 412 - Il globo di fuoco primordiale 418 - Il big bang spiega la seconda legge? 420 - I buchi neri 422 - La struttura delle singolarità dello spazio-tempo 429 - Quanto fú speciale il big bang? 434 8. Alla ricerca della gravità quantistica 443 Perchè la gravità quantistica? 443 - Che cosa si cela dietro l'ipotesi della curvatura di Weyl? 446 - L'asimmetria temporale nella riduzione del vettore di stato 451 - La scatola di Hawking: una connessione con l'ipotesi della curvatura di Weyl? 457 - Quand'è che si riduce il vettore di stato? 467 9. Cervelli reali e modelli di cervello . .474 Com'è il cervello in realtà? 474 - Qual è la sede della coscienza? 483 - Esperimenti sul cervello diviso 486 - La visione cieca 489 - L'elaborazione dell'informazione nella corteccia visiva 490 - Come funzionano i segnali nervosi? 492 - Simulazione al computer 496 - La plasticità del cervello 501 - Computer paralleli e «unità» della coscienza 503 - C'è un ruolo per la meccanica quantistica nell'attività cerebrale? 505 - Computer quantistici 507 - Al di là della teoria quantistica? 509 10. Dov'è la fisica della mente? . . . . . 512 A che cosa serve la mente? 512 - Che cosa fa in realtà la coscienza? 517 - Selezione naturale di algoritmi? 523 - La natura non algoritmica dell'intuito matematico 526 - Ispirazione, intuito e originalità 528 - Carattere non verbale del pensiero 535 - Coscienza animale? 537 - Il contatto col mondo platonico 539 - Una concezione della realtà fisica 542 - Determinismo e determinismo forte 544 - Il principio antropico 546 - Tassellature e quasi-cristalli 548 - Possibile pertinenza per la plasticità cerebrale 552 - I ritardi temporali della coscienza 554 - Lo strano ruolo del tempo nella percezione cosciente 558 - Conclusione: con gli occhi di un bambino 564 Epilogo 567 Note 569 Referenze bibliografiche 593 Indice analitico 605 |
| << | < | > | >> |Pagina 54Vediamo ora che cosa potrebbe comportare il punto di vista dell'IA forte rispetto alla questione del teletrasporto. Supporremo che da qualche parte nello spazio, fra due pianeti, ci sia una stazione relè dove l'informazione venga temporaneamente accumulata prima di essere ritrasmessa alla sua destinazione finale. Per comodità, quest'informazione non viene memorizzata in forma umana, bensì in qualche dispositivo magnetico o elettronico. In associazione con questo dispositivo sarebbe presente la «consapevolezza» del viaggiatore? I fautori dell'IA forte vorrebbero farci credere che debba essere così. Dopo tutto, dicono, a ogni domanda che potessimo decidere di fare al viaggiatore potrebbe rispondere in linea di principio il dispositivo, essendo sufficiente allo scopo attivare «semplicemente» una simulazione dell'attività appropriata del suo cervello. Il dispositivo conterrebbe tutte le informazioni necessarie; e il resto sarebbe solo un fatto di elaborazione. Poiché il dispositivo risponderebbe alle domande esattamente come se fosse il viaggiatore, allora (secondo il test di Turing!) sarebbe il viaggiatore. Si torna così alla tesi dell'IA forte che in relazione ai fenomeni mentali non ha importanza l'hardware reale. Questa tesi mi sembra ingiustificata. Essa si fonda sull'assunto che il cervello (o la mente) sia, in effetti, un computer digitale. Essa suppone che, quando si pensa, non si faccia ricorso a nessun fenomeno fisico specifico che possa richiedere la particolare struttura fisica (biologica, chimica) che i cervelli realmente hanno.Senza dubbio i fautori dell'IA forte sostrrrebbero che l'unico assunto che si fa realmente è che degli effetti di qualsiasi fenomeno fisico a cui si debba far ricorso si possono sempre elaborare modelli esatti per mezzo del computer digitale. Sono abbastanza sicuro che la maggior parte dei fisici considererebbe questo assunto del tutto naturale sulla base della nostra comprensione fisica attuale. Io presenterò le ragioni per il mio atteggiamento contrario in capitoli successivi (dove dovrò anche preparare la via a spiegare perché credo che ci sia qualche assunto apprezzabile da fare in proposito). Per il momento accettiamo quest'opinione (condivisa dai più) che tutti gli aspetti fisici pertinenti possano sempre essere rappresentati fedelmente in modelli elaborati da computer digitali. L'unico assunto reale (prescindendo da questioni di tempo, e di spazio di calcolo) è allora quello «operazionale», che se qualcosa opera per intero come un'entità coscientemente consapevole, allora si deve anche sostenere che esso «senta» di essere una tale entità. La concezione dell'IA forte ritiene che, trattandosi «solo» di hardware, qualsiasi fisica a cui si faccia realmente riferimento nel funzionamento del cervello possa essere necessariamente simulata dall'introduzione di un software di conversione appropriato. Se accettiamo il punto di vista operazionale, la questione poggia sull'equivalenza delle macchine di Turing universali e sul fatto che qualsiasi algoritmo può, di fatto, essere eseguito da una tale macchina, come pure sull'assunto che il cervello agisce secondo una qualche sorta di azione algoritmica. È venuto per me il momento di dichiararmi più esplicitamente su questi concetti interessanti e importanti. | << | < | > | >> |Pagina 56Lo sfondo del concetto di algoritmo Che cosa sono precisamente un algoritmo, o una macchina di Turing, o una macchina di Turing universale? Perché mai questi concetti dovrebbero essere così centrali per la concezione moderna di ciò che potrebbe costituire una «macchina pensante»? Ci sono limitazioni assolute ai risultati che potrebbero essere conseguiti in linea di principio da un algoritino? Per rispondere in modo adeguato a queste domande, dobbiamo esaminare dettagliatamente l'idea di un algoritmo e delle macchine di Turing. [...] La parola «algoritmo» deriva dal nome del matematico persiano del IX secolo Abu Gia'far Muhammad ibn Musa al-Khwarazmi, autore, attorno all'825 d.C. di un influente testo matematico, intitolato Kitab al-Giabr wa'l-muqabalah. Dalla forma latina medievale del suo nome, Algorismus, derivò (attraverso la forma algorithmus, forse per una contaminazione con la parola «aritmetica») la parola moderna algoritmo. (Val la pena di notare anche che, dall'espressione araba al-giabr [trasporto], che compare nel titolo della sua opera più importante, deriva il vocabolo «algebra».) Esempi di algoritmi furono noti peraltro già molto tempo prima dei libro di al-Khwarazmi. Uno dei più familiari, risalenti al tempo dell'antica Grecia (circa 300 a.C.), è il procedimento noto oggi come algoritmo euclideo, usato per trovare il massimo comun divisore di due numeri interi. Vediano come funziona. Sarà utile avere in mente una coppia specifica di numeri, per esempio 1365 e 3654. Il massimo comun divisore è il massimo numero intero che divide esattamente (senza resto) ognuno di questi due numeri. Per applicare l'algoritrno euclideo, dividiamo uno dei due numeri per l'altro, e prendiamo nota del resto: il 1365 sta nel 3654 due volte, col resto di 924 (= 3654 - 2730). Sostituiamo ora i nostri due numeri di partenza con questo resto, ossia 924, e col numero che abbiamo appena usato come divisore, ossia 1365, in quest'ordine. Ripetiamo il procedimento, usando però questa nuova coppia di numeri: il 924 sta nel 1365 una volta, col resto di 441. Otteniamo così una nuova coppia: 441 e 924, e dividiamo il 924 per 441 ottenendo il resto di 42 (= 924 - 882), e così via di seguito fino a ottenere una divisione senza resto. Disponendo ordinatamente tutti i nostri calcoli in un prospetto, otteniamo: 3654 : 1365 dà come resto 924 1365 : 924 dà come resto 441 924 : 441 dà come resto 42 441 : 42 dà come resto 21 42 : 21 dà come resto 0.L'ultimo numero da noi usato come divisore, ossia 21, è il massimo conun divisore richiesto. [...] L'algoritino cuclideo è solo uno fra i numerosi procedimenti algoritmici, spesso classici, che si trovano nell'intera matematica. È però forse degno di nota il fatto che, nonostante le antiche origini storiche di esempi specifici di algoritmi, la precisa formulazione del concetto di un algoritmo generale risalga solo a questo secolo. Di fatto sono state date varie descrizioni alternative di questo concetto, tutte negli anni trenta. La più diretta e convincente, e anche storicamente la più importante, è nei termini del concetto noto come macchina di Turing. Sarà opportuno esaminare queste «macchine» nei loro particolari. Una cosa da tenere a mente su una «macchina» di Turing è che essa è un concetto matematico astratto e non un oggetto fisico. Il concetto fu introdotto nel 1935-1936 dal matematico inglese, straordinario decifratore di codici segreti e padre autorevole dell'informatica, Alan Turing (1937) nel tentativo di affrontare un problema di vasta portata noto come l' Entscheidungsproblem («problema della decisione»), posto in parte nel 1900 dal grande matematico tedesco David Hilbert al Congresso Internazionale dei Matematici a Parigi («decimo problema di Hilbert») e riproposto, in modo più completo, al Congresso Internazionale di Bologna nel 1928. Hilbert aveva chiesto niente di meno che un procedimento algoritmico generale per risolvere problemi matematici, o piuttosto per rispondere alla domanda se un tale procedimento possa o meno esistere in linea di principio. Hilbert aveva inoltre concepito un programma per fondare la matematica su basi incrollabilmente sane, con assiomi e regole procedurali che dovevano essere fissate una volta per tutte, ma quando Turing produsse la sua grande opera quel programma aveva già subìto un colpo distrutto da un teorema dimostrato nel 1931 dal brillante logico austriaco Kurt Gödel. Considereremo il teorema di Gödel e la sua portata nel capitolo 4. Il problema di Hilbert che interessava a Turing (il problema della decisione) andava oltre ogni particolare formulazione della matematica nei termini di sistemi assiomatici. Il problema era: esiste un qualche procedimento meccanico generale in grado, in linea di principio, di risolvere uno dopo l'altro tutti i problemi della matematica (appartenenti a una qualche classe opportunamente ben definita)? | << | < | > | >> |Pagina 133I concetti matematici hanno una realtà platonica?Quanto sono «reali» gli oggetti del mondo matematico? Da un certo punto di vista pare che in essi non possa esserci niente di reale. Gli oggetti matematici sono solo concetti; essi sono le idealizzazioni mentali dei matematici, spesso prodotte sotto lo stimolo dell'ordine apparente di certi aspetti del mondo che ci circonda, ma sono nondimeno idealizzazioni mentali. Possono essere altro ché mere costruzioni arbitrarie della mente umana? Al tempo stesso, questi concetti matematici sembrano avere non di rado una profonda realtà, del tutto sottratta alla volontà di un qualsiasi matematico. È come se il pensiero umano fosse guidato verso una qualche verità esterna eterna: una verità dotata di una realtà propria, e che è rivelata solo in parte a ciascuno di noi. L'insieme di Mandelbrot fornisce un esempio sorprendente. La sua struttura mirabilmente complessa non fu l'invenzione di una persona, né fu la creazione di un gruppo di matematici. Lo stesso Benoit B. Mandelbrot, il matematico polacco-americano (e protagonista della teoria dei frattali) che fu il primo a studiare l'insieme, non ebbe alcuna vera intuizione dei fantastici sviluppi in essa intrinseci, pur sapendo di essere sulle tracce di qualcosa di molto interessante. In effetti, quando cominciarono a emergere sul monitor le prime immagini, ebbe la sensazione che le costruzioni bizzarre che stava vedendo fossero il risultato di un cattivo funzionamento del computer (Mandelbrot, 1986)! Solo in seguito si convinse che si trovavano davvero nell'insieme. Inoltre, i dettagli completi della complessa struttura dell'insieme di Mandelbrot non possono realmente essere compresi appieno da nessuno di noi, né possono essere rivelati compiutamente da alcun computer. Si ha l'impressione che questa struttura non sia solo un parto della nostra mente, ma che abbia una realtà propria. Qualsiasi matematico o appassionato di computer decida di esaminare l'insieme, vi troverà approssimazioni alla stessa struttura matematica fondamentale. Non importa quale computer venga usato per eseguire i calcoli (purché il computer funzioni regolarmente), a parte il fatto che differenze nella velocità e nella memoria del computer, e nelle sue capacità di visualizzazione grafica, possono condurre a differenze nella quantità di particolari fini che saranno rivelati e nella velocità con cui tali particolari saranno prodotti. Il computer viene usato essenzialmente nello stesso modo in cui il fisico sperimentale usa un'apparecchiatura sperimentale per esplorare la struttura del mondo fisico. L'insieme di Mandelbrot non è un'invenzione della mente umana: esso fu una scoperta. Come il Monte Everest, l'insieme di Mandelbrot ha un' esistenza propria. Similmente, il sistema stesso dei numeri complessi ha una realtà profonda e atemporale che è del tutto indipendente dalle costruzioni mentali di qualsiasi particolare matematico. Gli inizi di un riconoscimento dei numeri complessi si ebbero con l'opera di Gerolamo Cardano. Nato a Pavia nel 1501 e morto a Roma nel 1576, Cardano fu medico di professione, giocatore d'azzardo e astrologo (una volta fece l'oroscopo di Cristo), oltre che matematico. Fu autore di un importante trattato d'algebra, l' Ars magna edito nel a545, in cui formulò la prima espressione completa per la soluzione di un'equazione cubica generale (in termini di numeri irrazionali, cioè di radici n-esime). Egli aveva notato, però, che in una certa classe di casi - i cosiddetti casi «irriducibili», in cui l'equazione ha tre soluzioni reali - era costretto ad accettare, in una certa fase del procedimento di risoluzione, la radice quadrata di un numero negativo. Benché questa situazione fosse sconcertante per lui, si rese conto però che, se si fosse deciso ad accettare tali radici quadrate, e solo in tal caso, avrebbe potuto pervenire alla soluzione completa (la quale era sempre reale). In seguito, nel 1572, in un'opera intitolata L'algebra, Raffaele Bombelli da Bologna estese l'opera di Cardano e cominciò lo studio dell'algebra reale dei numeri complessi. Anche se a tutta prima si potrebbe avere l'impressione che l'introduzione di radici quadrate di numeri negativi fosse solo un espediente - un'invenzione matematica destinata a conseguire un obiettivo specifico -, in seguito divenne chiaro che questi oggetti permettono di ottenere più del fine in vista del quale erano stati escogitati inizialmente. Come ho già scritto sopra, benché l'intento originario dell'introduzione dei numeri complessi fosse quello di permettere di estrarre impunemente certe radici quadrate, essi danno la possibilità, come premio aggiuntivo, di estrarre qualsiasi altro tipo di radice o di risolvere qualsiasi equazione algebrica. In seguito vedremo che questi numeri posseggono molte altre qualità magiche, proprietà di cui in principio non avevamo il benché minimo sospetto. Queste proprietà semplicemente esistono. Esse non furono inventate, da Cardano né da Bombelli o da Wallis o da Coates o da Eulero o da Wessel o da Gauss, nonostante l'indubbia lungimiranza di questi e di altri grandi matematici; tale magia era intrinseca alla struttura stessa da loro gradualmente scoperta. | << | < | > | >> |Pagina 137Nel capitolo 1 ci siamo occupati diffusamente del punto di vista dell' IA forte, secondo la quale i fenomeni mentali dovrebbero trovare la loro esistenza all'interno dell'idea matematica di un algoritmo. Nel capitolo 2 ho insistito sull'idea che il concetto di un algoritmo è in effetti una nozione profonda e un «dono di Dio». In questo capitolo ho sostenuto che tali idee matematiche «donateci da Dio» dovrebbero avere qualche sorta di esistenza atemporale, indipendente dal nostro io terreno. Questo punto di vista non conferisce una qualche credenza al punto di vista dell'IA forte, fornendo la possibilità di un tipo etereo di esistenza per i fenomeni mentali? Si potrebbe pensare proprio di sì, e più avanti proporrò anche congetture a sostegno di un'opinione non del tutto diversa da questa; ma se infine si potrà effettivamente riconoscere a fenomeni mentali un'esistenza separata di questo tipo generale, non credo che ciò potrà avvenire per il concetto di un algoritmo, bensì solo per qualcosa di molto più sottile. Il fatto che algoritmi e cose affini costituiscano una parte molto ristretta e limitata della matematica sarà un aspetto importante dei ragionamenti che seguiranno. Nel prossimo capitolo cominceremo col vedere qualcosa sulla portata e sulla sottigliezza della matematica non algoiiimica.| << | < | > | >> |Pagina 160Teoremi del tipo di Gödel derivanti dal risultato di TuringPresentando il teorema di Gödel ho omesso molti particolari, e ho tralasciato anche quella che fu forse, storicamente, la parte più importante della sua argomentazione: ossia quella relativa all'«indecidibilità» circa la consistenza degli assiomi. Il mio intento qui non è stato quello di sottolineare questo «problema della dimostrabilità della consistenza degli assiomi», così importante per Hilbert e per i suoi contemporanei, bensì quello di mostrare che, usando la nostra percezione istintiva del significato delle operazioni in questione, possiamo vedere chiaramente che una specifica proposizione di Gödel - né dimostrabile né indimostrabìle usando gli assiomi e le regole del sistema formale in considerazione - è una proposizione vera! Ho già menzionato che Turing sviluppò il suo ragionamento sull'insolubilità del problema dell'arresto dopo avere studiato l'opera di Gödel. I due ragionamenti avevano molto in comune e, in effetti, certi aspetti chiave del risultato di Gödel possono essere derivati direttamente usando il procedimento di Turing. Vediamo in che modo questo funzioni, e otterremo una percezione un po' diversa di ciò che c'è dietro il teorema di Gödel. Una proprietà essenziale di un sistema matematico formale è che dovrebbe essere una questione computabile decidere se una sequenza data di simboli costituisca o no una dimostrazione, all'interno del sistema, di una data asserzione matematica. Se si è formalizzato la nozione di dimostrazione matematica, è stato dopo tutto per evitare che si debbano formulare altri giudizi circa ciò che è un ragionamento valido e ciò che non lo è. Si deve poter controllare in un modo completamente meccanico e predeterminato se una presunta dimostrazione sia o no tale; in altri termini, deve esistere un algoritmo per il controllo delle dimostrazioni. D'altra parte, non chiediamo che debba essere necessanamente una questione algoritmica trovare dimostrazioni (o confutazioni) di enunciati matematici proposti. | << | < | > | >> |Pagina 198Lo status della teoria fisica Che cosa abbiamo bisogno di sapere del modo di operare della natura per capire come la coscienza possa farne parte? Ha davvero importanza quali siano le leggi che governano i componenti del corpo e del cervello? Se le nostre percezioni coscienti sono semplicemente il risultato dell'azione di algoritmi, come vorrebbero farci credere molti sostenitori dell'IA, non avrebbe molta importanza sapere quali siano in realtà tali leggi. Qualsiasi macchina che fosse in grado di eseguire un algoritmo sarebbe buona quanto qualsiasi altra. Ma nei nostri sentimenti di consapevolezza c'è forse qualcosa più che meri algoritmi. Potrebbe avere importanza il modo preciso in cui siamo fatti, come pure le precise leggi fisiche che governano la sostanza di cui siamo composti. Forse avremo bisogno di capire la qualità profonda, quale che sia, che è alla base della natura stessa della materia, e che decreta il modo in cui tutta la materia deve comportarsi. La fisica non è ancora giunta a questo livello di conoscenza. Rimangono molti misteri da svelare e, molte percezioni intuitive profonde da conseguire. Eppure la maggior parte dei fisici e dei fisiologi direbbero che sappiamo già abbastanza sulle leggi fisiche pertinenti per conoscere il funzionamento di quell'oggetto di dimensioni ordinarie che è il cervello umano. Anche se è indubbiamente vero che il cervello è un sistema fisico eccezionalmente complesso e che non si sa ancora molto sulla sua struttura dettagliata e sul suo modo di operare, ben pochi sosterrebbero che conosciamo troppo poco i principi fisici che sono alla base del suo comportamento. Più avanti sosterrò la tesi anticonfonnista che, al contrario, non comprendiamo ancora abbastanza bene la fisica per poter descrivere il funzionamento del nostro cervello nei termini delle sue leggi, neppure in linea di principio. Per poter sostenere questa tesi, dovrò innanzitutto fornire una rassegna generale dello status della teoria fisica presente. In questo capitolo mi occuperò della cosiddetta «fisica classica», la quale comprende tanto la meccanica di Newton quanto la relatività di Einstein. L'aggettivo «classico» serve qui essenzialmente a identificare le teorie che dominarono prima dell'avvento, attorno al 1925 (attraverso le brillanti ricerche di fisici come Planck, Einstein, Bohr, Heisenberg, Schrödinger, de Broglie, Born, Jordan, Pauli e Dirac), della teoria quantistica: una teoria dell'incertezzza, dell'indeterminazione e del mistero, che descrive il comportamento di molecole, atomi e particelle subatomiche. La teoria classica è invece deterministica, cosicché in essa il futuro è sempre determinato completamente dal passato. Ciò nonostante, anche la fisica classica ha in sé molto di misterioso, benché la comprensione conseguita nel corso dei secoli ci abbia condotto a un quadro di una precisione straordinario. Esamineremo (nel capitolo 6) anche la teoria quantistica, poiché io credo che, contrariamente a quella che sembra essere una opinione maggioritaria tra i fisiologi, svolgano probabilmente un ruolo importante nel funzionamento del cervello fenomeni quantistici: ma questo è un argomento che tratterò più avanti nel corso del libro. | << | < | > | >> |Pagina 289I filosofi hanno bisogno della teoria quantistica? Nella fisica classica c'è, in accordo col senso comune, un mondo obiettivo «esterno». Tale mondo si evolve in modo chiaro e deterministico ed è governato da equazioni matematiche ben precise. Questo vale per le teorie di Maxwell e di Einstein come per l'originario sistema newtoniano. Si ritiene che la realtà fisica esista indipendentemente da noi, e come sia esattamente il mondo fisico non dipende dal nostro criterio di osservazione. Inoltre, il nostro corpo e il nostro cervello fanno parte anch'essi di tale mondo. Anch'essi si evolverebbero secondo le stesse equazioni classiche precise e deterministiche. Tutte le nostre azioni devono essere fissate da queste equazioni, per quanto noi possiamo pensare che il nostro comportamento sia influenzato dalla nostra volontà cosciente. Un tale quadro sembra costituire lo sfondo delle argomentazioni filosofiche più serie sulla natura della realtà, delle nostre percezioni coscienti e del nostro apparente libero arbitrio. Qualcuno potrebbe avere lo sgradevole convincimento che in tutto questo dovrebbe svolgere un ruolo anche la teoria quantistica: quel sistema fondamentale ma sconvolgente sorto, nei primi decenni del nostro secolo, da osservazioni di sottili discrepanze fra il comportamento reale del mondo e le descrizioni della fisica classica. A molti l'espressione «teoria quantistica» evoca semplicemente la vaga idea di un «principio di indeterminazione» che, al livello di particelle, atomi o molecole, proibisce la precisione nelle nostre descrizioni e fornisce semplicemente un comportamento probabilistico. In realtà, come vedremo, le descrizioni quantistiche sono molto precise, anche se radicalmente diverse da quelle familiari della fisica classica. Troveremo inoltre che, nonostante la diffusione di un'opinione contraria, le probabilità non hanno origine al livello delle particelle, degli atomi o delle molecole - che si evolvono in modo deterministico - bensì, a quanto pare, attraverso una qualche misteriosa azione su scala maggiore connessa con l'emergere di un mondo classico che noi possiamo percepire in modo cosciente. Noi dobbiamo tentare di capire questo fatto, e come la teoria quantistica ci costringa a modificare la nostra concezione della realtà fisica. Si tende a pensare che le discrepanze fra teoria quantistica e teoria classica siano molto piccole, ma in realtà esse sono alla base anche di molti fenomeni fisici su scala ordinaria. L'esistenza stessa di corpi solidi, la resistenza e le proprietà fisiche di materiali, la natura della chimica, i colori delle sostanze, i fenomeni del congelamento e dell'ebollizione, il grado di precisione della trasmissione ereditaria: queste e molte altre proprietà familiari possono essere spiegate solo con l'aiuto della teoria quantistica. Il fenomeno stesso della coscienza potrebbe essere incomprensibile in termini puramente classici. La nostra mente potrebbe essere in effetti una qualità radicata in qualche carattere strano e mirabile di quelle leggi fisiche che governano effettivamente il mondo in cui viviamo, anziché essere solo un carattere di un qualche algoritmo tradotto in pratica dai cosiddetti «oggetti» di una struttura fisica classica. Forse, in un certo senso, è questa la «ragione» per cui noi, come esseri senzienti, dobbiamo vivere in un mondo quantistico, anziché in un mondo del tutto classico, nonostante tutta la ricchezza, e in effetti il mistero, che è già presente nell'universo classico. Può richiedersi un mondo quantistico affinché esseri pensanti e senzienti, come noi stessi, possano essere fatti della sua sostanza? Una domanda come questa sembra appropriata più per un Dio, impegnato a costruire un universo abitato, che non per noi! È però pertinente anche per noi. Se un mondo classico non è qualcosa di cui possa far parte la coscienza, la nostra mente deve dipendere in qualche modo da deviazioni specifiche dalla fisica classica. Questa è una considerazione su cui tornerò più avanti in questo libro. | << | < | > | >> |Pagina 386Il flusso del tempo Nei nostri sentimenti di consapevolezza ha un ruolo centrale la sensazione dello scorrere del tempo. Noi abbiamo l'impressione di muoverci sempre in avanti, da un passato ben definito a un futuro incerto. Il passato è sottratto a ogni possibilità di intervento e noi non possiamo più modificarlo. È immutabile e, in un certo senso, è «fuori di noi». La conoscenza che ne abbiamo al presente proviene dalle nostre registrazioni scritte, dalle tracce mnemoniche nel nostro cervello e da ciò che ne deduciamo, ma noi non abbiamo la tendenza a dubitare della realtà del passato. Il passato è stato una cosa e (ora) può essere solo una cosa. Quel che è stato è stato, e non ci si può più far nulla. Il futuro, invece, sembra ancora indeterminato. Potrebbe essere una cosa oppure un'altra. Forse questa «scelta» è fissata completamente da leggi fisiche, o forse dipende in parte dalle nostre decisioni (o da Dio); ma questa «scelta» sembra debba ancora essere fatta. Pare che attualmente ci siano solo potenzialità circa quella che sarà la «realtà» del futuro. Mentre noi percepiamo coscientemente il passare del tempo, la parte più immediata di questo futuro vasto e apparentemente indeterminato si realizza continuamente e fa in tal modo il suo ingresso nel passato ormai immodificabile. A volte possiamo avere la sensazione che persino noi siamo stati personalmente «responsabili» di qualcosa che ha influito sulla scelta di quel particolare futuro potenziale che si è realizzato, ed è stato reso permanente nella realtà del passato. Più spesso ci sentiamo spettatori impotenti, forse grati di vederci sollevati da ogni responsabilità, quando, inesorabilmente l'estensione del passato consolidato avanza in un futuro incerto. La fisica, però, a quanto sappiamo, ci narra una storia diversa. Tutte le equazioni della fisica confermate da successi spesso secolari sono simmetriche rispetto al tempo. Esse, cioè, possono essere usate altrettanto bene in una direzione nel tempo quanto nell'altra. Il futuro e il passato sembrano essere fisicamente su un piede di completa parità. Le leggi di Newton, le equazioni di Hamilton, quelle di Maxwell, la relatività generale di Einstein, l'equazione di Dirac, l'equazione di Schrödinger: tutto questo rimane inalterato se invertiamo la direzione del tempo (se sostituiamo la coordinata t, che rappresenta il tempo, con -t). L'intera meccanica classica, assieme alla parte -gra «U» della meccanica quantistica, è del tutto reversibile nel tempo. Non sappiamo invece con certezza se la parte «R» della meccanica quantistica sia effettivamente reversibile nel tempo o no. Questo problema avrà un'importanza centrale ai fini delle argomentazioni che presenterò nel prossimo capitolo. Per il momento mettiamo però da parte il problema riferendoci a quello che potrebbe essere considerato un «sapere convenzionale» sull'argomento: ossia che, nonostante le prime apparenze, anche il modo di operare di R dev'essere considerato in effetti simmetrico nel tempo (cfr. Aharonov, Bergmann e Lebowitz, 1964). Se accettiamo questo fatto, pare che dovremo cercare altrove per trovare dove le nostre leggi fisiche dicano che deve trovarsi la distinzione fra passato e futuro. | << | < | > | >> |Pagina 512A che cosa serve la mente? Nelle discussioni del problema mente-corpo ci sono due problemi separati su cui si concentra di solito l'attenzione: «In che modo un oggetto materiale (un cervello) può suscitare concretamente la coscienza?» e, inversamente, «In che modo una coscienza, attraverso l'azione della sua volontà, può influire realmente sul moto (in apparenza fisicamente determinato) di oggetti materiali?». Questi sono gli aspetti passivo e attivo del problema corpo-mente. Pare che noi abbiamo, nella «mente» (o, piuttosto, nella «coscienza») una «cosa» immateriale che, da un lato, è suscitata dal mondo materiale e, dall'altro, può influire su di esso. Io preferirò però, nelle mie discussioni preliminari in quest'ultimo capitolo, considerare un problema un po' diverso e forse più scientifico - che è pertinente sia al problema attivo sia a quello passivo - nella speranza che i nostri tentativi di trovare una soluzione possano farci fare un po' di strada verso una comprensione migliorata di questi antichi enigmi fondarnentali della filosofia. La mia domanda è: «Quale vantaggio selettivo conferisce una coscienza a coloro che la posseggono?». Nel formulare la domanda in questo modo ci sono vari assunti impliciti. Innanzitutto c'è la convinzione che la coscienza sia di fatto una «cosa» desrivibile scientificamente. C'è l'assunto che, essa «faccia» effettivamente «qualcosa», e inoltre che ciò che essa fa sia utile alla creatura che la possiede, cosicché un'altra creatura equivalente in tutto ma priva della coscienza si comporterebbe in un qualche modo meno efficace. D'altra parte, si potrebbe credere che la coscienza non sia altro che un concomitante passivo del possesso di un sistema di controllo sufficientemente complesso e che, di per sé, in realtà non «faccia» nulla. (Questa potrebbe essere presumibilmente l'opinione, per esempio, del sostenitore dell'IA forte.) Oppure, all'opposto, il fenomeno della coscienza potrebbe avere un qualche fine divino o misterioso - forse un fine teleologico che non ci è stato ancora rivelato - e qualsiasi discussione del fenomeno nei termini delle sole idee della selezione naturale si lascerebbe sfuggire completamente questo «fine». Un po' preferibile, a mio modo di vedere, sarebbe una versione un po' più scientifica di questo tipo di argomento, ossia il principio antropico, il quale asserisce che la natura dell'universo in cui ci troviamo è fortemente vincolata dalla richiesta che esseri intelligenti come noi stessi debbano essere realmente presenti per osservarlo. (A questo principio ho accennato brevemente nel capitolo 8, p.450, e tonrnerò su di esso più avanti.) | << | < | > | >> |Pagina 564Conclusione con gli occhi di un bambinoIn questo libro ho presentato molti argomenti miranti a dimostrare l'insostenibilità del punto di vista - a quanto pare alquanto diffuso nell'attuale filosofia - che il nostro pensiero sia fondamentalmente equivalente all'azione di qualche computer molto complicato. Quando si fa l'assunto esplicito che la mera esecuzione di un algoritmo possa suscitare la consapevolezza cosciente, è stata adottata qui la terminologia dell'«IA forte» di Searle. Altri termini, come «funzionalismo», sono usati talvolta in un modo un po' meno specifico. Qualche lettore potrebbe aver considerato, fin dal principio, il «sostenitore dell'IA forte», come un uomo di paglia, un bersaglio in gran parte fittizio. Non è forse «ovvio» che il mero calcolo non possa evocare piacere o dolore; che non possa percepire la poesia o la bellezza di un cielo serale o la magia dei suoni; che non possa sperare o amare o disperare; che non possa avere un genuino intendimento autonomo? Eppure la scienza sembra averci indotti ad accettare la tesi che noi tutti non siamo altro che parti di un mondo governato totalmente (anche se forse, in definitiva, solo probabilisticamente) da leggi matematiche molto esatte. Il nostro cervello stesso, che sembra controllare tutte le nostre azioni, sarebbe governato da queste stesse leggi esatte. È emerso il quadro che tutta questa precisa attività fisica non sia, in effetti, niente di più dell'azione di un qualche vasto calcolo (forse probabilistico), e quindi che il nostro cervello e la nostra mente debbano essere intesi esclusivamente nei termini di tali calcoli. Forse, raggiungendo un livello di estrema complessità, i calcoli possono cominciare ad assumere le qualità più poetiche o soggettive che associamo al tennine «mente». È però difficile evitare la spiacevole sensazione che da un tale quadro debba sempre mancare qualcosa. Nelle mie argomentazioni ho cercato di sostenere l'opinione che in un quadro puramente computazionale debba in effetti mancare qualcosa di essenziale. Eppure io nutro anche la speranza che proprio attraverso la scienza e la matematica dovrebbero emergere finalmente alcuni profondi progressi nella comprensione della mente. Qui c'è un apparente dilemma, ma ho tentato di mostrare che c'è anche una genùina via d'uscita. La computabilità non è affatto la stessa cosa della precisione matematica. Nel preciso mondo platonico ci sono tutto il mistero e la bellezza che si possono desiderare, e la maggior parte di questo mistero risiede in concetti che si trovano al di fuori della parte relativamente limitata di esso in cui risiedono gli algoritmi e il computo. La coscienza mi pare un fenomeno di tale importanza che, semplicemente, non posso credere che essa sia solo un prodotto secondario «accidentale» di un calcolo complicato. Essa è il fenomeno grazie al quale si conosce l'esistenza stessa dell'universo. Si può sostenere che un universo governato da leggi che non ammettono la coscienza non sia affatto un universo. Io direi addirittura che tutte le descrizioni matematiche di un universo che sono state date finora non soddisfino questo criterio. È solo il fenomeno della coscienza a poter conferire un'esistenza reale a un presunto universo «teorico»! Alcune degli argomenti che ho presentato in questi capitoli possono sembrare tortuosi e complicati. Alcuni sono dichiaratamente speculativi, mentre credo che non ci sia alcun modo reale per sottrarsi ad alcuni altri. Eppure, al di là di tutti questi tecnicismi c'è la sensazione che sia in effetti «ovvio» che la mente cosciente non possa funzionare come un computer, anche se gran parte di ciò che è implicato nell'attività mentale in effetti potrebbe funzionare in tal modo. Questo è il tipo di ovvietà di cui potrebbe rendersi conto un bambino, anche se tale bambino potrebbe, più avanti nella vita, essere intimidito e credere che i problemi ovvi siano «falsi problemi», che devono essere dissolti mediante ragionamenti accurati, e abili scelte di definizioni. A volte i bambini vedono con chiarezza cose che si confondono e si oscurano nella vita adulta. Quando le preoccupazioni delle attività del «mondo reale» cominciano ad accumularsi sulle nostre spalle, noi spesso dimentichiamo la meraviglia che abbiamo provato da bambini. I bambini non hanno alcun timore a porre domande fondamentali che noi adulti saremmo imbarazzati a porre. Che cosa accade al nostro flusso di coscienza quando saremo morti? Dov'era esso prima della nostra nascita? Noi potremmo diventare, o essere stati, qualcun altro? Perché percepiamo in generale? Perché esistiamo? Perché c'è in generale un universo in cui noi possiamo esistere? Queste sono domande che tendono a emergere con l'albeggiare della coscienza in ognuno di noi, e senza dubbio con l'emergere della genuina autoconsapevolezza, in qualsiasi creatura o altra entità che abbia raggiunto questo livello. |
| << | < | > | >> |RiferimentiAharonov, Y., e D.Z. Albert (1981), Can we make sense out of the measurement process in relativistic quantum mechanics 21 «Phys.Rev.», D24, pp.359-370. Aharonov, Y., P. Bergmann e J.L. Leibowitz (1964), Time symmetry in the quantum process of measurement, in Quantum Theory and Measurement, a cura di J.A. Wheeler e W. H. Zurek, Princeton University Press, Princeton, New Jersey, 1983; edito in origine in «Phys.Rev.», 134B, pp. 1410-1416. Ashtekar, A., A.P. Balachandran e Sang Jo (1989), The CP problem in quantum gravity, «Int.J.Mod.Phys.», A6, pp. 1493-1454. Aspect, A., e P. Grangier (1986), Experiments on Einstein-Podolsky-Rosen-type correlations with pairs of visible photons, in Quantum Concepts in Space and Time, a cura di R. Penrose e C.J. Isham, Oxford University Press, Oxford. Atkins, P. W. (1987), Why mathematics works, Oxford University Extension Lecture, nella serie: Philosophy and the New Physics (13 marzo). Barbour, J.B. (1989), Absolute or Relative Motion, vol.I: The Discovery of Dynamics, Cambridge University Press, Cambridge. Barrow, J. D. (1988), The World Within the World, Oxford University - e F.J. Tipler (1986), The Anthropic Cosmological Principle, Oxford University Press, Oxford. Baylor, D. A., T. D. Lamb e K.-W. Yau (1979), Responses of retinal rods to single photons, «J.Physiol.», 288, pp. 613-634. Bekenstein, J. (1972), Black holes and entropy, «Phys.Rev.», D7, pp. 2333-2346. Belinfante, F. J. (1975), Measurement and Time Reversal in Objective Quantum Theory, Pergamon Press, New York. Belinskii, V. A., I. M. Khalatnikov e E. M. Lifshitz (1970), Oscillatory approach to a singular point in the relativistic cosmology, «Adv.Phys.», 19, pp. 525-573. Bell, J. S. (1987), Speakable and unspeakable in quantum mechanics, Cambridge University Press, Cambridge. Benacerraf, P. (1967), God, the Devil and Gödel, «The Monist», 51, pp.9-32. [...] | << | < | |