Copertina
Autore Georges Perec
Titolo Un uomo che dorme
EdizioneQuodlibet, Macerata, 2009, Compagnia Extra 7 , pag. 176, cop.fle., dim. 12x19x1,2 cm , Isbn 978-88-7462-242-9
OriginaleUn homme qui dort
EdizioneDenoël, Paris, 1967
PrefazioneGianni Celati
TraduttoreJean Talon
LettoreRenato di Stefano, 2010
Classe narrativa francese
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Indice


   7  Un uomo che dorme

 145  Nota del traduttore

 151  Georges Perec e l'uomo che dorme
      di Gianni Celati


 

 

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Pagina 13

Non appena chiudi gli occhi comincia l'avventura del sonno. Al posto della solita penombra nella stanza, volume oscuro che si interrompe qua e là, dove la memoria identifica senza sforzo le vie percorse mille volte, rievocandole a partire dal quadrato opaco della finestra, resuscitando il lavabo a partire da un riflesso, e lo scaffale grazie all'ombra un po' più chiara d'un libro, delineando la massa più buia degli abiti appesi, dopo un po' subentra uno spazio bidimensionale, come un quadro dai limiti incerti che formi un angolo col piano dei tuoi occhi, quasi poggiasse non del tutto perpendicolarmente sul colmo del tuo naso; ed è un quadro che, all'inizio, può sembrarti uniformemente grigio, anzi neutro, senza colori né forme, ma che con ogni probabilità, di lì a poco, risulta possedere almeno due caratteristiche: la prima è che si inscurisce più o meno secondo che tu stringa più o meno forte le palpebre, o più precisamente: come se la contrazione esercitata sull'arco delle sopracciglia quando chiudi gli occhi ottenesse l'effetto di modificare l'inclinazione dell'inquadratura rispetto al tuo corpo, quasi che l'arco delle sopracciglia funzionasse da cerniera, e di conseguenza, benché questa conseguenza non sembri dimostrabile se non con l'evidenza, modificasse la densità o la qualità dell'oscurità da te percepita; la seconda caratteristica è che la superficie di tale spazio non è affatto regolare, o, più precisamente, che la distribuzione o diffusione dell'oscurità non si dà in modo omogeneo: la zona superiore è palesemente più buia; mentre la zona inferiore, quella che ti sembra più vicina, benché sia ovvio che le nozioni di vicino e lontano, alto e basso, davanti e dietro, hanno ormai smesso di aver un senso preciso, per un verso è decisamente più grigia, ossia non tanto più neutra, come credi in un primo momento, ma proprio più bianca, e per l'altro verso contiene o sorregge una, due o più specie di sacche, di capsule, un po' come l'idea che ti fai, per esempio, di una ghiandola lacrimale, con gli orli sottili e ciliati, sacche al cui interno si agitano, tremolano e si contorcono dei lampi bianchissimi, talvolta molto sottili, come finissime striature, talvolta molto più grossi, quasi grassi, come vermi. Questi lampi, benché lampo sia un termine del tutto inappropriato, hanno la strana virtù di non poter essere guardati. Appena ti fissi un po' troppo su di loro, ed è quasi impossibile non farlo, perché insomma ti ballano davanti, e tutto il resto finisce per esistere a malapena, e in effetti non c'è molto che sia davvero percepibile, oltre alla cerniera sulle tue sopracciglia e quel vago spazio bidimensionale più o meno distinguibile dove l'oscurità si dispiega in modo irregolare; ma appena li guardi, sebbene questa parola ormai non voglia dire più niente, è chiaro, appena tenti, poniamo, di farti una qualche idea sulla loro forma, sulla loro sostanza o su un loro particolare, puoi star sicuro di ritrovarti con gli occhi spalancati davanti alla finestra, rettangolo opaco ridiventato quadrato, benché quella o quelle sacche non gli somiglino per niente. Ma poi, dopo un po' che hai richiuso gli occhi, quelle riappaiono e con loro lo spazio più o meno inclinato che si dispiega sopra le tue sopracciglia, e c'è da supporre che non siano cambiate tra una volta e l'altra. Tuttavia, non puoi essere del tutto sicuro su quest'ultimo punto, poiché in un arco di tempo difficile da valutare, e benché ancora niente ti permetta di dichiarare con certezza la loro sparizione, puoi ben constatare che si sono sbiadite un bel po'. Adesso hai a che fare con una specie di grisaglia striata, sempre appartenente a questo spazio che più o meno è un prolungamento dalle tue sopracciglia, ma, si direbbe, così deformato da essere come tirato in continuazione verso sinistra; puoi guardarlo, esplorarlo, senza perturbare l'insieme, senza provocare un immediato risveglio, ma tutto questo alla fine non ha il minimo interesse. È sulla destra che succede qualcosa, nella fattispecie si tratta di un'asse, più o meno dietro di te, più o meno sopra, più o meno a destra. L'asse, ovviamente, non si vede. Sai soltanto che è dura, anche se non ci sei sopra, poiché sei, appunto, su qualcosa di molle che è il tuo stesso corpo. Si verifica, allora, un fenomeno davvero strano: dapprima ci sono tre spazi che niente ti darebbe agio di confondere, il tuo corpo-letto, che è molle, bianco e orizzontale, poi l'arco delle tue sopracciglia, che domina uno spazio grigio, intermedio e obliquo, e infine l'asse, che è immobile, molto dura sopra, in parallelo con te, e forse accessibile. È in effetti chiaro, anche se di chiaro ormai c'è solo questo, che se sali sull'asse, dormi, e che l'asse è il sonno. Il principio di quest'operazione non potrebbe essere più semplice, anche se tutto ti fa pensare che ti ci vorrà un bel po' di tempo: perché bisognerebbe radunare il letto e il corpo, finché non siano nient'altro che un punto, una biglia, oppure, che è la stessa cosa, ridurre tutto il flaccido del corpo concentrandolo in un unico posto, tipo, ad esempio, una vertebra lombare. Ma il corpo a questo punto non ha più quella bella compattezza di poco fa, infatti si sparpaglia in tutti i sensi. Tenti allora di riportare verso il centro un dito del piede, un pollice, o la coscia, ma ogni volta c'è una regola che dimentichi, cioè che non bisogna mai perdere di vista la durezza dell'asse, che bisogna procedere con astuzia, radunare il corpo senza che se ne accorga, senza che tu stesso lo sappia con certezza; ma ora è troppo tardi; ogni volta, da molto tempo ormai è già troppo tardi, e, strana conseguenza, l'arco delle sopracciglia si spacca in due, sicché al centro, tra i tuoi occhi, come se la cerniera avesse tenuto l'insieme, e tutta la forza di questa cerniera si concentrasse in quel punto, ora sopraggiunge d'un sol tratto un dolore preciso, indubbiamente cosciente, e che subito riconosci come il più banale dei mal di testa.

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Pagina 33

All'inizio ci sono immagini famigliari od ossessive; una distesa di carte che prendi e riprendi senza sosta, incapace di riuscire a disporle nell'ordine che vorresti tu, con la sgradevole sensazione di dover finire, di dover riuscire a metterle in ordine, come se da ciò dipendesse lo svelarsi di una qualche verità essenziale, poi però ti accorgi che la carta che ininterrottamente prendi e riprendi, metti e rimetti, classifichi e riclassifichi, è sempre la stessa carta; una folla che va su e giù, avanti e indietro; muri che ti circondano e di cui cerchi il passaggio segreto, il pulsante nascosto che faccia ribaltare le pareti e volar via il soffitto; abbozzi di forme che se la squagliano, ritornano, spariscono, si avvicinano e sfumano, fiamme o figure femminili danzanti, giochi di ombre.


Poi dei ricordi che non riescono più ad aprirsi un varco, prove che non provano più niente, se non che un Osservatorio ad Aberdeen, a Inverness, è forse effettivamente riuscito a captare certi segnali provenienti da costellazioni lontane: era la Nebulosa di Andromeda? O la Costellazione di Goll e Burdach? Oppure la Lamina Quadrigemina? Quindi la soluzione immediata, ovvia, di quel problema su cui non avevi mai smesso di scervellarti: il cavallo non prende a cuori se il fossato non l'ha scartato. Parole sconnesse, dal senso aggrovigliato, ti ronzano attorno. Quale uomo è rinchiuso in quale castello di carte? Che filo! Quale Legge?

Bisogna essere precisi, logici. Agire con metodo. Ad un certo punto, bisogna a tutti i costi sapersi fermare, riflettere, ben soppesare la situazione. Se al centro della tua testa c'è un lago, cosa che non solo è verosimile, ma anche normale, anche se non la si può affermare senza prendere precauzioni, ti ci vorrà un po' di tempo per raggiungerlo. Non ci sono sentieri, non ci sono mai sentieri, e sulle sponde dovrai fare attenzione alle erbacce, sempre pericolose in questo periodo dell'anno. Non ci potranno essere neanche delle barche, ovviamente, dato che le barche non ci sono quasi mai, puoi però attraversarlo a nuoto.

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Pagina 44

Non è che detesti gli uomini, per quale motivo dovresti detestarli? Per quale motivo dovresti detestarti? Se solo l'appartenenza alla specie umana non fosse accompagnata da quest'insopportabile frastuono, se solo i pochi, ridicoli passi avanti compiuti nel regno animale non si dovessero pagare con questa perpetua indigestione di parole, progetti, grandi partenze! Ma il prezzo è troppo salato per due pollici opponibili, una stazione eretta e una non completa rotazione della testa sulle spalle: questo gran calderone, questa fornace, questa graticola che chiamiamo vita, questi miliardi di intimazioni, incitamenti, moniti, esaltazioni e disperazioni, questo mare di obblighi a non finire, quest'eterna macchina per produrre, macinare, scialacquare, trionfare su ogni insidia e ricominciare da capo, questo dolce terrore che vuole regolare ogni giorno e ogni ora della tua esile esistenza!


Non hai vissuto granché, eppure tutto è già deciso e definito. Hai solo venticinque anni, ma la tua strada è tracciata. Tutti i ruoli sono pronti, e così le etichette: dal vasino della prima infanzia alla sedia a rotelle della vecchiaia tutti i sedili sono lì che aspettano il loro turno. Le tue avventure così ben dettagliate che anche davanti alla più violenta delle ribellioni nessuno batterebbe ciglio. Hai un bel scendere in istrada e sbatter per terra il cappello alla gente, cospargerti il capo di spazzatura, andar scalzo, pubblicare manifesti politici e sparare revolverate all'usurpatore di turno, non servirà a niente: hai già un letto fatto nel dormitorio dell'ospizio, un posto apparecchiato alla tavola dei poeti maledetti. Battello ebbro, miserabile miracolo: lo Harar è soltanto un parco divertimenti, un viaggio organizzato. Tutto è previsto, preparato nei minimi particolari: i grandi slanci del cuore, la fredda ironia, la lacerazione, la pienezza, l'esotismo, la grande avventura, la disperazione. Non venderai l'anima al diavolo, non andrai a gettarti nell'Etna coi sandali ai piedi, non distruggerai la settima meraviglia del mondo. Tutto è già pronto per la tua morte: il proiettile che ti porterà via è già stato fuso da un pezzo, le prefiche per seguire la tua bara sono già state designate.

Perché dovresti arrampicarti in cima alle montagne più elevate, quando poi un giorno ti toccherebbe dover scendere giù? e poi, una volta risceso, come evitare di passar la vita a raccontare di come ti eri dato da fare per salirvi? perché dovresti far finta di vivere? perché dovresti proseguire? sai o non sai già tutto quello che ti succederà nella vita? Sei o non sei già stato tutto ciò che dovevi essere: il degno figlio di tuo padre e di tua madre, il bravo piccolo scout, il bravo scolaro che avrebbe potuto far meglio, l'amico d'infanzia, il cugino lontano, il bel militare, il giovane squattrinato? Ancora qualche sforzo, oppure neanche quello, ancora qualche anno, e diventerai il funzionario zelante, il collega leale. Buon marito, buon padre, buon cittadino. Anziano combattente. Uno dopo l'altro zomperai come una rana sui gradini dell'affermazione sociale. Potrai scegliere, in un'ampia e assortita gamma, la personalità che più corrisponde ai tuoi desideri, la quale sarà tagliata su misura per te: pluridecorato? colto? fine buongustaio? sondatore di cuori e reni? amico degli animali? dedicherai il tuo tempo libero a massacrare su un pianoforte scordato delle sonate che non ti hanno fatto niente? o te ne starai a fumare la pipa su una sedia a dondolo, ripetendo a te stesso che in fondo c'è del buono nella vita?

No. Preferisci essere il pezzo mancante del puzzle. Te la cavi lasciando il banco e il beneficio. Non fai carte false, non ti giochi il tutto per tutto. Metti il carro davanti ai buoi, getti il manico dietro la scure, vendi la pelle dell'orso, ti mangi il grano in erba, ti mangi tutto, chiudi bottega e parti alla chetichella, te ne vai senza voltarti.

Non ascolterai più i buoni consigli. Non chiederai più un rimedio. Passerai oltre, guarderai gli alberi, l'acqua, le pietre, il cielo, il tuo viso, le nuvole, i soffitti, il vuoto.

Resti vicino all'albero. E non chiedi nemmeno al rumore del vento tra le foglie di farsi oracolo.

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Pagina 66

L'indifferente non ignora il mondo, né nutre nei suoi confronti ostilità. Quello che ti proponi non è di riscoprire le sane gioie dell'analfabetismo, bensì di leggere senza dare alle tue letture nessuna importanza particolare. Quello che ti proponi non è di andare nudo, bensì di vestirti senza che ciò debba implicare ricercatezza o trascuratezza; quello che ti proponi non è di lasciarti morire di fame, bensì di unicamente nutrirti. Non che tu voglia compiere tali atti in uno stato di totale innocenza, ché innocenza è parola troppo grossa: vuoi solamente, semplicemente (ammesso che questo «semplicemente» possa avere un senso) lasciarli in un terreno sgombro da ogni valore, un terreno neutro, evidente, palese, fattuale e non riconducibile a nient'altro, ma soprattutto non funzionale, poiché il funzionale è il peggiore di tutti i valori, il più subdolo e il più compromettente; che quindi non ci sia altro da dire se non: leggi, sei vestito, mangi, dormi, cammini, e che queste siano azioni, gesti, ma non prove e non monete di scambio: il tuo abbigliamento, il tuo cibo e le tue letture non parleranno più al tuo posto, non te ne servirai più per fare il furbo. Non gli affiderai più l'estenuante, impossibile, mortale compito di rappresentarti.


Ormai, quando mangi al bancone della Petite Source, alla Bière o da Roger la Frite, è un po' come quella che gli psicofisiologi chiamano una «dose di nutrimento»: una o due volte al giorno, raramente di più, ingerisci un composto di protidi e glicidi, abbastanza rigorosamente calcolabile, sotto forma di una porzione di carne di manzo ai ferri, di patate tagliate a lamelle e affogate nell'olio bollente e di un bicchiere di vino rosso. Si tratta di una bistecca, certo non di un tournedos, di patate fritte che nessuno si sognerebbe di proclamare «pommes-paille», di un bicchiere di vino rosso di cui sarebbe impensabile controllare la denominazione di origine o classificazione di qualità. Ma il tuo stomaco, se mai l'ha fatta, non fa più differenza, e il palato nemmeno. Il linguaggio, invece, ha opposto più resistenza: ti ci è voluto un po' di tempo perché la carne cessasse di essere stopposa, coriacea e filamentosa, le patate fritte unte e mollicce, il vino acido o sciropposo, e perché tutti questi epiteti eminentemente spregiativi – che subito veicolano tristi significati, evocando pasti da poveri, cibi da barboni, minestre popolari e fiere di periferia – perdessero un po' alla volta la loro sostanza, e perché la tristezza, la povertà, la penuria, il bisogno e la vergogna che vi erano inesorabilmente incollate – il grasso diventato patatina fritta, la durezza diventata carne, l'acidità fattasi vino – cessassero di impressionarti e di segnarti; così come, viceversa, ti ci è voluto un po' di tempo perché cessassero di convincerti gli opposti nobili segni dell'abbondanza, della gozzoviglia e della festa: la consistenza tenera e succulenta dei tagli di charolais, dei tournedos, dei pavés, dei bocconcini di filetto, delle entrecôes «forts des Halles», il croccante dorato delle «pommes-paille» o «allumette», dei soufflé di patate e delle patate alla Dauphine, il bouquet del vino pregiato nella sua cesta. Nessuna sacra energia e nessun divino nettare riempiono più il tuo piatto e il tuo bicchiere. Nessun punto esclamativo accompagna i tuoi pasti. Mangi carne e patatine fritte, bevi del vino. L'incolmabile distanza che separa la costata di manzo della Villette dal «menù completo» che quasi tutti i giorni, appena entrato, ordini al cameriere dietro al banco della Petite Source, non ha più potere su di te.

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