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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione 9 I. In cerca del capolavoro 14 II. Soli o accompagnati 19 III. L'ingresso 25 IV. Il biglietto 29 Il bookshop — Intervista a Laura Bassi 35 V. Vietato toccare 40 Il custode museale — Intervista a Fabio Pasi 45 VI. Di fronte all'opera 49 VII. Dietro all'opera 85 VIII. Acquisti, donazioni e saccheggi 92 IX. Cosa mi rappresenta 101 La guida — Intervista a Mileto Benvenuti 105 X. Il linguaggio dell'allestimento 109 XI. Lo spazio invisibile 116 Il boom delle mostre 119 XII. Divagazioni finali 122 Appendice — Cinema e altro 127 Riferimenti bibliografici 133 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Per quanto piccolo sia uno Stato, la sua storia si mostri soporifera o la sua produzione artistica appaia banale, non esiste al mondo una nazione senza il proprio museo a cui affidare la memoria e l'identità patria. Non si usano i libri, sempre più vittime di un mercato veloce e distratto; non basta la televisione, schifata da gran parte degli intellettuali e spesso utilizzata solo per messaggi istantanei; non si ricorre neppure alla musica e al cinema; neanche i monumenti servono a questo scopo e men che mai i sepolcri, con buona pace del Foscolo. Quando si vuole conferire valore di autorevolezza culturale a un messaggio destinato a durare nel tempo la soluzione è il museo. «Quanto più le città si assomigliano o sono diventate invivibili per chi le abita e chi le percorre, tanto più il museo, cioè il passato di un luogo, ha assunto centralità nell'immaginario collettivo». Il museo è nato per conservare le testimonianze del nostro passato collettivo, per studiarle ed esporle al pubblico: è in quelle sale che, bambini, si è rimasti stupiti di fronte alla prima mummia, a un'armatura, a un dipinto; e poi basta sfogliare quotidiani e periodici per scoprire tutti i giorni notizie e curiosità, per notare che si aprono in continuazione nuovi musei. Tanto che questa istituzione creata nel Vecchio Continente alla fine del Settecento, nonostante sia squisitamente europea per concezione e bisogni culturali, si è diffusa in ogni angolo del pianeta al pari di altre usanze del mondo occidentale, come l'ora sul meridiano di Greenwich o il calendario gregoriano, la coca-cola o il football. Il museo può servire non solo a definire l'identità nazionale ma anche a enunciare tematiche politiche di rivendicazione, come a Bologna dove è stato creato il Museo della Memoria, incentrato sui resti del Dc9 caduto a Ustica il 27 giugno 1980 e sulle opere create dagli artisti sul tema, vero monumento alla verità occultata; oppure nel piccolo museo di Shantou, in Cina, che espone foto che illustrano la memoria negata della rivoluzione culturale di Mao, mentre a Ulan Bator, in Mongolia, si trova il Museo delle Vittime della Persecuzione Politica, un tributo in ricordo delle circa trentacinquemila vittime di Mosca. L'aura di autorevolezza e l'immagine di tempio della cultura possono santificare qualsiasi cosa venga esposta, tanto che ormai esistono musei dedicati agli argomenti più disparati: esiste un Museum of Broken Relationship (Museo delle Relazioni Spezzate) a Zagabria in Croazia; un Museo delle Anime del Purgatorio a Roma, con una raccolta di testimonianze lasciate dalle anime dei defunti su diversi oggetti; un Museo del Calzino a Tokyo, con più di ventimila paia; un Museo dell'Erotismo a Venezia, vietato ai minori di diciotto anni; uno a Siviglia dedicato al Baile Flamenco; il Museo degli Scacchi in Calmucchia. Per non parlare di quelli dedicati a singoli individui: non più solo i seri protagonisti di cultura, arte e politica, ma anche star della cultura pop, come il cantante Elvis Presley o, in Italia, Luigi Tenco. Ma a questa immagine autorevole di tempio della cultura si contrappone quella spicciola del luogo noioso e polveroso, dello spazio immobile fuori dalla vita del mondo quotidiano: come per Homer Simpson la visita al museo è spesso vissuta come un dovere da compiere, un sacrificio a cui non ci si può sottrarre per sentirsi accettati dalla società. Chiunque, almeno una volta nella vita, è stato in un museo, fosse anche solo portato da scolaro con la classe o trascinato dal partner; durante le vacanze è una tappa quasi obbligata, un compito da svolgere seguendo senza deviare le indicazioni della guida turistica, tanto che spesso molti hanno visto più musei all'estero che non nella propria città. In queste visite svolte per dovere i piu diligenti guardano i capolavori che suggerisce la guida, ma gran parte vaga per le sale osservando distrattamente le cose più appariscenti. Ne La coscienza di Zeno, Italo Svevo fa dire alla moglie Augusta: «Meno male che i musei si incontrano in viaggio di nozze eppoi mai più». Non è un caso se nel linguaggio comune la parola «museo» viene usata come sinonimo di vecchio e statico; la voce del Vocabolario di G. Devoto e G. C. Oli recita: «Simbolo di inattualità ('idee da m.') o di grande quantità sentita come ostile o sgradevole ('quella casa è un museo di orrori')». Un tempo il museo era il luogo della meraviglia, l'unico dove si potevano osservare opere d'arte e oggetti di popoli lontani che sorprendevano e incuriosivano. Ma oggigiorno, nell'era del digitale, la fantasia richiede meno sforzi ed è possibile immergersi nel passato con le realtà virtuali di film e documentari, oppure partecipare attivamente ad avventure con video giochi di inquietante realismo; il turismo di massa può condurre le persone ovunque nel mondo, alla ricerca di divertimento o di contatti con altre società, mentre il mondo stesso ci entra in casa sotto forma di oggetti, cibi, musiche. Mentre il museo è impostato per la contemplazione e richiede il tempo necessario all'osservazione per assaporare e comprendere quanto si vede, tutta l'informazione ha preso a girare a grandissima velocità, le notizie arrivano in tempo reale, i confini appena raggiunti vengono superati sempre più in fretta. Ma alla fine, qual è la verità tra i due estremi? Ha ragione chi lo ritiene uno spazio centrale della società, indispensabile per la crescita personale e collettiva, oppure chi dichiara che nell'era della riproducibilità e della velocità è solo un inutile deposito polveroso? La peggior risposta possibile è la banale conclusione che la verità sta nel mezzo. In realtà al museo appartengono tutti gli estremi, è meraviglia e noia, emozione e polvere, e forse altro ancora: il museo è parte strutturale della nostra società, ne esprime bisogni e valori, e come ogni altra componente si modifica e si evolve insieme alla società. Non è insomma quel luogo autonomo e statico come potrebbe apparire a chi non lo conosce bene, ma obbedisce a regole e leggi, discende da idee e ideologie, dipende da risorse e investimenti, partecipa ai cambiamenti, è condizionato da mode e umori ed è gestito da persone ognuna delle quali possiede proprie specificità. In questi ultimi anni tutti i musei, da quelli a vocazione universale che desiderano coprire tutta la sapienza umana a quelli con una piccola storia da raccontare, sanno di essere sulla soglia di un cambiamento, che è necessario per confrontarsi con la nuova società senza snaturare il proprio valore. L'invenzione del tempo libero ha donato a tutti negli ultimi decenni spazi da riempire, e se è innegabile che varie attività come cinema, shopping e parchi tematici siano predominanti, anche il museo ha visto crescere il numero dei visitatori. Si tratta di un pubblico differente rispetto a decine di anni fa, educato alla rapidità dell'informazione e avviato verso una predominanza di immagine e musica rispetto alla parola scritta; le sue aspettative sono diverse e accanto all'educazione e alla conoscenza richiede anche divertimento e sviluppo del senso critico. Ma non basta, perché il visitatore sta anche rischiando di diventare cliente: i musei, che non hanno più ingresso gratuito e fanno ormai parte del mercato del tempo libero, stanno diventando strutture economiche e il pubblico, desiderato e cercato, può con la sua presenza e il suo eventuale gradimento anche decretare il successo di un istituto. Questo volume, dedicato ai musei di cultura umanistica (arte, archeologia, antropologia, storia), desidera essere un aiuto per quei visitatori curiosi che desiderano andare oltre la conoscenza del patrimonio esposto, e che hanno voglia di scoprire quello che di solito non viene raccontato sui musei: come funzionano, chi decide, cosa influisce sulle scelte. Non si tratta di un saggio sulla storia dei musei o sull'architettura, in quanto esiste già una vasta pubblicistica che tratta con completezza questi argomenti. È una sorta di guida che nei panni di un visitatore, seguendo un percorso ideale dall'ingresso all'uscita, offre spunti di approfondimento, nella convinzione che la consapevolezza aiuti a essere meno passivi nella conoscenza. | << | < | > | >> |Pagina 54«È arte» o «non è arte». Non è certo in queste pagine che è possibile affrontare un tema del genere, che spetta con più proprietà alla disciplina filosofica dell'estetica, ma è probabilmente una domanda legittima da porsi prima di entrare nelle sale: il concetto stesso non è sempre stato uniforme nella storia, e in periodi e culture differenti il significato di arte ha avuto accezioni diverse, tanto che qualsiasi tentativo di individuare l'arte come essenza a-temporale, autonoma rispetto alla società e al tempo, si è sempre scontrata con le inevitabili particolarità delle opinioni e con il passare dei canoni. «Non esiste in realtà una cosa chiamata arte. Esistono solo gli artisti», scrive Ernst H. Gombrich, uno dei più importanti storici dell'arte del secolo scorso, «uomini che un tempo con terra colorata tracciavano alla meglio le forme del bisonte sulla parete di una caverna e oggi comprano i colori e disegnano gli affissi pubbliciari per le stazioni della metropolitana, e nel corso dei secoli fecero parecchie altre cose. Non c'è alcun male a definire arte tutte codeste attività, purché si tenga presente che questa parola può significare cose assai diverse a seconda del tempo e del luogo, e ci si renda conto che non esiste l'Arte con l'A maiuscola, quell'Arte con l'A maiuscola che oggi è diventata una specie di spauracchio o di feticcio». Schematizzando un po', si può dire che ai nostri giorni è considerato arte, ed è esposto come tale nei musei, tutto quello che il sistema culturale contemporaneo riconosce come tale, o per meglio dire che viene attestato come tale da vari tipi di autorità e istituzioni: critici, intellettuali, esperti, mercanti, amministratori. Non tutto quello che siamo abituati a definire arte nella nostra società è però conservato ed esposto: la letteratura e la poesia ad esempio non trovano usualmente spazio nelle sale (se non nella forma fisica del libro) e neppure il cinema, la musica, il teatro o il balletto, tranne poche eccezioni. I musei accolgono soprattutto quella che viene definita arte visiva, che comprende pittura, scultura e architettura, anche se neppure quest'ultima è presente in sala se non nella forma rappresentativa di disegni o modelli, oppure nei suoi frammenti. Nei musei troviamo esposte anche quelle che vengono definite arti minori, ossia tutti quegli oggetti che accostano alla «sublime 'inutilità' delle arti maggiori, scultura e pittura, rivolte al puro godimento estetico», anche un'applicazione pratica (oreficeria, tessuti, ceramiche, mobili, etc.). Questa contaminazione con la pratica discriminò tali arti per secoli, tornando a essere rivalutate dalla critica solo nel corso dell'Ottocento, che vide la fondazione di musei a loro specificamente dedicati con scopo manifestamente didattico legato all'industria manifatturiera; da qui le varie denominazioni con cui vengono ancora oggi definite: arte industriale, arti applicate, arti decorative. L'unica forma di arte con cui il museo ha sempre avuto un rapporto difficile è la produzione coeva: in quanto istituzione volta a definire patrimonio e identità di una nazione, specialmente in Italia ha storicamente esposto prevalentemente il sapere già consacrato e il gusto riconosciuto, rifiutando le novità al di fuori delle convenzioni; gli artisti viventi sono sempre stati visti con diffidenza e a loro sono stati solitamente preferiti quelli ormai defunti. Il pubblico che entra nelle sale è stato educato, complice anche la tradizione idealistica italiana, a percepire l'opera come puro oggetto estetico nel rispetto di un canone di bellezza inteso come armonia delle forme, che parte dall'antica Grecia e attraverso il Rinascimento arriva all'oggi; spesso l'opera è offerta principalmente alla contemplazione, limitando al minimo le possibili distrazioni che potrebbero distogliere l'attenzione (informazioni scritte, altri oggetti, etc.), il che purtroppo rischia di penalizzare la conoscenza di altri aspetti a essa legati (tecniche di produzione, collezionismo, storia), ma soprattutto i contenuti. Pur rimanendo all'interno di un mercato economico e trovando compromessi con esso, l'arte infatti è stata anche espressione di valori sociali, religiosi e politici, a volte espressione di critica al potere e alla morale comune; in Italia (specialmente, ma non solo), grazie a un patrimonio ricchissimo e al suo stretto legame con il territorio, è ritenuta parte del senso di appartenenza e di identità. Non a caso quando la mafia nel 1993 decise di porre un ultimatum allo Stato e di colpirlo in qualcosa di altamente simbolico, mise delle bombe in chiese antiche a Roma e in due musei, gli Uffizi a Firenze e il PAC a Milano. Ma se è vero che il museo d'arte ha condizionato l'immaginario comune e rappresenta l'elemento consacratore per ogni artista, è anche vero che l'arte si è sviluppata fuori da questa istituzione, affidata a collezionisti, estimatori e mercanti. Nei primi decenni del Novecento cubisti, surrealisti, astrattisti erano spesso esclusi dai musei, nei quali entrarono molti anni dopo, quando ormai erano diventati, se non arte ufficiale, sicuramente dei «classici». Capita che quando una corrente artistica finisce nelle sale di un museo, spesso ha perso la sua carica eversiva e creativa. | << | < | > | >> |Pagina 61«Exotica», «primitiva», «aborigena», «negra», «selvaggia», «altra» o semplicemente «extra-europea». L'interesse del Vecchio Mondo verso l'opera degli altri popoli è sempre stato accompagnato da un convinto senso di superiorità: «Eh chi ho da esse'? So' un servaggio», dice nel famoso sonetto di Cesare Pascarella un nativo americano agli spagnoli di Cristoforo Colombo. Nelle sale dei musei, specialmente in Europa, sono esposti manufatti che vennero portati da missionari, soldati, mercanti e studiosi come prede di guerra, testimonianze di evangelizzazione, curiosi souvenir e oggetti scientifici. La loro esposizione è sempre stata storicamente viziata dallo sguardo che la cultura occidentale ha voluto dare di loro, piegando allo scopo e all'interesse del momento valori e significati originali. Spesso appartengono a un tempo superato, quando la globalizzazione non aveva ancora messo in contatto tutti gli «etnocentrismi» contaminando conoscenze e costumi e permettendo anche alle culture più isolate di conoscere il mondo. Non tutte le civiltà non europee sono considerate alla stessa maniera, perché ad esempio le culture orientali come quella cinese e giapponese o quelle del medio e vicino oriente, con le quali il Vecchio Continente ha da secoli rapporti commerciali e culturali, sono spesso considerate vicine alle discipline artistiche occidentali, che hanno spesso influenzato nel gusto e nell'estetica. L'etnografia è una disciplina che nasce e si sviluppa nell'Ottocento, insieme alla maturazione dei musei stessi e soprattutto in concomitanza con la fase più compiuta del colonialismo. «L'invenzione delle etnie è l'opera congiunta degli amministratori coloniali, degli etnologi di professione e di coloro che riuniscono le due qualifiche», sostiene Jean-Loup Amselle a proposito dell'Africa. Sebbene non siano mancate raccolte e collezioni anche in epoche precedenti, in questo periodo la raccolta e l'esposizione di manufatti nei musei etnografici furono un forte strumento di propaganda che servì a giustificare la supposta superiorità dell'uomo bianco e la necessità del suo compito civilizzatore. Facendo coincidere l'oggetto con la cultura di un popolo, si sottolineava in un'ottica positivista il maggiore grado di evoluzione tecnologica degli europei rispetto ai popoli conquistati: secondo questo filtro di lettura, i manufatti di tali civiltà esprimevano un primitivismo tipico dei primi gradini della storia dell'uomo, la cui evoluzione avrebbe coinciso con la civiltà occidentale contemporanea. Tanto che questi manufatti vennero spesso usati dagli archeologi come termine di confronto per la preistoria del Vecchio Continente: il primo fu il Museo delle Antichità del Nord di Copenaghen, ordinato da Christian Jürgensen Thomsen tra il 1816 e il 1819, cui seguirono molti altri tra cui in Italia il Museo Preistorico Etnografico di Roma, fondato nel 1876 da Luigi Pigorini (ora Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini). E quando la cultura dei popoli conquistati non coincideva con un'immagine di arretratezza, si interveniva con la falsificazione. Grande scalpore e ammirazione, ad esempio, provocarono in Europa i bronzi del Benin quando questi arrivarono nelle aste come bottino di guerra delle truppe britanniche che avevano completamente distrutto il regno africano nel 1897. L'estrema perizia tecnica e un gusto estetico figurativo assai vicino ai canoni europei suscitarono un'ammirazione che mise in crisi la giustificazione coloniale dell'inferiorità della razza africana, perciò bisognosa di una guida europea. I britannici sostennero così che l'arte era stata prodotta in epoche lontane ed era frutto di improbabili influenze egizie o portoghesi, e soprattutto giustificarono l'occupazione del Benin, ovviamente figlia di precisi interessi economici, affermando che era una società decadente e feroce, dedita al cannibalismo, fino a definire Benin City come una «City of Blood» e il re del Benin un «abominevole selvaggio», un «demone in figura umana». Al British Museum gli oggetti vennero esposti insieme a fotografie di corpi che, grazie a stratagemmi nelle inquadrature dei corpi ritratti, risistemavano lo stato di inferiorità necessario. Anche i missionari ebbero un ruolo rilevante, da una parte difendendo fisicamente i nativi dallo sterminio, ma dall'altra distruggendo la loro cultura con l'evangelizzazione. Scrive Lévi-Strauss che in Brasile «questi missionari, che col Servizio di Protezione sono riusciti a porre fine ai conflitti tra gli indiani e i coloni, hanno condotto nello stesso tempo eccellenti inchieste etnografiche (le migliori fonti sui Bororo, dopo gli studi più antichi di Karl von den Steinen) e un metodico sterminio della cultura indigena». I paesi di origine vennero saccheggiati dei loro oggetti, tanto che molte nazioni sono oggi praticamente prive delle testimonianze della loro storia, sparse per musei e collezioni straniere; molti popoli sono scomparsi come cultura indipendente e in alcuni casi si sono estinti, come ad esempio molti gruppi indio del Sud America, e spesso le uniche testimonianze fisiche rimaste giacciono nelle vetrine dei musei occidentali: dei Tupinambà del Brasile, ad esempio, rimangono solo pochi esemplari del mantello rituale di piume, di cui uno al Museo Nazionale di Antropologia ed Etnologia dell'Università di Firenze. Una valutazione apparentemente meno colonialista venne operata dagli artisti delle avanguardie del Novecento, che ampliarono il loro orizzonte estetico alle produzioni delle culture non europee, da loro scoperte nelle botteghe ma soprattutto nei musei: per tutti si trattò però del semplice utilizzo di uno stimolo creativo per i propri bisogni, senza mai affrontare i reali significati nelle civiltà di origine. Li ritennero generalmente prodotti sinceri e primitivi lontani dalla decadenza della cultura occidentale, in grado di esprimere valori primari non contaminati dalle sovrastrutture culturali e dalle costrizioni della coscienza. Quando le opere etnografiche entrarono nei musei d'arte fu infatti solo per assimilarle all'estetica occidentale. Ma come sostiene Marco Aime, «assolutizzando il valore artistico si è sfumato, fino a farlo scomparire, lo sfondo umano che ha dato vita a quelle creazioni: si è reciso il cordone ombelicale che le legava alla terra, a degli individui, e si sono trasformate statue, maschere e culture in oggetti universali, patrimonio di tutti. Ecco allora che l'ammirazione si rivolge alla bellezza 'pura' dell'oggetto, lasciando dietro le quinte chi lo ha prodotto». Molte produzioni mantengono un rapporto con la tradizione e sono ormai stabilmente entrate nel mercato dell'arte occidentale, ad esempio quella aborigena australiana o quella dei nativi americani, spesso allo scopo di accrescere il proprio prestigio internazionale e di contribuire al proprio risorgimento nell'ambito della società. L'etnografia diventa a questo punto quasi una gabbia: «Molti artisti hanno ancora l'impressione che il museo di antropologia sia un luogo del passato», racconta Ruth Phillips, direttrice del Museum of Anthropology dell'Università della British Columbia di Vancouver, «ed è una frustrazione per noi professionisti. Sono stata a convegni dove artisti molto arrabbiati si alzavano in piedi per dire: 'Non vogliamo stare nei musei di antropologia!'». Ai nostri giorni il colonialismo come fenomeno storico è finito da svariati decenni, sostituito peraltro da un neocolonialismo e una globalizzazione economica e culturale; quasi contemporaneamente una profonda rivoluzione ha attraversato l'antropologia nel corso della seconda metà del Novecento: i grandi musei occidentali hanno cominciato a rivedere la concezione dell'esposizione, cercando di andare oltre lo sguardo eurocentrico nei confronti dei manufatti e accogliendo invece i valori e i significati dei popoli e delle culture che li avevano concepiti, prodotti e utilizzati. Molti importanti musei sono stati completamente rivisti, eliminando l'ottica positivista degli allestimenti; spesso sono stati coinvolti esperti o comunità native nella scelta degli oggetti e nella loro comunicazione. Quello che prevale è ora spesso il relativismo dei significati, per cui non viene più indicata una scala gerarchica di valori, ma vengono offerte le motivazioni delle varie parti in causa. Negli Stati Uniti i musei sono obbligati a restituire alle comunità gli oggetti di uso segreto o funerario, dopo averli inventariati, secondo quanto impone il Native American Graves Protection and Rempatriation Act; nonostante il parere negativo di molti studiosi che, nel veder tornare i manufatti alla vita reale e perciò alla inevitabile consunzione, hanno sostenuto il venire meno del ruolo istituzionale dei musei nella conservazione delle testimonianze culturali. In Italia il Museo Missionario Salesiano di Colle Don Bosco, nel corso di una iniziativa pluriennale di collaborazione tra missionari, nativi e antropologi sul recupero della cultura dei Bororo in Brasile, ha restituito alla comunità di Meruri, nel Mato Grosso, molti oggetti di cui era stata persa la capacità creativa e il significato insieme a lingua e tradizione (proprio a causa dell'evangelizzazione dei missionari stessi); la ripresa della produzione è stata di stimolo per un faticoso percorso di recupero della propria identità. Ora spesso i nativi mettono in dubbio la legittimità che siano gli occidentali a esporre la loro cultura e sempre più frequentemente sorgono musei locali, «tribali», gestiti da loro stessi, che danno voce alla cultura locale, all'identità e alle tradizioni, svolgendo in molte occasioni attività di opposizione politica e di riflessione identitaria. Nei grandi musei metropolitani, soprattutto europei, rimane più riconoscibile lo scarto tra la cultura occidentale, che guida il museo e ha il compito di rappresentare gli altri popoli, e coloro che sono rappresentati ma al contempo esclusi, del tutto o in parte, dalla gestione. La causa è da ricercarsi sicuramente nella oggettiva mancanza di un territorio a cui legare strettamente il proprio operato e significato, ma in alcuni casi i musei esistenti, forti della diversità che espongono e interpretano, cercano di farsi elemento di analisi sociale, nella sempre più composita civiltà odierna, e di riconoscibilità e dignità per le diverse componenti etniche e culturali, la cui conoscenza e accettazione è attualmente limitata al facile e superficiale binomio di musica e cucina. Anche l'antropologia stessa ha in parte dovuto superare la fase eroica degli studi sulle società esotiche e lontane, e sempre più si interroga sulle diversità interne alla società contemporanea. | << | < | > | >> |Pagina 85«L'ho visto al Museo». È più di un luogo comune o di una facile battuta: nell'immaginario collettivo visitare un museo è un'esperienza che pone a contatto con i valori universali dell'arte e della cultura, all'interno di un'istituzione dotata di un'autorevolezza intrinseca, acritica, al di sopra dei contrasti sociali e politici della società di cui fa parte. Gli oggetti belli e importanti che si osservano nelle sale si ritiene siano una fonte oggettiva di conoscenza, perché sono lì, visibili e osservabili da chiunque, non manipolabili come invece possono essere le informazioni che vengono fornite da un qualsiasi mezzo di comunicazione come la stampa o la televisione, ma anche un libro o un documentario. Si tratta di un visione agiografica, perché nella realtà non esiste una neutralità dei musei. Essendo un'istituzione chiave nella produzione ideologica delle nazioni, questi rispondono all'élite dominante la quale determina programma e valori: a questa spetta stabilire la linea ideologica che sottende la selezione delle opere e dei manufatti da esporre, definire cosa appartiene all'identità e cosa alla diversità, cosa è bello e di valore; come scrive Marco Aime, «l'arte non è patrimonio di tutti, è gestita quasi sempre dalle élite e in certi casi diventa politica». I musei insomma possono essere luoghi della mistificazione e strumenti del consenso, al pari di qualsiasi istituzione pubblica della società, dalla scuola alla biblioteca: è ormai opinione consolidata che non esiste un'interpretazione univoca del passato. Come scrive Hobsbawm in un suo saggio ormai famoso, la storia e le tradizioni che entrano a far parte della coscienza comune della popolazione non sempre affondano le loro radici in un passato remoto, ma spesso vengono selezionate e scritte per definire la coesione e l'identità della nazione: «Tutte le tradizioni inventate, infatti, laddove è possibile ricorrono alla storia come legittimazione dell'azione e del cemento della coesione del gruppo». L'eventuale parzialità di un museo non è assoluta, ma è viceversa strettamente correlata al grado di libertà di cui gode la società, al suo regime politico e alla presenza o meno di conflitti tra le diverse componenti etniche, economiche e politiche. Non sono mancati problemi ad esempio nei musei statunitensi, dove le comunità afro-americane hanno spesso richiesto una corretta comunicazione sulla propria presenza nella società. In generale durante tutto il periodo coloniale i musei furono uno strumento ideologico di rappresentazione dell'inferiorità delle popolazioni native, sia in madrepatria che nei paesi conquistati: in Africa vennero creati dei musei anche nelle capitali, a uso della borghesia locale, nei quali i manufatti erano slegati dal territorio che li aveva creati ed erano esposti in maniera spersonalizzata e statica, separati dal culto degli antenati: «Gli individui sarebbero stati docili e sottomessi, una volta alienati dal proprio bagaglio culturale e trasformati radicalmente dall'insegnamento di una cultura loro estranea, di cui avrebbero dovuto apprendere i segni del prestigio e della grandezza. Sarebbero così rimasti ammirati di fronte alla potenza straniera, da rimanere umilmente confusi a causa della consapevolezza della loro nullità». Non a caso, spesso questi musei si trovano ancor oggi a convivere con l'indifferenza della popolazione. In uno Stato autoritario come la Germania nazista vennero espulse e requisite, anche a privati, le opere d'arte figurativa di quegli artisti tedeschi ed europei non in linea con il nuovo potere che il regime definiva «arte degenerata». In una grande mostra proprio con questo titolo, allestita a Monaco nel 1937, artisti come Dix, Grosz, Matisse, Gaugin, Van Gogh e Munch vennero accusati di supposte perversioni e minorazioni fisiche e mentali; le loro opere vennero in alcuni casi bruciate, solitamente requisite e vendute a musei e privati all'estero con profitti spesso per i vertici del regime. Nel 1942 invece, nella Praga occupata, i nazisti assunsero il controllo del piccolo museo ebraico esistente per farlo diventare il Museo Giudaico Centrale a uso e consumo dei persecutori, dove affluirono decine di migliaia di oggetti espropriati alle persone deportate: i curatori ebrei, prima di essere mandati nei campi di sterminio, furono obbligati a catalogare gli oggetti e organizzare mostre e visite per le SS.
Nel regime sovietico invece si assistette a una svendita di parte
del patrimonio culturale della nazione, sia di proprietà privata o
religiosa sia dei musei, allo scopo di realizzare vitali entrate finanziarie
attraverso l'alienazione dei simboli del vecchio potere.
Anche nella Cina della rivoluzione culturale il passato venne sistematicamente
cancellato, perché Mao voleva una pagina bianca
su cui rimodellare l'uomo nuovo, ma ora è il nazionalismo a essere
il collante nuovo al posto del comunismo e il regime ha previsto
nei prossimi dieci anni la costruzione di mille musei, di cui venti a
Pechino entro il 2008 in occasione delle Olimpiadi. Nella Corea
del Sud sottoposta alla dittatura, come ha scritto il giornalista Tiziano
Terzani, il generale Park decise che «per rafforzare l'amor
proprio dei coreani, si doveva far rivivere la loro memoria storica.
Quindi ordinò che il passato della Corea venisse riscoperto. Nacquero i musei, e
non solo le grandi città fecero a gara per averne uno. Ogni provincia ne ebbe
uno».
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