Copertina
Autore Matteo Pericoli
Titolo New York e altri disegni
EdizioneQuodlibet, Macerata, 2005 , pag. 78, ill., cop.fle., dim. 165x235x8 mm , Isbn 978-88-7462-042-5
LettoreFlo Bertelli, 2006
Classe arte , illustrazione , architettura , citta': New York
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Indice

  9 Le linee di un racconto
    Achille Varzi

 13 Il sapore dell'architettura
    Gilberto Rossini

 17 New York e altri disegni

 69 New York, febbraio 2005
    Matteo Pericoli

 73 Notizia sull'autore

 75 Elenco delle illustrazioni

 

 

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Pagina 9

Le linee di un racconto

Achille Varzi


Si potrebbe pensare che i disegni di Matteo Pericoli siano delle raffigurazioni: che le linee che escono dalla sua penna riproducano diligentemente i contorni delle cose che si presentano al suo occhio attento, per quanto la mano conosca bene il valore aggiunto dei tremolii, dei cambi di spessore, dell'intensità mutevole del tratto. Si potrebbe pensare che le cose stiano così almeno per quei disegni che in vario modo si riferiscono effettivamente a soggetti reali, meglio ancora se inanimati, come i ritratti dell'isola di Manhattan e gli studi degli edifici di Midtown, o come le vedute dalla finestra di casa. In questi lavori l'intenzione raffigurativa è esplicita, e si capisce perché il pubblico e la critica americana li abbiano subito accolti non solo con ammirazione ma anche con autentica gratitudine: ammirazione per la loro bellezza, semplice e spettacolare al tempo stesso; gratitudine per la minuzia dei dettagli e per gli affreschi d'insieme con cui Matteo ha saputo "far vedere la città" ai suoi cittadini, come scriveva Paul Goldberger sulle pagine del "New Yorker".

Eppure non si tratta semplicemente di raffigurazioni. Nelle opere di Matteo l'intenzione raffigurativa entra in gioco all'inizio e s'impone prepotentemente sul prodotto finale, ma ciò che le contraddistingue è soprattutto la loro capacità di testimoniare il complicato lavoro di astrazione e interpretazione che sta nel mezzo. Le linee d'inchiostro che corrono sulla carta sono lì ad attestare, non già i contorni delle cose, bensì il gesto contornante di Matteo. Lo scopo di quelle linee non è di rappresentare il visibile – di imitarlo – ma di renderlo visibile.

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Pagina 69

New York, febbraio 2005

Matteo Pericoli


Ricordo che quando ero piccolo mio padre Tullio prendeva spesso carta e matita per farmi dei disegni. Ricordo anche che da quel bastoncino di legno che lui teneva in mano usciva un filamento irregolare, ondulato, alle volte preciso e netto altre incerto e tremulo, che come per magia creava figure, animali, personaggi e paesaggi. Ricordo che non appena il filamento faceva le prime curve, una a destra e una a sinistra poi magari una secca svolta ad angolo retto o addirittura un dietro front, la mia mente partiva alla ricerca dell'immagine finale, cercando di indovinare in anticipo ciò che stava nascendo davanti ai miei occhi. Ma, soprattutto, ricordo che non appena la matita iniziava a muoversi e il primo filamento compariva dalla sua punta, venivo preso da una travolgente allegria che si trasformava in un irresistibile impulso a ridere.

Nel 1995, alcuni mesi dalla mia laurea in architettura al Politecnico di Milano, partii per New York. L'idea era quella di assorbire e capire un modo di fare l'architettura che probabilmente era molto diverso da quello che avevo studiato; e poi provare anche ad assorbire e capire una città come New York, che era certamente diversa da qualsiasi città che avevo mai visto. Il programma era anche di tornare in Italia dopo un anno o due per mettere in pratica ciò che avrei imparato. Sono passati dieci anni ormai, e sono ancora qui.

Poco dopo il mio arrivo a New York, lessi in un'intervista al "New Yorker" che Saul Steinberg (anche lui architetto di formazione) si era reso conto che non avrebbe mai fatto il mestiere dell'architetto quando cominciò a terrorizzarlo l'idea che una di quelle sue linee potesse un giorno divenire realtà. Leggere questa sua osservazione — disse anche di aver imparato che quando la gomma cade dal tavolo bisogna lasciarla rimbalzare liberamente a destra e sinistra prima di cercare di raccoglierla — mi colpì molto e aumentò la mia soggezione verso la disciplina dell'architettura.

Durante il mio lavoro di tesi con l'allora ottantenne architetto Volfango Frankl (ex collaboratore di Mario Ridolfi), afferrai — più di quanto mi fosse mai stato trasmesso prima — quanto sia fondamentale il disegno nella progettazione. Ma non tanto il "saper disegnare" (che fu, a dire il vero, il motivo principale per cui scelsi architettura, per la mia capacità di "tenere la matita in mano"), bensì il "voler disegnare", che sono due cose ben diverse.

Il disegno è uno strumento estremamente versatile che l'architetto può usare come una macchina fotografica o una telecamera per annotare il mondo che lo circonda, oppure come un computer, col quale può creare una realtà virtuale, uno spazio che ancora non esiste. In entrambi i casi il disegno è fondamentale per approfondire, capire e imparare. Nel caso della progettazione, il terrore a cui si riferiva Steinberg proviene (o meglio, questo è il terrore come lo vedo io o come lo provo io) dal desiderio di conoscere a fondo ciò che la matita produce, di possedere sia il disegno che lo spazio prima di "lasciarli andare". E siccome si può scavare e cercare quanto si vuole, ma imparare davvero sembra essere un traguardo che si sposta più velocemente di quanto noi ci avviciniamo, ecco che l'idea di un disegno non ancora finito — e che finito non potrà mai essere — e trasformarlo in realtà può dare vita a un timore paralizzante.

Ma c'è un modo per ovviare alla paura: avere un metodo. Dopo aver passato circa un anno collaborando con diversi studi, all'inizio del 1997 entrai nello studio di Richard Meier per lavorare alla chiesa del Giubileo da costruire a Roma. Mi accorsi subito che lavorare nello studio di Meier aveva qualecosa in comune con uno dei principi che Volfango Frankl mi aveva comunicato con così tanta passione: la cura e l'ossessione per i particolari costruttivi. Attraverso l'analisi dei dettagli, il controllo dello spazio è più completo, più vivo. E ogni progetto che esce dallo studio di Meier contiene un'innumerevole quantità di disegni di particolari costruttivi. Non c'è un angolo del progetto che non venga indagato, scandagliato e risolto. Un'impresa che di primo acchito sgomenta, ma che diventa poi immensamente appagante.

Il particolare costruttivo (o dettaglio) è un tipo di disegno architettonico a sé stante: deve informare, deve essere preciso, e può essere più realistico e allo stesso tempo più astratto di una qualsiasi pianta o prospetto. Ad osservare — e a capire — il dettaglio sarà il più delle volte un muratore o un carpentiere, e raramente il pubblico o un critico d'architettura. Si disegna spesso in scala 1:1, per cui le linee finiscono per accarezzare e diventare quelle viti, quei bulloni, quei materiali e connessioni che esisteranno poi nel prodotto finito. Il linguaggio del dettaglio è il linguaggio della realtà. È come un disegno di anatomia, con la matita si disegnano i muscoli e le articolazioni che sosterranno il corpo dello spazio architettonico.

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