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| << | < | > | >> |IndiceINTRODUZIONE 9 1 • LE FONTI 25 Cucinare insieme 31 2 • I PRIMI 33 ZUPPE E MINESTRE 36 Zuppa di farina abbrustolita 36 Minestra casalinga di erbe 37 Minestra di patate 37 Zuppa di spaghetti e piselli freschi 38 Zuppa di codone di manzo 38 Tagliatelle di spinacio 39 IL RISO 40 Risotto alla purée di lenticchie 41 Carne di montone con riso 42 Pastasciutta o riso con gambi di carciofi 43 LA PASTASCIUTTA 44 Maccheroni alle acciughe 45 Pastasciutta e fagioli 46 IL GRANOTURCO 47 Polenta e legumi 49 Minestra di polenta 50 Il pane 52 3 • LA CARNE 55 IL BOVINO 60 Manzo tonnato 60 Manzo a vapore 61 Sugo economico 62 LE INTERIORA 63 Trippa con passato di fagioli 65 Pasticcio di fegato 66 Coda di bue a uso di vitello tonné 66 Cuore trifolato 67 IL RIUTILIZZO DEGLI AVANZI 68 Rosticciata di bue 69 Lesso rifatto alla veneziana 70 Tagliuzzata di manzo trifolata 70 Polpette con carne avanzata 71 Il vino e le osterie 73 4 • GLI ANIMALI DA CORTILE 75 Pollo all'italiana 79 Pollo alla Rossini 79 Anitra arrosto 80 Torta d'uova all'economica 81 Coniglio in salsa piccante 81 Coniglio in salsa di noci 82 Coniglio alla napoletana 83 Fuoco e pentole 85 5 • IL PESCE 87 Pesce in salsa piccante 90 Bottaggio di merluzzo 91 Polpettine di tonno 91 Stoccafisso in umido 92 La cucina in trincea 94 6 • LE VERDURE 97 GLI ORTAGGI 101 Cavolfiore al formaggio 101 Carote in umido 102 Zucchine con aceto 102 Fagioli sgranati alla provinciale 103 Cipolline in salsa bruna 103 Bucce di piselli 104 LA PATATA 105 Patate «Risorgimento» 107 Patate in stufato 107 Frittata senza uova 108 Il gusto 110 7 • I DOLCI 113 Budino di zucca 116 Dolce molto economico di farina gialla 117 Budino di riso 118 Torta all'italiana 119 Torta di pane 119 Budino di pane e cioccolato 120 Conserva dolce di pomodoro 121 Il museo e la memoria 123 BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO 125 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Ora che siamo tutti sazi, che il cibo non rappresenta (quasi) più un problema nei ricchi Paesi occidentali, non la si smette più di parlare e scrivere di mangiare. A partire dai lavori di Luigi Veronelli e Mario Soldati, veri pionieri in Italia, cibi e cucina sono usciti dal ghetto pacioso dei manuali per casalinghe e scapoli e delle riviste femminili, per vedersi riconoscere un valore aggiunto culturale e simbolico che nei secoli precedenti non era mai stato espresso con tanta convinzione e diffusione di pensiero. Dalla cinematografia alla letteratura e saggistica, dalla televisione ai quotidiani e periodici, ovunque ci si occupa di cucina e alimentazione. I cuochi sono diventati personalità famose e i politici ci tengono a farsi ritrarre mentre cucinano o disquisiscono dei loro piatti preferiti; i personaggi letterari si dedicano per pagine e pagine a mangiare enormi quantità di cibo; le rubriche sulla carta stampata hanno le stesse pretese di quelle culturali; si aprono corsi all'università; destra e sinistra accampano scelte ideologiche a tavola. Ma soprattutto cibo e cucina sono ormai assunti a metafora della vita, linguaggio simbolico per affrontare e trattare qualsiasi aspetto della vita. In questa massiccia produzione letteraria, che spesso rischia anche di banalizzare, confondere, semplificare, uno degli argomenti più insopportabili, forse a tratti solo ingenuo, è probabilmente la retorica dei bei tempi andati, quando il cibo era genuino e c'erano le lucciole nei campi; lo stereotipo della cucina povera ma sana, della cucina tradizionale tramandata uguale a se stessa dalla notte dei tempi, dell'identità alimentare, la troviamo non solo nelle astute e ammiccanti pubblicità, che in fin dei conti fanno il loro mestiere per perverso che sia, ma anche in molte pagine di letteratura. È innegabile che buona parte del consumo alimentare abbia oggi preso la triste e inquietante china dei prodotti precotti, che abbia perso i ritmi della produzione stagionale e della geografia, che abbia dimenticato la ritualità delle feste comandate, che sconti la bassa qualità di una coltivazione e un allevamento che puntano solo alla quantità. Ma è altrettanto vero che spesso si confonde la cosiddetta cucina povera con la cucina dei giorni di rito: in un passato neanche troppo lontano, invece, con la debita eccezione delle ristrettissime classi dirigenti con la pancia piena, per tutte le classi subalterne mettere insieme il pranzo con la cena è sempre stato un fattore di semplice sopravvivenza. Per la gran massa dei contadini e per il proletariato urbano la storia racconta soprattutto di fame feroce, di indigenza, di malattie dovute a una scarsa e inappropriata alimentazione. Scrive Riccardo Bertani: «Ormai non si contano più i libri e gli articoli che vengono dedicati alla sana e sostanziosa gastronomia contadina del passato. Molti di questi scritti però mostrano spesso il grave difetto (forse perché gli autori non ne hanno vissuto la diretta esperienza) di confondere i cibi ricchi e sofisticati della cucina padronale con quelli che in realtà apparivano sulle misere mense contadine... Quindi, da questa breve dissertazione gastronomica risulta evidente che i cibi manipolati e sofisticati che taluni vogliono farci credere di derivazione contadina, erano in realtà estranei ad essa». Il rischio concreto è perciò non solo di «inventare una tradizione», di immaginare un passato che non è mai esistito e rendere perciò un cattivo servizio a tutti quelli che l'hanno vissuto, ma anche di diventare un argomento per la difesa del proprio particolare, del localismo spicciolo, di usare lo strumento-gastronomia per accampare supposte motivazioni etniche. Massimo Montanari parla di «leghismo gastronomico», che vede «nella 'tradizione' e nelle 'radici' (tutti termini difficili, pericolosi, che andrebbero smontati nel loro vero significato culturale) lo strumento di difesa di sé dall'altro, anziché di incontro con l'altro...». La cucina, così come l'identità culturale, è una realtà in costante movimento, si nutre continuamente di nuovi apporti e ne abbandona altri nel cammino, evolve continuamente: ogni piatto è un mirabile esempio di meticciato culturale stratificato nei secoli. Parafrasando un famoso testo con cui Ralph Linton proponeva ai suoi studenti la prima lezione di antropologia culturale, potremmo immaginare una storiella di questo tipo: un qualsiasi abitante di una qualsiasi città del nord Italia si alza la mattina e si siede a tavola per la colazione; beve una tazza di caffè, originario della penisola arabica, o una tazza di tè, bevanda indiana, addolcite con un cucchiaio di zucchero, raffinato per la prima volta in India. Mangia una fetta di pane, importato nell'Italia pre-latina dai Greci, con una marmellata di albicocche (di origini cinesi). Se si comporta da salutista, prende anche uno yogurth, il vitto dei poveri in Turchia, e una spremuta di arancia, frutto proveniente dall'Oriente tramite gli arabi. A pranzo si mangia un bel piatto di risotto alla milanese: sia il riso che lo zafferano arrivano dall'Oriente. Di secondo una cotoletta alla milanese, cotta con una tecnica, l'impanatura e la frittura, comune a tutte le culture; la guarnisce con patate arrosto, giunte dall'America, o spinaci, originari del Nepal. A cena ovviamente polenta (il mais arriva sempre dall'America), magari con il tacchino ripieno alla milanese (altro animale americano) o la mitica Cassoeula (il maiale venne addomesticato per la prima volta in Cina, circa diecimila anni fa). Prima di andare a letto si beve un grappino (i distillati giunsero in Europa tramite i farmacisti arabi) e, pensando con orrore a quanto gli immigrati possano inquinare la sua cultura, «ringrazia una divinità ebraica» di averlo fatto al cento per cento padano. Il che vale per qualsiasi altra regione italiana. E poi la cosiddetta cucina povera, o per meglio dire la cucina dei poveri, non ha mai avuto modo di raccontarsi. | << | < | > | >> |Pagina 19Se per secoli il miglioramento dell'alimentazione ha proceduto per piccoli passi, negli ultimi decenni del Novecento il cambiamento è stato fortissimo. Nel decennio 1861-70 la quantità di consumo pro capite di calorie medio per abitante era di 2.628 e nel 1951-60 di 2.418, ma nel 1971-80 diventa di 3.268. Un semplice riscontro lo si ritrova anche nei dati della leva militare: se in novant'anni, tra il 1861 e il 1951, l'altezza media dei soldati di leva si alza da 163 a 170 cm, in soli vent'anni, dal 1951 al 1972, la statura media degli italiani passa da 170 a 174 cm.Praticamente in Italia nessun alimento è al di fuori del portafogli di tutti e non esiste più una differenza di classe nella cucina; i sistemi di conservazione offrono qualsiasi cibo da ogni parte del mondo e da ogni stagione. Di contro la cucina casalinga sta lasciando sempre più spazio ai pasti preparati industrialmente, al passo con l'emancipazione della donna e con l'affermarsi delle nuove categorie familiari di singoli/e: crescono i problemi legati all'obesità a fronte di un immaginario fatto di magrezza; aumentano i disturbi alimentari, dall'anoressia e bulimia sino all'ortoressia, l'ossessione per il cibo sano; gli alimenti presentano spesso tracce di sostanze chimiche. La comunicazione è farcita di riferimenti al cibo, spesso tra loro contraddittori: da una parte si invita ad aumentare i consumi, e dall'altra si propongono alimenti light per far superare il senso di colpa dell'eccesso di alimentazione. Si creano nuovi mercati legati all'alimentazione biologica, spesso appannaggio di élites economiche; nel frattempo il digiuno è diventato uno strumento politico. Il superamento della fame e il raggiungimento dell'abbondanza sono stati ottenuti a un duro prezzo: inquinamento e impoverimento dei suoli, riduzione della biodiversità, e una globalizzazione che impoverisce milioni di produttori. L'attenzione all'alimentazione, con tutti i suoi intrecci sociali ed economici, è diventata perciò a pieno diritto un cardine della lotta politica, portata avanti da numerosi soggetti che costruiscono l'approccio con uno sguardo ampio, che abbraccia tutti gli aspetti dalla produzione alla commercializzazione. Bisogna valutare «gli aspetti organolettici (il piacere), la provenienza delle materie prime (sostenibilità ambientale), il processo di trasformazione (rispetto delle culture locali e dei lavoratori). Solo se il cibo è di una qualità accettabile rispetto a questi tre parametri può definirsi 'di qualità' e, si badi bene, anche in questo caso non stiamo parlando delle più alte eccellenze gastronomiche o dei prodotti status symbol». È un'attenzione che trova la sua forma più strutturata in organismi come lo slow-food o il critical-wine, ma trova linfa e ragione d'essere in miriadi di produttori, cooperative e gruppi di consumo. I prodotti dei presidi alimentari rappresentano una minoranza rispetto alla massificazione della produzione, una eccezione alla omologazione del gusto, tanto da far diventare la loro preservazione un atto di difesa alimentare. Per cercare un senso alla pubblicazione di questo volume, per non fermarsi al divertimento e all'interesse erudito di pubblicare i ricettari della Grande Guerra, bisogna leggere questa cucina (queste pagine) come una nuova difesa alimentare: perché purtroppo la difesa alimentare non è più solo un ricordo ma è tornata a essere un argomento di attualità. Non bisogna più difendersi dalla fame, almeno per gran parte della popolazione, ma al contrario da un eccesso di cibo, e soprattutto dal cibo cattivo e dal suo uso cattivo e senza riflessione. Allora come adesso, i ricettari possono rappresentare un tentativo di offrire e di realizzare pietanze che, nel rispetto dell'economia di spesa, soddisfino sia il palato che la salute. | << | < | > | >> |Pagina 36Zuppa di farina abbrustolita Friggete in grammi settanta di olio grammi cento di farina e lasciate rosolare rimestando continuamente perché non s'attacchi. Aggiungete quindi, poco alla volta, acqua calda o brodo, alcune patate tagliate a bastoncini sottili e lasciate cuocere circa venti minuti, aggiungendovi il sale necessario e formaggio grattugiato.
[C. G. Monti,
Cucina buona in tempi cattivi,
Milano 1917]
Si tratta di una zuppa semplicissima da fare ed economica, che trova analogie nel Brò brusà trentino e nella Brennsuppe altoatesina, dove però si usa lo strutto o il burro per tostare la farina, con numerose varianti come la Sauerkrautsuppe (con l'aggiunta di crauti acidi alla fine) o la Einbiensuppe, con latte al posto dell'acqua. Una ricetta simile si trova anche nel ricettario di una locanda trentina degli inizi del Novecento con il nome di Brodo di farina abbrustolita. L'uso dell'olio in questa ricetta si spiega con il consiglio dell'autore di sostituirlo «per ragione economica» al burro, «diventato merce rara». | << | < | > | >> |Pagina 37Minestra casalinga di erbeMettete a bollire dell'acqua ove siano stati cotti dei fagiuoli, oppure delle lenti o delle fave. Preparate intanto delle patate, pelatele e tagliatele in filetti sottili: pulite e tagliate delle foglie di cavolo, oppure delle ciocchettine di cavolfiore, fate a rotelline un paio di carote, aggiungete un po'di piselli, oppure dei fagiuoli e buttate tutti questi erbaggi in quella broda bollente. Soffriggete nel burro un pezzetto di cipolla e del sedano e versateli nella minestra, aggiungendo un po' di sale. Può essere servita con crostini di pane oppure si può mettervi a cuocere della pastina.
[Manuale di 150 ricette di «cucina di guerra»,
Cremona 1916]
Chi pensa che l'idea di non buttare via l'acqua di cottura dei fagioli sia solo una questione di risparmio, si sbaglia a metà: è sicuramente un vero errore, visto che contiene le sostanze lasciate dai fagioli durante la cottura, ma è altrettanto innegabile che questa «broda» riesce anche a dare un bel sapore alla minestra. È peraltro un procedimento conosciuto nella cucina dei poveri, come ad esempio la Mesta in Friuli, una polenta cotta con l'acqua dei fagioli e poi mescolata a questi. Curioso l'accostamento delle verdure: i piselli sono primaverili, cavolo e cavolfiore sono autunnali. Al giorno d'oggi non fa molta differenza, visto che si trova di tutto durante tutto l'anno, ma all'epoca non poteva essere così. Probabilmente i piselli erano secchi. Se si ha cura di non disfare i fagioli nella lessatura (con carota, cipolla, sedano e aromi vari, naturalmente), li si può cucinare a parte (vd. Fagioli sgranati alla provinciale, p. 103). | << | < | > | >> |Pagina 66Pasticcio di fegatoSi lascia stufare la carne di maiale tagliata a pezzetti nella cipolla rosolata in un po' d'unto, poi si aggiunge il fegato tagliato a fettine e si lascia cuocere per 1/4 d'ora aggiungendo gli odori, il pane e le uova. Si fodera di fettine di lardo una forma da pasticcio, vi si versa il composto e si mette a cuocere al forno.
[Manuale di 150 ricette di «cucina di guerra»,
Cremona 1916]
Anche l'Artusi pubblica un Pasticcio di fegato, ma la sua è una ricetta molto più ricca, con tartufi, fegatini di pollo, sugo di carne e marsala, chiuso con pasta da pasticcio. Questa è decisamente più ruspante, ma molto gustosa e sostanziosa: le dosi sono sufficienti per 5/6 persone. La quantità di pane è libera, ma con le dosi indicate dalla ricetta mezzo etto rappresenta un giusto equilibrio. Tra le interiora, il fegato era una di quelle più «nobili»: nell'Ottocento si riteneva che, contenendo molto sangue, fosse utile per combattere l'anemia. Attualmente il fegato che si trova in vendita è quello dei bovini, ma, specialmente in campagna, si usava molto anche quello di maiale: quando si macellava, nella bassa padana, «il fegato veniva tagliato a pezzi, arrotolato nella retinella (peritoneo) e conservato in vasi con lo strutto». | << | < | > | >> |Pagina 82Coniglio in salsa di nociDividete un coniglio in sedici parti, immergetelo in acqua corrente lasciandovelo un poco, indi asciugatelo per bene e infarinatelo. A fuoco non troppo vivace esponete una teglia in terracotta di cui coprite il fondo con una finissima triturata di cipolla, carote e sedano, aggiungete un ettogrammo di burro od olio e biondeggiate quindi pochissimo. Unite gli spezzati di coniglio, fateli rosolare pochi minuti e bagnate quindi con un bicchiere di vino bianco che lascerete evaporare. Completate con due cucchiaiate di polpa di pomodoro e tanto brodo o acqua quanto è sufficiente per sommergere la carne. Salate, impepate leggermente e coprite lasciando cuocere adagio. Accumulate sul tagliere un cespuglio di prezzemolo, il gheriglio di 16 noci, la buccia di un limone e parecchi spicchi di aglio; riducete ogni cosa in finissima amalgama, che addizionerete al quasi cotto intingolo, al quale darà delicato sapore e particolare profumo. Come tutto è ben condensato e corretto, servite con crostoni di pane fritto al burro o all'olio, oppure con contorno di fagiuoli, patate o verdure.
[Associazione Nazionale Cucinieri,
Ricettario per alimentazione popolare (cucina domestica),
Milano 1917]
Noci e aglio sono alla base di tantissime salse risalenti ancora all'età medievale e utilizzate per accompagnare la carne, come la Agliata bianca suggerita da Cristoforo Messisburgo, scalco alla corte degli Estensi nei primi decenni del Cinquecento: «Piglia i garugli delle noci e mondali, e mollena di pan bianco mogliata nel buon brodo, e aglio quanto ti piace e sale...». Una salsa come questa diventerà poi un condimento per le paste, come la ligure Salsa di noci, ma in questo caso viene usata come in antico, insieme alla carne. Le noci arrivarono in Italia in tempi antichissimi dall'Armenia e dalla Persia, e furono molto apprezzate sia per l'olio che se ne otteneva sia come alimento, comparendo in molte ricette, anche di dolci. | << | < | > | >> |Pagina 116Budino di zuccaSi prende una zucca gialla di buona qualità, si cuoce, indi si pesta bene e vi si aggiungono alcuni amaretti, un pizzico di mandorle dolci e un po' di scorza di limone, zucchero e un uovo. Si unisce tutto e se la pasta riesce un po' molle, vi si aggiunge del pangrattato. Poi si prende un recipiente, si unge con burro spolverizzato di pangrattato, si cuoce a fuoco lento in forno o con fuoco sopra e sotto.
[Manuale di 150 ricette di «cucina di guerra»,
Cremona 1916]
Per sei persone è sufficiente un chilo e mezzo di zucca (buccia compresa), che va cotta in acqua leggermente salata sino a che non diventa tenera (o a vapore, per meglio conservare sapori e vitamine), e due etti di zucchero. Schiacciandola con una forchetta, la zucca rimane fibrosa, mentre se si vuole un impasto più vellutato si può passarla. La dolcezza di questa verdura permetteva sicuramente un uso contenuto di zucchero. La zucca è stata un alimento importante per il proletariato agricolo del nord Italia; durante la mietitura, quando lo sforzo fisico era altissimo e il cibo fornito dal padrone più abbondante del solito, veniva fritta dai braccianti modenesi che la mangiavano insieme a cipolle e fagioli, mentre quelli romagnoli la cuocevano sulla graticola.
Ne rimase l'immagine di cibo povero: l'Artusi racconta che «un signore,
giudicando molto delicata una torta, ne mangiò per due giorni; saputo poi
ch'ella era composta di zucca gialla non ne mangiò più, non solo, ma la guardava
di bieco come se avesse ricevuto da lei una grave offesa».
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