Copertina
Autore Gianni Perrelli
Titolo Habana libre
EdizioneDi Renzo, Roma, 2004, collana e num. , pag. 160, cop.fle., dim. 140x210x10 mm , Isbn 978-88-8323-095-0
LettoreGiovanna Bacci, 2005
Classe narrativa italiana , paesi: Cuba
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

Capitolo 1



Non potrò mai permettermi un vestito così. In tutta l'Avana non conosco sarti che sappiano confezionare giacche e calzoni con un minimo di gusto. E se ci fossero mi porterebbero via il salario di cinque-sei anni. Ma non è neanche faccenda da americani. Per loro il massimo dell'eleganza è la sbronza cromatica. Scippano i colori dell'arcobaleno e se li sbattono come viene sulle camicie. Non hanno conosciuto il Rinascimento. Non sanno cos'è l'armonia. La confondono con l'eccentricità. E anche quando comprano capi di valore li portano come sacchi. L'eleganza non si acquista. Ti deve venire naturale. Come questo giovanotto. Si vede che sta arrivando dall'Italia. È griffato anche nell'epidermide. Avrà almeno un migliaio di dollari addosso. Un po' esagerato. Ma sta a proprio agio nei suoi panni. Ha il fisico del ruolo. È venuto a Cuba solo per scopare. E sa che le jineteras si inumidiscono a prima vista quando incrociano un europeo in abiti d'autore. Di informalità nel vestire noi ne abbiamo fin troppa. Possiamo dare lezione al mondo. Le ragazze amano gli uomini pieni di etichette. Quelle sparate dalle radio di Miami. L'unica finestra di evasione verso un mondo che io immagino sia un po' vuoto. Ma vaglielo a spiegare alle nostre puttanelle. Come tutti i frutti proibiti il perfido consumismo ha un richiamo irresistibile.

Niurka, qui, non si libererebbe dei suoi jeans neanche davanti a un plotone di esecuzione. Mi ha costretto a venire due ore prima all'aeroporto. "Magari Mario arriva in anticipo. Non si sa mai con questi aviogetti moderni che partono dall'Europa. A volte il vento li spinge così forte". Ho fatto finta di crederci. La verità è che a noi cubani piace venire all'aeroporto. Specie da quando, con la visita del papa, hanno inaugurato il terminal nuovo. Abbiamo l'illusione di essere un paese normale. Efficiente. In linea coi tempi. E poi, in quelle sale tutte dipinte di fresco e così sgargianti di luci si respira aria internazionale. Per noi è difficile andare in giro per il mondo. Ma per fortuna il mondo ci viene in casa. A spogliare le nostre figlie. Io mi diverto a indovinare le nazionalità dagli sguardi e dai vestiti. E quasi sempre ci prendo. È più divertente stare due ore nella sala d'attesa dell'aeroporto che alla sede del partito a parlare ormai del nulla o sulla veranda di casa a contemplare un mare che è diventato una gabbia. L'aeroporto è come andare al cinema.

"José", mi ha detto ieri sera Niurka, "domani arriva il mio fidanzato italiano. Ho bisogno che mi fai da tassista". Ho una vecchia Studebaker. Da quarant'anni. Una vita. A volte mi sembra di esserci nato dentro. È una seconda pelle. Anche se oggi, più che un mezzo di locomozione, è un reperto da museo. Cammina e non cammina. Perde colpi. Ha l'asma. Ed è più facile trovare un cubano entusiasta di come gli va la vita che un pezzo di ricambio. Ma io la tengo in piedi con lo spago e con l'anima. A bordo ci faccio ancora la mia figura. Torno ragazzo, quando la ereditai da uno zio che amava troppo la bella vita per affezionarsi alla rivoluzione e preferì aumentare la sua collezione di troiette a Miami. Con la penuria di mezzi di trasporto che c'è all'Avana questo catorcio mi fa sentire un signore. E da quando il governo ha deciso che era compatibile con la rivoluzione possedere un po' di dollari è diventata una fonte di reddito. Mai nella vita avrei pensato che mi sarei adattato a fare il tassista. Abusivo, poi. Bisogna pur arrangiarsi. "Sì, Niurka. Domani sono a tua disposizione. Si fanno tanti incontri interessanti all'aeroporto. E gli italiani sono generosi..."

Niurka a vederla così, strizzata in quegli abitini sexy, sembra una ragazza senza arte né parte. Una da scopare, e via. Non ha mai avuto fede politica, ammesso che ci sia ancora qualche giovane attratto dagli ideali e non dai beni materiali. Non ha neanche perso tempo con gli studi che la rivoluzione garantisce a tutti. Tanto, dedicare le notti ai libri non porta verso Miami ma verso la libreta e gli stenti. È una mulatta chiara. Ha un bel corpicino, un bel musetto, e sa muovere bene le chiappe. Per un po' l'hanno assunta al Tropicana. Ma quello è una sorta di corpo militare. Regna una disciplina inflessibile. E lei ha un carattere ribelle, non vuoi saperne delle regole. Poi si è messa a fare la modella. Credo che sia andata per un po' anche in Italia. Dove ha stordito qualcuno di sesso. Ma anche questa esperienza è durata un lampo. L'ambiente era pieno di gay. E a lei piace farsi sbattere da maschi veri.

Ha l'era di mia figlia. Che all'universita non ha smesso di credere. Abitiamo quasi porta a porta e si conoscono da bambine. Certe sere escono insieme. La mulatta e la bianca. Vanno a ruba. Penso che si scambino gli uomini. Perlopiù italiani. Che vengono con le idee chiare, non perdono tempo con il fascino dell'Avana vieja e il mito del Che. Ma qui nessuno ci fa caso. Siamo un popolo sensuale. Il sesso è un appetito, non un peccato. Un piacere, non un vizio. Per questo tolleriamo l'invasione europea dell'esercito del preservativo. Sì, entra anche qualche soldo. E un ricostituente per l'economia nazionale. Ma il punto è che non si scandalizza nessuno. Se non lo facessero per un paio di jeans con gli stranieri, tante ragazze lo farebbero ugualmente gratis coi cubani. Solo il partito, ogni tanto, si irrigidisce. Perché la domanda di prestazioni erotiche è così imponente che ormai non basta più il regalino. Secondo le antiche leggi del mercato, occorre il contante. Se non si pone un freno, la prostituzione rischia di tornare come ai tempi di Batista. Ma prostituzione è un termine un po' forte. C'entra sì la miseria. Ma è forte anche la spinta emotiva. Alle ragazze non resta che il sesso per cercare di capire cos'è la vita fuori di qui. È una valvola di sfogo non solo per gli ormoni, ma anche un antidoto contro l'assenza di orizzonti. È confortante scoprire che almeno sul fronte del sesso non dobbiamo nutrire complessi di inferiorità nei confronti dell'Occidente capitalista. Anzi, lo si fa meglio, più serenamente, qui. È l'ebrezza cha dà una vacanza. Per chi riceve e per chi dà. Semmai io non capisco questi amatori da trasferta che arrivano con la bava alla bocca. Perché fanno tutti questi chilometri? Non si fa più l'amore al loro paese? Se glielo chiedi, ti rispondono che qui è diverso. Le ragazze sono dolci, disponibili, non piantano rogne. Mentre da loro il femminismo le ha rese tutte arpie, prima di concedersi ti fanno sputare sangue. Certo, se è così, sono ridotti proprio male i paesi ricchi. Se vengono tutti a Cuba, vuoi vedere che almeno in risorse umane siamo più ricchi noi?

Comunque sia, a nostro modo diamo un contributo alla globalizzazione degli individui. Per quella delle merci la rivoluzione dice che dobbiamo ancora aspettare. Noi siamo pazienti, questo sole dell'avvenire la smetterà di nascondersi dietro le nuvole. Chissà, un giorno forse potrò salire anch'io su un aereo diretto all'estero, senza aspettare secoli un passaporto rilasciato per fedeltà rivoluzionarie o dover investire il risparmio di millenni nell'acquisto di un biglietto. Tra le persone comuni, in questo paese, solo alle jineteras, per via che aprono le gambe in modo dolce e disponibile - altroché le arpie d'Europa -, è facile procacciarsi un invito per paesi lontani.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 31

CAPITOLO 3



A messa ho ripreso ad andare da quando è venuto il papa all'Avana. Non con la frequenza di Claudia, la mia signora. Una volta al mese, un po' trascinato da lei, un po' per curiosità, un po' perché qui a Cuba ci siamo tutti illusi che la religione potesse risolvere almeno qualcuno dei nostri innumerevoli problemi. Ricordo che da piccolo mia madre mi raccontava di avermi battezzato. Niente di strano per quei tempi. Fidel da ragazzo studiò in un istituto di preti. Poi venne la rivoluzione e spazzò via tutte le fedi. A dire il vero neanche me ne accorsi. Non ero un frequentatore di chiese. Anzi credo che se ne siano accorti in pochi. La vera religione a Cuba è la santeria. E i pontefici massimi si chiamano babalao. Stregoni che negli scantinati elevati a templi, le casas de ocha sovraccariche di feticci e di santini, praticano la divinazione, lo spiritismo, l'erboristeria per divulgare i messaggi divini degli Orisha, spiriti con caratteristiche umane. Un equo mix di cristianesimo, paganesimo e credenze. In cui la Virgen del Cobre, patrona dell'isola, si confonde con Oshun, dea della femminilità. E San Lazzaro, il patrono, nella trasfigurazione popolare diventa Babalù Ayé, protettore dei poveri. Questo sincretismo deriva dai nostri antenati africani e vi è inciso il nostro Dna. A quel culto Fidel ha regalato una sorta di immunità. L'ha tollerato per rispetto allo spirito della nazione. Dei pochi cattolici rifluiti nelle catacombe non importava alcunché a nessuno. Ma se avesse messo in discussione la santeria il popolo avrebbe continuato a esercitarla in massa nella clandestinità. Personalmente me ne son tenuto sempre alla larga. Ma ho visto fior di colleghi piegare la forza della ragione al fascino di quei riti tribalici, scanditi dalle percussioni, permeati ancora di primitivismo.

Neanche Fidel si staccò mai del tutto dall'esperienza religiosa. Molti anni dopo, quando era ancora proibito frequentare le chiese, iniziò la lunga marcia verso il Vaticano con una lunghissima confessione a Frei Betto, un sacerdote brasiliano che predicava la teologia della liberazione.

La stessa Claudia, che è una brava donna, è una credente per modo di dire. È medico anche lei. Ginecologa. E negli ultimi tempi ha molto collaborato con la Caritas, che fornendo cibo, latte, medicinali è diventata la mutua per le fasce più emarginate. Giustifica la sua maggior assiduità con un bisogno di spiritualità a Cuba troppo a lungo trascurata. E dal momento che oggi il governo non ostacola più la dimensione religiosa, la ricerca dell'assoluto è anche una fuga laica dalle miserie quotidiane.

Per noi ha significato molto la venuta del pontefice. Con la sua visita ha gridato al mondo, e soprattutto all'America, che nessuno aveva il diritto di considerarci alla stregua di reietti. Mi rendo conto che nel primo mondo il nostro orgoglio nazionale può risultare naif, forse addirittura patetico. Ma dopo quasi mezzo secolo di embargo, avremmo almeno il diritto di rifiutare l'etichetta di appestati.

Quel giorno in plaza de la Revolucion non volevo neanche andare. Fu Claudia a vincere le mie pigrizie. "Non possiamo mancare, José. Dalla vittoria alla baia dei porci non c'è mai stato un evento così grande". Grande lo è stato davvero. Mai vista tanta gente per le strade. Mai vista tanta spontaneità di partecipazione. Era la curiosità morbosa, o l'orgoglio del presenzialismo, ad alimentare gli entusiasmi. Non certo la fame arretrata di religiosità. Nella calca c'erano gli spiriti umili che non avrebbero saputo neanche collocare geograficamente la sede del papato. C'era chi non aveva mai messo piede in vita sua in una chiesa. C'erano atei convinti che partecipavano alla celebrazione come ad un rito di Stato. E un po' tutti vivevano l'evento come un riconoscimento, uno schiaffo all'America così persecutoriamente ostile. Nelle parole dell'uomo vestito di bianco non c'era alcuna adesione alle intransigenti dottrine che da quasi mezzo secolo hanno plasmato le nostre vite. Il pastore badava bene a porre l'accento sul significato evangelico della sua missione. Non voleva fare il processo alla rivoluzione. Solo aprire gli animi alla fede, risvegliare la religiosità, indicarci gli orizzonti spirituali che Cuba aveva sacrificato sull'altare del materialismo storico e della logica dei blocchi. Obiettivi che percepivamo confusamente, tutti inorgogliti dal sentirci per una volta al centro del mondo, e addirittura in positivo. Perché con parole fin troppo esplicite il papa che non poteva appoggiare la rivoluzione ricordava anche all'America i suoi peccati. Prima fra tutti quello di affamarci con il bloqueo.

Ero come ipnotizzato sotto il sole. Indifferente alla calura e alla spossatezza. Tutto assorbito dalla carismatica figura del pontefice dalla salute malferma, che aveva attraversato l'oceano per far proseliti, ma dal nostro punto di vista soprattutto per restituirci una dignità negata dal potente vicino.

Ricordo le facce compenetrate di chi nella ressa mi stava vicino. Distinsi un tipo che avevo perso di vista, un funzionario di partito che a tempo perso faceva il delatore, un ex mangiapreti. Aveva un crocifisso nella mano destra, un rosario in quella sinistra. Una caricatura della fede. Ma aveva fiutato il vento. E per eccesso di zelo non voleva farsi cogliere impreparato. Lo ignorai. Poi intravidi un mio vecchio compagno di università, un medico come me, studioso del marxismo e convinto che la religione fosse solo una forma un po' più sofisticata di superstizione. Non aveva nulla in mano e stampato in faccia ostentava il suo solito sorriso sardonico. Mi venne voglia di capire cosa lo avesse spinto in plaza de la Revolucion.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 55

- Ma come si vive in Italia? Vedo che siete sempre ben vestiti, che vi piace mangiare e bere al massimo, che siete artisti nel godervi la vita. Edonisti, insomma. Ma credete in qualcosa?

- È una domanda difficile. Sicuramente il nostro non è più un popolo religioso. Siamo tutti battezzati, ma in chiesa ci vanno solo i vecchi. L'Italia è un paese secolarizzato. Neanche la politica suscita più passioni. Sono crollate le grandi fedi e le grandi ideologie. Prevalgono solo i comitati di affari, le logiche di corporazione. E su tutto trionfa la corsa al danaro. Anche in Italia, come in America, un uomo si misura ormai sul reddito e non sulle doti umane. Resiste però una tradizione di assistenzialismo dovuta in parte all'azione della Chiesa, in parte all'impegno di quelle minoranze di sinistra che non si sono ancora piegate alla tirannia del libero mercato.

- Il papa e Marx contano dunque ancora in Italia.

- Il papa muove grandi passioni, soprattutto per via della sua straordinaria personalità. Le ha smosse del resto pure presso un popolo di non credenti come il vostro. In quanto a Marx, se non è morto è moribondo. È un reperto di archeologia. Tanti giovani neanche sanno chi sia. Anche perché l'Italia è un paese dove non si legge quasi più. La cultura è quasi tutta visiva.

- Ho sentito che c'è al potere un governo di sinistra che sta cercando di fare una politica di destra. Solo voi, con la vostra fantasia, potevate creare un simile guazzabuglio

- La realtà è più complessa. La verità è che da noi non esistono più la destra e la sinistra. I programmi dei partiti si assomigliano tutti e rispecchiano le radici solo in alcune sfumature. Essendo un paese generalmente di benestanti, in cui il settanta per cento dei cittadini è proprietario di case, e in cui ogni famiglia media, come potrebbe essere la tua all'Avana, possiede non meno di due automobili, un paio di telefoni cellulari, tre televisori e un conto in banca non inferiore ai 50 mila dollari, ogni partito cerca di occupare il centro della scena. Di garantire cioè a questa borghesia più o meno agiata che nulla e nessuno metterà mai in discussione la solidità raggiunta. Dove il benessere è relativamente diffuso, puoi capire che il socialismo perde la sua presa.

- E i poveri, allora? I mendicanti che si vedono in televisione?

- Se ne occupano la chiesa e le associazioni di volontariato. Sopravvivono con la pubblica carità. Sono considerati una macchia nel paesaggio, ma vengono tollerati come una conseguenza inevitabile del sistema capitalistico che vuole vincitori e vinti.

- È una società spaventosamente egoista.

- Più di quanto tu possa immaginare. Una società invecchiata che fa sempre meno figli e che difende così a denti stretti i suoi privilegi da bloccare l'accesso al lavoro ai giovani. Che ripagano viziandoli, coccolandoli, mantenendoli fino a 30 anni. Se hai un posto che conta, lo lasci solo in punto di morte. E siccome tutti i giovani studiano, si sentono socialmente elevati e a casa vengono trattati da piccoli lord, nessuno è disposto ad accettare piccoli impieghi. Quando senti parlare di alti livelli di disoccupazione in Italia non devi pensare che scarseggino le possibilità. Siamo una delle più forti potenze industriali del pianeta. Un magnete per il terzo mondo che preme sulle nostre coste con le masse di diseredati. I lavori umili in Italia li fanno ormai solo gli immigrati. Gli italiani sono troppo schizzinosi per sporcarsi le mani.

- E ai giovani va bene questo stato di comoda vegetazione? Come si fa ad essere giovani e non sentire l'impulso di spaccare il mondo?

- Brontolano, bofonchiano, ma sostanzialmente si adagiano. Anziché il mondo, spaccano i motorini, la quiete e i timpani altrui. Vivono in branco, secondo precisi codici. Vivono nell'artificialità dell'Internet. Si scambiano messaggi d'amore sui telefonini. Badano più che altro a stordirsi nelle discoteche. Imprecando contro il benessere di cui sono prigionieri e che paralizza gli slanci, il prurito delle conquiste. Ma incapaci di rinunciarvi. È una palude dorata, in cui si disperdono tanti talenti. Il loro guaio è che non hanno fame. Neanche di sfide.

- Ma non c'è neanche uno straccio di alternativa?

- Quella di emigrare. Verso gli Stati Uniti o altri paesi europei dove ci sono più possibilità. Ma se lì è più facile trovare un posto di lavoro, non credere che la vita cambi. È sempre tutto dominato dal consumismo. Non si è mai sazi. E capisco l'invidia di chi come voi ha la pancia vuota. Ma non credere che l'opulenza equivalga a felicità. Sai bene che la formula della serenità è nell'equilibrio fra il benessere materiale e quello spirituale. Che razza di vita è quella che pensa solo all'accumulo e alla vacanza? Gli italiani li trovi in ogni parte della terra. Anche dove non si scopa, credimi. Ma pure nel viaggio seguono la logica del branco. Vanno in un posto perché gli hanno detto che fa tendenza. Però la maggior parte di loro neppure riuscirebbero a indicarlo su un atlante. Mi ricordo un villaggio turistico dell'Africa: avevano abolito perfino il fuso per far sentire gli italiani come a casa loro.

- Mi stai rappresentando il paese dei campanelli. Può darsi che soffra anche tu di presbiobia. Che per assuefazione, stanchezza, disinteresse, non veda più bene quel che ti succede intorno. Io ho un'altra percezione dell'Italia. So che i miei strumenti sono insufficienti. Spezzoni in tv, qualche articolo di giornale, molti luoghi comuni. Ma osservo anche gli italiani che arrivano qua. Lasciamo perdere la storia del sesso. Certo molti di loro sono volgari, impresentabili. Ma una società che porta al benessere economico perfino certi soggetti non può che essere vitale.

- Mi debbo essere espresso male. Non volevo dire che l'Italia è un paese in catalessi. Non siamo a corto né di energie né di risorse di creatività. Siamo semplicemente diventati più cinici e più aridi. Anche da noi oggi tutto ha un prezzo. In politica la gente è sempre piu affascinata da un industriale che ha tatto un pozzo di quattrini e che solo per questa ragione è un modello di successo. Non c'è più il metro della morale, del pubblico servizio. Chi ha più soldi vince. Come in America.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 97

- Niurka, hai visto che schifo?

- Di che ti meravigli, José? Ah già, tu giri poco... A me è capitato un sacco di volte di essere messa alla porta.

- E non ti sei mai ribellata?

- Serve forse a qualcosa?

- Trovi giusto che un cubano non possa muoversi come crede in casa propria?

- José, questo non lo devi chiedere a me. Io ho smesso di avere fiducia in questo sistema fin dall'asilo. Sei tu che continui a credere nella rivoluzione, nel castrismo e in tutti i suoi miti.

- Non la fare così facile, ragazza. Non tirarmi fuori il solito conflitto fra generazioni. Noi poveri illusi, nostalgici della Sierra e plagiati da Fidel. E voi sapientoni, che tutto avete capito della vita e che come ideali vi siete dati la filosofia della disco e della techno dance.

- Facili ironie, Josè. Adesso stai precipitando tu nei luoghi comuni.

- D'accordo, è una polemica stupida. Ma è stupido anche sottostare ai soprusi. Io credo che il cubano dovrebbe prendere coscienza di ciò. Far capire al partito che la segregazione non ha niente a che fare con la rivoluzione.

- Ti metti a fare il sovversivo, adesso? Non ti ci vedo.

- Cerco solo di ragionare alla luce del buon senso.

- Vaglielo a raccontare alle riunioni di partito. Le frequenti ancora, no? Ogni tanto ti vai a prendere un mojito alla sede del comitato della rivoluzione? Prova a dirglielo al capocellula che così non va. Vedrai che in capo a un minuto vieni messo alla gogna. Scrivono il tuo nome sulla lista dei dissidenti prezzolati da Miami. Ti cacciano dall'ospedale. E se ti va bene finisci i tuoi giorni con una canna da pesca al Malecon.

- I vertici del partito non sono così ottusi. Né lo sono le direttive di Fidel. Il problema è che poi, lungo la catena di trasmissione, tutto viene distorto e marcisce. Per indolenza, pigrizia, mancanza di tensione. Ecco, è proprio questo il punto. La rivoluzione manca di slancio. Non ti dimenticare che finché l'ha avuto ne ha fatte di cose buone.

- E cioè? Non me ne viene in mente una.

- Abbiamo il miglior sistema sanitario di tutti i Caraibi e forse dell'intera America Latina. Ti parlo da medico.

- Ma se non abbiamo neanche l'aspirina per curare il raffreddore.

- Quello è per colpa dell'embargo che ci strangola. Ma ti dice niente che in questa parte del mondo solo da noi i neonati non muoiono come mosche? Che nelle nostre cliniche di ricostruzione neurologica arrivano ammalati di Parkinson e Alzheimer anche dal Brasile e dall'Argentina? Che nel nostro Istituto di biotecnologia fanno studi avanzati sulle cure dell'Aids?

- Io so che le poche volte che mi ammalo ringrazio il cielo per avermi dotato di una fibra forte.

- Perché sei prevenuta e diffidente. Perché non sai come ci sbattiamo noi negli ospedali. Ma non voglio erigere un monumento alla mia categoria. Ci sono tante altre cose che funzionano bene in questa società. La scuola, per esempio. Abbiamo un tasso di alfabetizzazione che forse si sognano perfino in America. Se hai un minimo di inclinazione agli studi, alla laurea arrivi senza problemi. E poi lo sport. Mi trovi un altro paese piccolo come il nostro che abbia raccolto così tanti successi internazionali?

- Questa, Josè, è la propaganda del regime. Ti racconto la storia di mio fratello. Quello che quand'era ancora ragazzino caricò me e la sua fidanzatina sulla balsa per raggiungere Miami. Un viaggio che per fortuna durò sì e no mezz'ora. Altrimenti saremmo finiti ai pesci. Lui è uno che ha studiato. Ed è bravissimo con la mazza da baseball. Ma non sa che farsene di tutte queste cose. Siccome i rischi del mare non gli va di affrontarli più - ha imparato la lezione - passa il tempo davanti alla sezione degli interessi americani nella speranza che la situazione si sblocchi, che gli Stati Uniti reintroducano il criterio dei sorteggi e diano qualche altro visto. Mio fratello ha studiato ed è capace nello sport. È un cubano riuscito, un fulgido esempio della rivoluzione. Eppure non vede l'ora di abbandonare Cuba. È vero che qui tutti possono andare all'università e dedicarsi alle attività sportive. Ma a che serve? Solo ad avere candidati alla fuga e puttane laureate o campionesse. Ti sei dimenticato un'altra cosa. Neanche da vecchio vieni abbandonato. Una zuppa la rimedi sempre. Lo Stato pensa a te fino a vent'anni e dopo i sessanta. Il problema è in mezzo. Che fai nei 40 anni in cui dovresti produrre, se non ti accontenti di 15 dollari al mese? La puttana. Il tassista abusivo. O cerchi di scappare.

| << |  <  |