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| << | < | > | >> |Indice9 A cosa gioca, Georges Perec? Intervista di Jacques Bens e Alain Ledoux 21 Breve trattato sulla sottile arte del go 25 Avvertenza 27 0. Celebrazione 59 I. La regola 93 II. Il gioco. Tattiche e strategie elementari 129 III. Saturazione Bibliografia (146); Glossario (149); Indice (153). 159 Nota del curatore 163 L'arte sottile del go di Tiziana Zita |
| << | < | > | >> |Pagina 11A cosa gioca, Georges Perec?I giochi che preferisco, quelli ai quali gioco di più, sono giochi linguistici. I più semplici sono le parole crociate, e poi tutti i giochi che si praticano all'OuLiPo: privarsi di una o più lettere, aggiungerne altre, disporle in un certo ordine, imporsi questo o quel tipo di trasformazione ecc.
Tutto questo fa parte, secondo me, di un ambito più
vasto, dove si tratta di «organizzare forme», e il cui modello più elementare
potrebbe essere il puzzle. Il puzzle, in fondo, è il mio gioco preferito, o
addirittura: il gioco per eccellenza. Una particolare forma di puzzle,
che amo molto, è ad esempio il tangram: devi comporre
figure i cui modelli sono già fissati tramite sette forme geometriche semplici,
che possono combinarsi in diversi modi. È un gioco difficilissimo. Come vede sto
menzionando solo giochi solitari... Anche se, in alcuni casi, i giochi con il
linguaggio possono implicare un
partner immaginario: colui che risolverà il problema
delle parole crociate, per esempio, o che leggerà un testo basato su un gioco
con le lettere.
Potremmo immaginare (a parte La vita istruzioni per l'uso) un puzzle di lettere, o un puzzle letterario?
Certo: l'anagramma! Si prendono delle lettere a
caso, poniamo EIARZINULOC, e poi si combinano diversamente per ottenere una
parola. Si cerca, e si trova
ULCERAZIONI. Il gioco si può ripetere molte volte con
le stesse lettere. (Nel caso di EIARZINULOC è inutile,
ULCERAZIONI è l'unica, o almeno credo...).
Tutti questi giochi con lettere e parole non sono però un po' limitati? Certo, si possono fare una gran quantità di anagrammi, ma in fin dei conti la cosa non procura sempre lo stesso tipo di soddisfazione? Sì, infatti mi servo di questi giochi come un musicista delle scale. Mi dico: «Ecco, ora scrivo un testo in cui le vocali appariranno in ordine alfabetico: a, e, i, o, u, a, e, i, o, u ecc.». È un modo di tenermi in forma, di esercitarmi. Una limitazione in sé e per sé, da sola, non ha mai dato un testo, al massimo un indovinello. Per me è anche un modo di entrare nell'universo dei giochi linguistici, che sono uno degli assi del mio lavoro.
[...]
E i giochi detti «di società», o i classici giochi di strategia?
Mi sono molto interessato al go. E poi l'ho abbandonato perché in questo
gioco entra in ballo un elemento
molto difficile da dominare, e cioè il tempo che si può
dedicare al gioco. Il mio professore di go mi disse che
sarei potuto diventare un giocatore mediocre, dignitosamente mediocre, a
condizione di giocare almeno due ore al giorno. Non mi era certo possibile, ma
aveva ragione lui.
Eppure lei è stato uno dei promotori del go in Francia.
Sì, le cose sono andate così: intorno al 1965 un professore di matematica,
Chevalley, ha insegnato a giocare al mio amico Jacques Roubaud. A sua volta,
Jacques Roubaud ha insegnato a giocare a due persone: a me e
a Pierre Lusson. E tutti e tre abbiamo scritto un libro
sul go, senza sapere che un altro giocatore, Giraud, conosceva da tempo il gioco
e aveva scritto un manuale
che non riusciva a far pubblicare. In seguito abbiamo
fondato un club, e tutti i membri del club in brevissimo
tempo sono diventati più bravi di noi...
Come spiega il relativo insuccesso del go in Francia?
Non è un insuccesso, a mio parere.
Eppure, quando se n'è cominciato a parlare, una decina di anni fa, si aveva l'impressione che il gioco si stesse diffondendo sempre di più. Invece oggi siamo ancora allo stesso punto, con piccoli club tra amici... Forse perché è un gioco veramente difficile. E un po' arido. Inoltre non ha beneficiato, come gli scacchi, di una specie di tradizione: in Francia tutti i giornali hanno una rubrica di scacchi. Ma poi, negli scacchi, si persegue un unico scopo: la presa del Re; e ci sono solo tre soluzioni: si vince, si perde, si pareggia. Il go invece è un gioco continuo, che richiede disposizioni d'animo molto diverse. Uno dei principali scogli del go, ad esempio, è capire quando la partita è terminata, in quale momento uno dei due giocatori controlla più territorio dell'altro, e come questo vantaggio si materializza! Quando nei resoconti delle partite leggiamo che qualcuno abbandona alla 60a o 90a mossa perché sa che alla fine perderà di due punti, ci sembra inverosimile. Eppure la maggior parte del tempo le differenze, almeno tra giocatori dello stesso livello, non sono maggiori di questa. E comunque, in questi anni, un francese è stato campione d'Europa.
[...]
Così possiamo passare abilmente al rapporto tra il gioco e la creazione letteraria...
Scrivere, per me, è un modo di riorganizzare le parole del dizionario. O i
libri che ho già letto. Alquanto banale, come vede.
Non tanto: quasi tutti scrivono per cambiare il mondo...
Quello è un altro paio di maniche! Dunque, dicevo,
all'inzio ci vuole una certa disponibilità nei confronti
di un insieme. Di un catalogo, di un
corpus.
Si hanno a disposizione un certo numero di elementi e con questi
si deve costruire qualcosa. Il primo lavoro che si rende
necessario è una ridistribuzione, una riorganizzazione,
quindi una disponibilità. Voglio dire che non ci si può
accontentare di forme fisse, di modelli dati, di congegni
prestabiliti. Da un certo punto di vista: «D'amore morir
mi fanno, bella marchesa, i vostri begli occhi», è l'inizio
della letteratura. Il risultato non è eccelso, ma il procedimento è lo stesso:
quando M. Jourdain capisce che,
sebbene il senso resti lo stesso, l'effetto «poetico» della
sua frase cambia con l'ordine delle parole, scopre la letteratura. E credo che
il primo metodo che si può utilizzare, per arrivare a questa consapevolezza, sia
il gioco. Ecco cosa unisce il fatto che amo giocare con il fatto che amo
scrivere.
La vita istruzioni per l'uso
è nato dall'idea di un puzzle. Il puzzle ha fatto nascere un uomo che fabbricava
puzzle. E l'intero libro è venuto su come una casa le cui
stanze si dispongono come i pezzi di un puzzle. E tutto
questo ha dato una macchina per raccontare molte storie.
Già. Questo oggi lo sappiamo bene. Ma è stato sempre così? Che ruolo ha il gioco ne Le cose, Quale motorino, W ecc.?
Ne
Le cose
non è molto evidente. Perché all'epoca
nemmeno per me era molto evidente. E comunque
Le cose
è un libro che si è formato a partire da due letture: l'
Educazione sentimentale,
che si intravede in un gioco continuo di citazioni, e le riviste femminili:
«Elle», «Madame Express» ecc. Poiché cercavo di esprimere
quella che si dice una «situazione personale» nei confronti della società dei
consumi, questa lettura si è sviluppata attraverso l'insegnamento di Roland
Barthes, quindi con una certa portata critica, come quella dei suoi
Miti d'oggi.
Ma dal punto di vista del gioco, la cosa era ancora informe.
Eppure c'è del «gioco»... nel senso del montaggio cinematografico!
Ah sì, il
décalage:
è una nozione molto importante, per me. Infatti la incontriamo spesso: quando
cerchiamo di risolvere un puzzle, o un problema di tangram,
deve prodursi un certo slittamento tra quello che vediamo e quello che dovremmo
vedere. Nel
Motorino
è invece molto più netto: c'è tutto un gioco sulle figure
della retorica classica.
Passando a un altro campo, se mettiamo insieme lettere e logica, otteniamo la crittografia. Se n'è mai occupato?
Sì, me ne sono occupato, ma anche in questo caso
in un modo del tutto laterale. Per esempio non so assolutamente risolvere quei
codici la cui chiave è un numero. Non so proprio come fare. La maggior parte
dei problemi crittografici, tuttavia, si risolvono utilizzando le leggi di
frequenza delle lettere. È peraltro
una delle cose che mi hanno dato l'idea di scrivere
La scomparsa.
Dato che la «e» è la lettera più frequente, la si sopprime, e si ottiene un
testo che, se venisse codificato, sarebbe probabilmente molto difficile da
decifrare con i metodi abituali.
Sarebbe stato ancora più difficile se avesse disseminato qualche «e» qui e là! E per quanto riguarda i giochi con i numeri?
Ah, non ho nessuna propensione per quelli... Eccetto le divisioni per nove.
Passo il tempo a verificare che, quando un numero è divisibile per 9, la somma
delle sue cifre è un multiplo di nove... C'è qualcosa che mi affascina nei
numeri. Ecco una cosa che mi piacerebbe conoscere bene, credo la chiamino
«numerologia»: sono tutte le proprietà dei numeri, i numeri
primi, le divisibilità, ecc.
E i giochi logici?
Non sono molto a mio agio nemmeno con i giochi logici.
Non le piacciono le meravigliose storie di Lewis Carroll? Ah sì: il gioco della logica, i giochi booleani? No, davvero, è difficilissimo per me risolverli. La storia delle Signorine di Bagdad, quella che racconta Jacques Roubaud, ho fatto una gran fatica a capirla... anche se mi dicono la soluzione, non riesco a capire come ci si arriva. Non è esattamente il mio campo... Io sono davvero confinato nell'universo delle lettere e delle parole. Per quanto anche quello sia un universo che non finirà mai di meravigliarci... | << | < | > | >> |Pagina 29Nel capitolo 3 del Genji monogatari di Murasaki Shikibu, romanzo giapponese scritto da una donna intorno all'anno mille, uno dei capolavori della letteratura mondiale, il protagonista, il «principe splendente» Genji, innamorato della bella Utsusemi, sposa del governatore Iyo no Suke, si è introdotto in modo fraudolento negli appartamenti della ragazza con la complicità del giovane fratello di lei. Nascosto dietro una tenda, il principe spia Utsusemi e la sua amica Nokiba no Ogi, assorte in un'infervorata partita di go. Il Genji Monogatari Emaki (rotolo dipinto), che illustra alcune scene del libro, permette anche a noi di scorgere, da un punto posto più o meno sul soffitto della stanza (che si suppone sia rialzato, come nel Diavolo zoppo), Genji, Utsusemi, Nokiba e la manciata di pietre bianche e nere che indicano l'andamento della partita. Così, in un'epoca più o meno contemporanea agli incidenti di frontiera enfatizzati dalla Canzone di Orlando, i cortigiani e le dame di Heian-kyō (l'odierna Kyoto, la «capitale della pace»), preferivano combattere in modo più allusivo. Qui le vittorie del principe Genji non ci interessano, ed è probabile che il saggio Kenkō, negli Tsurezure-Gusa, abbia davvero pronunciato la severa condanna del giocatore di go citata in epigrafe. È però altrettanto vero che questo gioco, arrivato, come vi sarà tra poco raccontato, dalla Cina, insieme, o quasi: alla scrittura al buddismo alle norme per l'amministrazione delle province e all'etichetta di corte è uno degli ingredienti di quel miscuglio di impassibile soavità e feroce sottigliezza che per noi, osservatori lontani, è quasi il marchio del Giappone. I giapponesi, verrebbe da dire, sono sempre occupati a giocare: Genji, ad esempio, non gioca solo con Utsusemi, Nokiba o Fujitsubo; gioca anche con i giardini; in ciascun'ala del suo palazzo (palazzo dell'ovest, palazzo dell'est, del nord e del sud), e per ognuna delle quattro dame che occupano più intensamente i suoi pensieri, il principe allestisce quel tanto di sabbia, di fiumi, di foglie e di fiori affinché uno dopo l'altro, stagione dopo stagione, ogni giardino raggiunga lo splendore voluto nel momento migliore per l'anima, l'età, i gusti e la bellezza particolare di Murasaki, il «fiore di porpora»; della dama di Akashi conosciuta durante l'esilio a Suma; di Aoi; e della Dama del Villaggio dei Fiori Caduchi. Il gioco dei fiori è l' Ikebana; si gioca anche con pezzi di legno, puzzle dalle soluzioni multiple, i più perfetti dei quali richiedono, per essere risolti, una vita intera; – con la carta: origami piegati a forma di cicogne, galli o oche selvatiche; – con le sillabe: con trentuno di esse si può fare, in cinque versi, un tanka; con diciassette un haiku di tre versi;
– e con circa duemila
tanka,
poesie scritte da cento poeti, si mette insieme, su ordine dell'imperatore,
un'antologia che è allo stesso tempo un favoloso animale di carta, un puzzle
impossibile, un mazzo di diecimila fiori (
Man'yōshū
«Raccolta di diecimila foglie»),
un giardino e una gigantesca partita di go, le cui poesie,
buone o cattive, vecchie o nuove, «di trama o di ordito», sono le pietre bianche
e nere...
0.2.1. Nascite Almeno tre leggende raccontano la nascita del go. Secondo la prima, ad inventare il gioco fu l'imperatore Shun, che regnò in Cina poco più di quattromila anni fa, allo scopo, si dice, di ravvivare l'intelligenza di suo figlio Shang Kiun (o Shokin), che si rivelava un po' tardo. La seconda ne attribuisce l'invenzione a Yao, che precedette Shun sul trono e che regnò per quasi cento anni. La terza afferma che durante il regno dell'imperatore Ketsu (o Kwei), cioè nel XVIII secolo prima della nostra era, un vassallo di nome Wu lo inventò per distrarre il suo signore. Wu sarebbe anche l'inventore delle carte da gioco, il che dovrebbe bastare per inficiare la leggenda («Solo Dio», ha detto Po Chü-i, «può dominare il Caso e la Legge»). | << | < | > | >> |Pagina 37Come gli scacchi, come la dama, il go si gioca in due, con pedine (dette pietre) bianche e nere, e si conclude dopo un certo numero di mosse. Non vi è nulla di nascosto e il caso vi è escluso, eccetto nei meccanismi psicologici dei giocatori. Come per gli scacchi, come per la dama, esiste una strategia vincente che, ovviamente, nessun mortale (e nessun computer) possiede, il che ci permetterà di giocare ancora per un certo tempo. Le possibilità di gioco, piuttosto limitate nelle primissime mosse, aumentano in modo considerevole verso la metà della partita per decrescere in seguito molto velocemente man mano che si avvicina la fine. Il go, come gli altri giochi menzionati sopra, è dunque un Duello. Occorre prevedere, riflettere. La scienza del gioco, poiché non esiste teoria, riposa sui trattati, sull'esperienza degli Anziani, sull'esempio dei grandi giocatori.
Il go ha le sue modalità e le sue scuole, i suoi segreti
e i suoi misteri, il suo fascino e il suo splendore, i suoi
fenomeni e le sue leggende. Come gli scacchi, come – persino – la dama.
a) Il go comincia davanti a una scacchiera vuota (chiamata «GOBAN»), il campo di battaglia. b) Le pietre non sono poste sulle caselle, ma sull'intersezione delle linee. c) Le pietre non si muovono sul campo. d) Le pietre sono tutte uguali, nessuna vale più di un'altra e il loro valore è dato solo dalle regioni vuote che circondano.
Una descrizione precisa delle regole e degli scopi del gioco sarà data al
capitolo I, ma queste poche
indicazioni bastino a mostrare come il go sia radicalmente diverso da tutti i
giochi conosciuti. Non si
tratta né di «una specie di scacchi» né di «una specie
di dama». Il solo gioco al quale può ragionevolmente far pensare il go (e che
praticano effettivamente i giocatori di go, i quali lo inventarono per
rilassarsi) è quello che i liceali chiamano affettuosamente
«morpion» e che per generazioni di studenti ha fatto
concorrenza al latino o alla matematica. Il suo nome giapponese è GOMOKU.
In questo modesto volume torneremo spesso, per facilitare la comprensione di alcuni principi del gioco, sul gioco degli scacchi. Sappiate che si tratta solo di un espediente, imposto dall'incresciosa popolarità di questo gioco balordo in Francia. Poiché dovete accettare quest'idea fondamentale: il go è l'anti-scacchi. Il gioco del go non è il gioco degli scacchi giapponese. Un gioco degli scacchi giapponese esiste e si chiama SHÔGI. Non si è mai visto un giocatore di go giocare allo SHÔGI. Ci sia dunque consentito di riassumere qui tutto il male che pensiamo degli scacchi. 1. È un gioco feudale, fondato sull'Esaltazione del Torneo e sull'ineguaglianza sociale. 2. È un gioco le cui regole variano ogni tre secoli. 3. È un gioco di dubbia antichità (più o meno contemporaneo della Canasta!) 4. È un gioco che (come la Dama!) contempla solo tre risultati, senza sfumature: la vittoria, la sconfitta, il pareggio. Si vince, si perde, certo, ma non si può vincere di un punto, suprema raffinatezza del go! 5. E poi non è un gioco che insegna le buone maniere! 6. Se due giocatori di diversa bravura giocano insieme il più bravo rischia inevitabilmente di annoiarsi. 7. Una partita a scacchi dura a dir tanto trenta mosse. 8. È un gioco confuso dove non c'è una pedina che faccia le stesse mosse dell'altra. 9. Noi non sappiamo giocare a scacchi. | << | < | > | >> |Pagina 51La bellezza del go, il fascino che esercita, l'emozione intensa che suscita, l'esaltazione che provoca vengono dal mistero, dai misteri che, a ogni istante, a ogni livello, all'inizio o alla fine della partita, in un giocatore principiante o in uno esperto, accompagnano ogni mossa, ogni scambio.
Il mistero, l'emozione che fa quasi tremare la
mano posando la pietra; la fascinazione che nasce
lentamente e poi s'impone durevolmente fino a divenire ossessione, se non
addirittura angoscia; l'estrema
bellezza che in ogni istante pervade lo spazio inerte
dove gli avversari si affrontano con tutta l'efferatezza delle scaramucce
locali, con tutta la quiete degli
spazi protetti, con tutta la raffinatezza delle trappole lungamente
architettate, proiettando nel tempo e
nello spazio il sortilegio di figure dai mille capovolgimenti: ci piacerebbe
qui, ora, per un istante, poterli
condividere, saperne parlare; ma, novizi tra i novizi,
sapendo fin troppo che in questo gioco saremo sempre principianti, sapendo fin
troppo che una vita intera non basterà a farci percepire un solo quarto delle
raffinatezze che accompagnano il go, subiamo questa
fascinazione senza poterla esprimere.
Se è vero che un gioco è attraente finché conserva per colui che vi si dedica la promessa di un'abilità sempre più grande, l'intuizione di uno stadio ancora da raggiungere, allora il go è veramente il Gioco dei Giochi. E non solo per noi, di cui si potrebbe pensare che, nati nell'Europa dai balconi antichi, vi troviamo la sorgente di un esotismo intellettuale fonte di stuzzicanti piaceri. Il che è vero, ma non sufficiente. Perché il genio del go sta precisamente nel suo celare e svelare, a ogni istante, a ogni livello, e secondo una certa gerarchia, nuovi misteri, la cui successiva padronanza trasforma via via il gioco: Giardino dei sentieri che si biforcano, labirinto, gioco babelico, ogni progresso è decisivo e ogni progresso è inutile: non avremo mai finito di imparare... | << | < | > | >> |Pagina 55Perché giocare, allora? si chiederà qualcuno cui sembrerà paradossale dedicarsi a un gioco che non si dominerà mai. Perché giocare? Poiché comunque non si farà altro che ripetere servilmente, senza averle mai davvero assimilate, senza poterle criticare, senza poterne inventare altre, mosse a volte millenarie. Forse proprio perché quei misteri sorgono uno dopo l'altro, perché il sistema straordinariamente perfezionato degli handicap ci permetterà, già dalla nostra quinta o sesta partita, di giocare, con profitto, contro un avversario molto più esperto. Ma soprattutto perché la raffinatezza del gioco non si monetizza, come avviene negli scacchi, in tutto o niente; perché il semplice sviluppo di una partita tra principianti dà già conto, necessariamente, di una ginnastica intellettuale, di un'agilità nella percezione delle forme, nella stima delle forze, di fronte alla quale l'arte dello «squeeze» o il gambetto di torre sembreranno sempre giochi da ragazzi. Forse, anche, perché il groviglio delle pietre bianche e nere disegna linee, reti, zone piacevoli da guardare.
Forse, infine, perché si tratta di una strada infinita.
Esiste una sola attività cui si possa ragionevolmente accostare il go. Lo avrete capito, è la scrittura. | << | < | > | >> |Pagina 1281. Si gioca in due. Al nero spetta la prima mossa. 2. All'inizio della partita, il GOBAN è vuoto. Ogni giocatore posa a turno una pietra su una qualsiasi intersezione vuota (compatibilmente con le regole 3, 4, 5) e può saltare il proprio turno ogni volta che lo desidera. Le pietre si spostano solo per toglierle dal GOBAN, quando vengono catturate (regole 3, 4, 5). 3. Una pietra isolata, oppure un gruppo di pietre connesso, è in «ATARI» (scacco) se gli resta un'unica libertà. Annunciare lo scacco non è obbligatorio. Sopprimendo l'ultima libertà di una pietra o di un gruppo di pietre li si fa prigionieri. Le pietre prigioniere vengono immediatamente tolte dal GOBAN e tenute da chi le ha catturate. 4. Non ci si può mettere in condizione di essere catturati senza catturare. 5. In caso di KO, non si può «riprendere il KO» prima di aver fatto una mossa altrove. 6. Lo scopo della partita è conquistare la maggior parte del territorio. 7. Il gioco si ferma per reciproco accordo. I DAME vengono allora riempiti. Le pietre morte vengono aggiunte ai prigionieri. 8. Vince il giocatore che ha il maggior numero di punti di territorio, dopo aver sottratto le sue pietre prigioniere dell'avversario. In caso di pareggio perde il nero. | << | < | |