Copertina
Autore Roberto Perrone
Titolo La lunga
EdizioneGarzanti, Milano, 2007, Narratori moderni , pag. 170, cop.fle., dim. 13,5x20,5x1,5 cm , Isbn 978-88-11-68604-0
LettoreGiorgia Pezzali, 2007
Classe narrativa italiana , media
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Indice


    Prima parte                               7

1.  No, non era granché                       9
2.  Il capo                                  14
3.  La foto                                  19
4.  Taddei s'arrabbia                        24
5.  La domanda della Rita                    29
6.  Inevitabili ricordi                      34
7.  Niente uova nell'insalata                39
8.  I1 nuovo manager                         43
9.  Nebbia in Val Padana                     48
10. I figli so' piezz'e core                 53

    Seconda parte                            57

11. Un viaggio inatteso                      59
12. La domenica di Mortola e Perasso         64
13. Ritorno a casa                           69
14. Il bacio                                 74
15. Il padre di G.C. 7                       79
16. Palleggi                                 83
17. Il poster di Carmen                      87
18. Interviste e salumi                      92
19. Non è vero ma è bello                    97
20. La seconda presenza                     101
21. Modena, una sera d'estate               105
22. L'ultima volta                          110

    Terza parte                             115

23. La mattina dopo                         117
24. Il sonno del giusto                     122
25. Ecco chi era                            127
26. La notte prima                          132
27. Mortola regola i conti                  136
28. La sorpresa della Rita                  141
29. Mi affido alla clemenza della corte     145
30. La rivelazione                          149
31. Il Club Perasso                         154
32. La vera storia di Simone Perasso        159

Nota dell'autore                            167

 

 

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Pagina 9

1.
NO, NON ERA GRANCHÉ



«Mortola? Sono D'Adamo. Sei tu di lunga?»

D'Adamo era uno dei capiredattori centrali. Giacinto Mortola non ricordava più in quale posizione della scala gerarchica si trovasse.

«Sì, sono io.»

Ombra di panico. Quando chiamavano dall'ufficio centrale c'era qualcosa che non andava, qualcosa da cambiare, qualche scocciatura.

«Senti, c'è stato un tremendo incidente tra Parma e Reggio Emilia a causa della nebbia, una cosa bestiale, un massacro, una roba mai vista. Stiamo rifacendo il giornale, siamo nel casino. I morti sono almeno venti, ma continuano a salire. Cominciano ad arrivare i primi nomi. Il nostro corrispondente di là, che è uno sveglio, ci segnala che c'è anche un ex giocatore. Sostiene che è passato anche dalla serie A. Volevamo sapere se è uno importante.»

«Come si chiama?» chiese Mortola aprendo il primo cassetto della scrivania e afferrando l'almanacco del calcio che raggruppava i nomi di tutti i calciatori che, almeno una volta, avevano messo un piede in serie A.

«Simone Perasso.»

Mortola posò lentamente l'almanacco e richiuse il cassetto. Restò in silenzio mentre ricostruiva un volto, una storia, una vita, mentre cercava di rimettere al posto giusto ogni particolare, ripassò tutta la giornata che lo aveva portato fine a quel momento.


Angrisani era uscito alle otto e mezzo. Gli capitava raramente di andarsene dal giornale così presto ma, sebbene si riempisse la bocca di sozzerie sulle donne, esibendo conoscenze carnali che probabilmente non aveva, raramente gli era capitata una così bella ragazza tra le mani.

La stagista per cui il capo abbandonava a un'ora inconsueta il giornale era una ragazza di ventitré anni, bionda naturale, capelli ricci, uno stacco di gambe impressionante, da indossatrice, perfetta in ogni particolare.

Non si era mai saputo come fosse capitata allo sport. Non gliene fregava nulla, però era sveglia e, nell'estate precedente, si era fatta apprezzare non solo per le sue doti fisiche. Sarebbe diventata una brava giornalista.

Rossi, che aveva fatto le sue ricerche, aveva raccontato in redazione che era pure ricca sfondata. Il padre era uno dei più importanti notai di Pavia. Avesse voluto, un posto all'ufficio stampa della Provincia l'avrebbe già ottenuto, ma la ragazza puntava in alto. E Angrisani puntava a lei. Aveva appuntamento alle nove davanti all'appartamento milanese che il papà notaio le aveva acquistato in via Salasco, ma alle nove meno dieci era già lì davanti, con l'auto immersa in quella nebbia inconsueta.

Aveva dovuto addirittura scendere dalla macchina e andare a stazionare sotto la luce del portone. «Altrimenti capace che me la perdo.» Poi, stupito di quella sua frenesia da ragazzino, si era chiesto: «Non farò mica la fesseria di innamorarmi? Nooo».

Sparito Angrisani, c'era stato il fuggi fuggi generale dall'ufficio. Alle nove e mezzo, in redazione erano rimasti in tre. Oltre a Giacinto Mortola, che scorreva le agenzie, c'erano il vice, in attesa che i correttori leggessero l'ultima pagina per dare il via alla stampa, e Taddei, che il venerdì si fermava sempre a scrivere la rubrica che teneva su un settimanale.

Dopo aver spedito via mail il suo articolo, spense il computer. Anche su di lui, in fondo, come su tutti, l'assenza di Angrisani aveva un effetto positivo. Gli metteva addosso la voglia di chiacchierare.

«Di', ma dove correva il tuo idolo stasera? Come mai non è rimasto a spegnere la luce?» apostrofò il vice.

«Secondo te?» ribatté quello.

«Secondo me, c'ha una. Magari tromba e domani torna che è un altro uomo.»

Il vice sorrise. «A quanto mi dai che, pure se tromba, torna uguale a prima?»

Taddei si fece una delle sue grasse ma rare risate, infilandosi dentro un pastrano verde che usava, rigorosamente, tutti i giorni dal 5 novembre al 5 marzo. Se il 6 marzo faceva più freddo del 5, pace, lui cambiava abbigliamento lo stesso.

«Hai ragione, non c'è quota. Quello fetente è e fetente rimane. E non si rende neanche conto della fortuna che ha avuto a trovare uno come te, che in fondo sei un brav'uomo.»

«Ti ringrazio.»

«Non mi ringraziare, dovresti mollarlo al suo destino. Però io sono di quelli che capiscono i misteriosi sentieri dell'amicizia. Ti saluto.»

Si avviò a passi lunghi verso la porta della redazione. Prima, però, diede una pacca sulla spalla a Giacinto Mortola. «Ciao Giacinto. E mi raccomando, non ti perdere una che fosse una agenzia dell'economia.»

Taddei alludeva a uno dei momenti di massima furia di Angrisani contro Giacinto Mortola. Una notte che era di turno, era arrivata un'agenzia che riguardava l'incriminazione di un presidente di una società calcistica per una rata IRPEF non pagata. Non era una cosa tremenda, ma si poteva trovare un piccolo spazio in seconda edizione. Una volta le agenzie arrivavano via telex, venivano strappate dai fattorini e portate alle varie redazioni. Il sistema era stato informatizzato e ora le agenzie erano tutte lì, belle e pronte sul computer, divise per argomenti: esteri, interni, cronaca, spettacoli, sport, economia.

Solo che l'agenzia incriminata, non si sa per quale mistero virtuale, era finita tra quelle degli spettacoli e, naturalmente, Giacinto Mortola non l'aveva vista perché controllava solo quelle sportive, com'era ovvio.

L'indomani, Angrisani voleva scrivere una lettera di biasimo (o peggio) alla direzione. Era stato fermato dal vice che gli aveva spiegato che l'agenzia, nello sport, non c'era. Non contento, visto che ormai aveva cominciato a rimproverare Giacinto Mortola, il capo arrivò a sostenere che, di notte, chi era di turno non dovesse controllare solo le agenzie del proprio settore, ma anche tutte le altre.

Era stato seppellito da un incontenibile sghignazzo di Taddei che, da quel momento, ogni volta che Giacinto Mortola era di lunga, per deridere Angrisani, lo invitava a visionare un qualche settore differente dallo sport.

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Pagina 29

5.
LA DOMANDA DELLA RITA



La Rita gli aveva lasciato il caffè sul gas. A lui sarebbe bastato accendere la fiammella. Però prima di dedicarsi alla caffettiera, dopo essersi aggiustato i pantaloni del pigiama - diceva «aggiustare», con una sorta di pudore: in realtà si trattava di rimetterli sopra la gobba della sua pancetta - andò alla finestra della cucina, la aprì e si appoggiò al davanzale.

A Giacinto Mortola piaceva restare così, appena alzato. Lo aveva fatto, fin da ragazzo, nella casa dei suoi genitori. Allora s'affacciava dalla sua stanza da letto o dal bagno, che non avevano il terrazzo. Meglio dalla finestra del bagno, che si apriva su un orizzonte meno angusto. Stava lì appoggiato e guardava fuori, verso i monti o verso i palazzi in costruzione. In quel periodo, alla fine degli anni '50, c'erano cantieri dappertutto.

Non guardava qualcosa o qualcuno. Non era uno scrutare pettegolo, il suo, da vecchia curiosa. Giacinto Mortola non inquadrava i particolari, non li cercava. Gli interessava l'insieme.

In quel momento, in quel giorno di metà dicembre, guardava giù, verso piazza Salgari e pensava, come gli succedeva ogni mattina, che quella era una piazza di Milano molto bella, quasi parigina. Non era grandissima, c'erano il verde in mezzo, i bistrot, cioè i bar, ai lati, l'edicola, il tram (ecco, a Parigi il tram non c'è, ma tant'è).

Secondo Giacinto Mortola in piazza Salgari esisteva un vuoto temporale, una specie di sospensione, rispetto alla frenesia cittadina, che neanche l'imbottigliamento che spesso, da via Carabelli, si ripercuoteva sulla piazza, riusciva a modificare.

Gli piaceva abitare lì e guardare giù, senza vedere nessuno in particolare, solo per il gesto in sé. Forse sarebbe sembrata una stranezza da vecchio, se non l'avesse sempre avuta. Era una specie di attesa con cui ritardava i gesti inevitabili che si compiono a ogni inizio di giornata. Altri uomini come lui, in giro per Milano o per il mondo, facevano qualcosa di simile. Forse.

Chiuse la finestra perché cominciava a sentire freddo. Anche in questo aspetto della sua vita, la vecchiaia non c'entrava: il freddo gli aveva sempre dato fastidio. Accese il gas e osservò il caffè che si avventurava fuori dal suo guscio d'acciaio. La Rita glielo lasciava sempre lì, pronto, anche se lui era capace di prepararselo da solo.

Non era pigro, Giacinto Mortola, ma a molti dava quest'impressione. Sapeva cucinare, fare il bucato e pure attaccarsi un bottone. Era in grado perfino di stirare correttamente una camicia. Però era da trent'anni che non lo faceva.

Accadeva i primi tempi che era a Milano e si doveva arrangiare. La portinaia dello stabile di Porta Genova, dove aveva trovato un minuscolo monolocale in affitto, era rimasta delusa perché sperava di spillargli qualche soldo facendogli le pulizie. Altri scapoli (il termine «single» non era ancora in uso) del palazzo si erano rivolti a lei.

Ma Giacinto Mortola se la cavava benissimo da solo. «Grazie signora per l'interessamento, ma non ho problemi», le aveva risposto gentile.

Aveva ancora addosso quell'ingenuità provinciale, frutto dei rapporti stretti, di vicinanza con le persone e aveva creduto che la portinaia gli avesse offerto gratuitamente il servizio.

Lei, invece, piccata per il rifiuto che faceva naufragare l'affare, si era messa a sparlare di lui con il vicinato: «Quel lì, per me, l'è una checca, s'è mai visto un uomo che stira?»

Ogni tanto Giacinto Mortola rimetteva in fila tutte le persone che aveva incontrato nella sua vita e mai più rivisto. Tra loro c'erano anche quelle, come la portinaia in questione, che non l'avevano ricambiato con la cortesia che lui, invece, riservava abitualmente al prossimo.

Milano non era la città dov'era nato, ma ormai era la sua città. Giacinto Mortola era un uomo che s'adattava facilmente. Anche se veniva dal mare non aveva sofferto di nostalgia.

Adesso che s'avvicinava la pensione, però, Giacinto Mortola si domandava sempre più spesso se sarebbe tornato ad abitare in Liguria. Sua sorella glielo aveva chiesto espressamente. C'era da prendere una decisione a proposito della casa dei genitori. «A me non interessa, Giacinto, se la vuoi stabiliamo un prezzo, mi dai la metà e te la tieni. Altrimenti la vendiamo e facciamo metà per uno, ma lasciarla lì a morire mi sembra un delitto.»

Aveva ragione, concordava Giacinto Mortola. Tornare in Riviera? Perché no? Potrei fare come quella gente famosa nelle cui biografie si legge: «vive tra Los Angeles e Cap d'Antibes». Sei mesi giù e sei mesi su. Non sarebbe certo stato il primo.

Milano però era la città della Rita, che forse non avrebbe voluto lasciarla. O magari sì, invece, avrebbe acconsentito. Non ne avevano mai parlato. La Rita si era alzata presto per andare a lavorare. Si era sempre alzata presto, in realtà, per badare alla casa e ai figli. Ora che i figli se n'erano andati per la loro strada — anche se tornavano spesso per la roba da lavare: loro non erano bravi come Giacinto Mortola o forse erano «moderni» — la Rita badava alla casa e al suo lavoro. Non che ne avessero bisongo, ma lei ci teneva.

Che donna, la Rita, pensò Giacinto Mortola mentre si versava il caffè nella tazzina. A cinquantacinque anni si era rimessa a lavorare. Un'amica aveva aperto una boutique in centro – ne aveva tre o quattro, sparse per la città – e le aveva offerto di stare alla cassa.

«Ti dispiace?» aveva domandato la Rita la sera che gli aveva raccontato della proposta. E non era una richiesta fine a sé stessa. Se lui le avesse risposto «sì», probabilmente avrebbe rinunciato. La Rita gli voleva bene. Lui invece l'amava. La differenza non era sottile, ma Giacinto Mortola sapeva che il loro matrimonio era stato felice, per entrambi. E lo era ancora. Forse lo osservavano da due prospettive diverse, dopo oltre trent'anni e due figli adulti, ma la conclusione era la stessa. Giacinto Mortola ne era certo.

Guardò l'orologio a muro del Totip che aveva almeno vent'anni e aveva resistito a un paio di traslochi. Dove gliel'avevano regalato? Mah, non lo ricordava più. Colpa della vecchiaia, si disse gustando il caffè della Rita.

Quella era la sua unica colazione. Mai preso nient'altro al mattino, anche se il medico, dov'era stato per una faccenda dell'età – gli era sempre piaciuto aggirare i fatti spiacevoli con le parole, come, in questo caso, gli inevitabili problemi della prostata che colpiscono gli uomini a un certo punto della loro vita – gli aveva consigliato di cambiare abitudini alimentari.

«Una corretta colazione è fondamentale.»

«Sa, io mi alzo tardi», aveva obiettato Giacinto Mortola.

«Non ha importanza, anzi, così calma l'appetito in vista del pranzo.»

Ma Giacinto Mortola continuava a bere solo il caffè della Rita. È strana la vecchiaia. Gli avevano sempre detto che i vecchi dormono poco e, soprattutto, si svegliano presto, anche se potrebbero finalmente riposare. E invece lui continuava a dormire sempre almeno fino alle dieci ogni mattina. Anche alle undici, se la sera prima era andate a dormire molto tardi.

Come avrebbe fatto quella sera.

In quel momento ripensò alla domanda della Rita. Lo aveva sorpreso. Il lunedì sera mentre lei gli preparava la cena, lui, seduto proprio dove si trovava ora con il caffè, appoggiato al muro della cucina, dalla parte opposta a quella in cui c'erano i fornelli, le aveva detto, come sempre, quale sarebbe stata la sua settimana.

La Rita, allora, si era voltata con un pomodoro in una mano e il coltello nell'altra.

«Ma ti faranno fare la lunga anche il giorno della pensione?»

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Pagina 53

10.
I FIGLI SO' PIEZZ'E CORE



Giacinto Mortola non aveva studiato Freud e la psicanalisi in genere. All'università non aveva sostenuto esami di psicologia, né di filosofia, a parte storia della filosofia medievale.

Era andato, nel primo svagato mese da matricola, a seguire una lezione e gli erano piaciuti, nell'ordine: il libro da studiare, per la sua forma, per la carta, per il nome dell'autore (Etienne Gilson), e il professore, per l'espressione bonaria, promessa di un esame a misura d'uomo (così era stato).

Giacinto Mortola aveva un'opinione forse banale della psicologia, ma tant'è.

Credeva che non fosse difficile comprendere i sentimenti delle persone. Per esempio lui era più affezionato a sua figlia che a suo figlio. Ci voleva Freud – o chi per esso – per capirlo? Lui era il padre e i padri amano le figlie femmine. E poi bastava guardarli, i suoi figli.

La figlia, che era stata chiamata Annalisa (nessun rimando a qualche parente, ma solo perché il nome piaceva a sua moglie), era come la madre, mentre suo figlio Giuseppe era la sua fotocopia. In tutto e per tutto come lui. Tranne che nei capelli: Giacinto Mortola, a più di sessant'anni, teneva duro sul cuoio capelluto, seppure con un colore che tendeva più al bianco che al grigio; suo figlio, a neanche trenta, era già calvo.

I tigli di Giacinto Mortola se n'erano andati presto da casa. Suo tiglio si era sposato a venticinque anni, mentre sua figlia, a ventitré, un giorno era tornata dal lavoro (appena preso il diploma aveva cominciato a lavorare, pratica e svelta come sua madre) e aveva annunciato: «Vado a vivere da sola».

Giuseppe Mortola, invece, aveva sposato la sua fidanzatina di sempre, l'unica. Si erano conosciuti in prima liceo, dopo sei mesi stavano insieme e, da allora, non c'era stato verso di separarli, neanche cinque minuti. Quando erano a pranzo o a cena da loro, veniva naturale che la moglie di Giacinto Mortola stesse in cucina a finire i preparativi e che sua nuora andasse con lei, ad aiutarla, mentre i due uomini parlavano sul divano.

Una cosa naturale, succede in tutte le famiglie. No? Ma la regola non valeva per suo figlio e sua nuora. Dopo qualche minuto di separazione i due ragazzi cominciavano a cercarsi, dovevano vedersi, toccarsi, mormorarsi sottovoce qualche parola comprensibile solo a loro. Quando c'era Annalisa erano guai, perché cominciava a prenderli in giro.

Sebbene i due fratelli avessero avuto sempre buoni rapporti, negli ultimi tempi Giacinto Mortola e sua moglie temevano i loro incontri. Soprattutto per la vitalità di Annalisa che, dopo tre anni di lavoro, si muoveva con la consapevolezza di una donna bella e gratificata da un mestiere che le piaceva e che la faceva guadagnare benissimo. Era la segretaria, anzi l'assistente, del presidente di un'importante agenzia pubblicitaria.

Ogni tanto, per Natale o per Pasqua, arrivava a casa con un pacco di yogurt, di caffè, di cioccolato, di caramelle, regalo delle aziende per cui inventavano spot di successo. Giacinto Mortola era fiero di lei. E lo era ancora, anche se, dopo quella sera in cui lei aveva comunicato ai suoi genitori che andava a vivere da sola, ogni volta che pensava alla situazione della figlia provava un breve ma lancinante dolore. Non perché lei era andata a vivere sa sola.

Non perché se n'era andata da casa così giovane, molto prima del tempo, almeno a dar retta a quello che scrivevano i giornali e cioè che i ragazzi tendevano a vivere con i genitori assai più a lungo di quello che accadeva negli anni '70 e '80. Si staccavano più tardi, insomma.

No, non era quello. Quando, infilandosi in bocca un pezzo di pomodoro (li aveva sempre adorati, proprio come suo padre, e sua madre glieli faceva trovare quasi sempre in tavola), aveva annunciato la sua decisione, più che una discussione, c'erano state delle domande, da parte dei genitori. Li preoccupava la questione economica. Ci fu un momento di imbarazzo.

Giacinto Mortola aveva accantonato, nel corso degli anni, un «fondo» per provvedere alla casa dei figli, ma questo si era ridotto, e di molto, quando si era sposato Giuseppe, il suo primogenito. Sarebbe occorso ancora qualche anno per rimpolparlo. Temeva di non essere in grado di aiutare sua figlia e quindi di deluderla.

«Dove sarebbe il tuo appartamento?» Giacinto Mortola cercò di prenderla alla lontana.

Lei, come se stesse pronunciando il nome di un'oscura strada di periferia, aveva risposto allegra: «Via Vivaio».

I due genitori si erano guardati con l'identica espressione stupita.

Giacinto Mortola cercò di pensare velocemente. Doveva trovare le parole per spiegare a sua figlia che il loro contributo (per l'affitto, naturalmente non era pensabile un acquisto) sarebbe stato ridottissimo.

Annalisa era una ragazza intelligente. Spinse via il piatto e li guardò tutti e due abbracciandoli con i suoi occhi verdi. Scostò una ciocca di capelli, fece un sospiro e poi parlò, rapida, come affondare una lama nel burro.

«Sentite, vi voglio bene e so che, anche se siamo nel 2000, siete due persone che la pensano in un certo modo. So che ci resterete male, ma non voglio sotterfugi, voglio chiarezza, almeno con voi. L'appartamento è un regalo. E siccome siete intelligenti, immaginerete che nessuno fa un regalo del genere, a parte i vecchi zii d'America e non è questo il caso. Me lo compra il mio amante, che poi è il presidente dell'agenzia pubblicitaria, insomma il mio principale. Siccome nessuno è fesso ed entrambi potremmo stancarci, anche se adesso filiamo d'amore e d'accordo, l'appartamento è intestato a nome mio. Tutto chiaro?»

La Rita si alzò dal tavolo, lentamente. E lentamente, ma con voce fermissima parlò: «Io non approvo! Hai ragione tu, noi la pensiamo diversamente. Vai pure per la tua strada, Annalisa, spero solo che tu non faccia sciocchezze. Comunque...»

«...tu troverai sempre i tuoi genitori ad accoglierti, in qualunque caso», completò Giacinto Mortola che si sentiva sempre a disagio in mezzo ai litigi, alle discussioni, ai momenti di forte tensione.

«Eh, la Madonna!» sbottò Annalisa «vado a stare a due chilometri da qui, mica sulla luna. E per quello che riguarda il resto, dai, non pensateci troppo, meglio che finire sposata a un cretino e divorziata, magari con figli, tra pochi anni.»

Giacinto Mortola, mentre faceva il numero del cellulare di sua figlia, cercò di ricordarsi che cosa, lui e la Rita, avessero risposto, ma non gli venne in mente nulla di apprezzabile. Il telefono dava non raggiungibile. Succedeva sempre così, il venerdì, se aspettava troppo a chiamarla.

Annalisa staccava tutto perché doveva prepararsi per uscire. Appoggiò la cornetta e si concentrò sulle pagine.

Sua figlia gli tornò in mente quando il caporedattore centrale fece il nome di Simone Perasso. Forse perché la notizia della tragica scomparsa dell'ex calciatore gli provocò un improvviso senso di privazione. Era una cosa diversa, non c'era paragone, ma il fatto di non aver parlato ad Annalisa, quel venerdì sera, aumentò in lui il rimpianto. Per non aver trovato sua figlia, per non aver più visto Simone Perasso. E per tante altre cose.

Così, mentre il caporedattore ancora gli parlava, cercò di ricostruire il primo incontro con Simone Perasso.

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