Copertina
Autore Tom Perrotta
Titolo Intrigo scolastico
EdizioneEdizioni eo, Roma, 2009, Dal mondo , pag. 178, cop.fle., dim. 13,5x21x1,5 cm , Isbn 978-88-7641-866-2
OriginaleElection [1998]
TraduttoreNello Giugliano
LettoreGiorgia Pezzali, 2009
Classe narrativa statunitense , scuola
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Pagina 9

Capitolo primo


IL PROF

Ho sempre desiderato insegnare. A differenza di tante altre persone, non ho mai dovuto chiedermi cosa fare della mia vita. Il mio unico sogno è sempre stato quello di sedermi sul bordo della scrivania in un'aula piena di ragazzi curiosi e parlare dei fatti del mondo.

L'elezione che ha fatto di me un venditore di automobili ebbe luogo nella primavera del 1992, quando le vicende di Clarence Thomas e Anita Hill erano ancora fresche nel ricordo di tutti e Gennifer Flowers era la star passeggera di riviste e talk show. Gli alunni del penultimo anno del mio corso di Attualità tornavano di continuo sullo stesso argomento, quello che i media avevano preso a chiamare "il problema della reputazione": che rapporto c'è tra virtù privata e responsabilità pubblica? Si può essere un marito infedele e allo stesso tempo un buon presidente? Un maniaco sessuale e un membro della magistratura efficace e imparziale?

È giusto dire che simili questioni interessavano più me che í miei alunni. Come gran parte degli adolescenti americani, i ragazzi di Winwood High non prestavano molta attenzione alla Corte suprema o alla corsa alla Casa Bianca. Le loro preoccupazioni erano più concrete – scuola, sport, sesso, la spietata politica di spogliatoi e corridoi.

Ma per i nostri dibattiti avevamo anche lo stupro di Glen Ridge. I miei alunni erano affascinati da questa storia triste e sordida, che diventò il punto di collegamento tra i loro interessi personali e quelli della democrazia in senso lato. All'epoca il caso non era ancora finito in tribunale, ma i ragazzi di Winwood ne conoscevano i dettagli per filo e per segno. Un gruppo di atleti di un liceo – i "ragazzi d'oro" di Glen Ridge – erano accusati di aver attirato una ragazza ritardata in uno scantinato, di averla costretta ad avere rapporti sessuali di vario genere e di averle poi penetrato la vagina con una mazza da baseball e con il manico di una scopa. Gli imputati non negavano che questi eventi si fossero svolti. Secondo la loro linea di difesa, la ragazza era stata consenziente.

Anche da noi a Winwood c'erano giovani disabili ed eroi del football; la distanza tra i due gruppi era immensa, quasi medievale. Non era così difficile immaginare come una ragazza sola e leggermente ritardata potesse considerarsi per certi versi onorata dalle molestie e gli schiamazzi dell'olimpo sportivo del suo piccolo mondo. Gli atleti avevano il potere di conferire identità e appartenenza. Se loro ti vedevano, allora voleva dire che esistevi.

Data la somiglianza tra Winwood e Glen Ridge – a separarci c'erano solo un paio di uscite sulla Parkway – non fui molto sorpreso quando la schiacciante maggioranza dei miei alunni, ragazze incluse, si schierò con gli imputati e col loro diritto a spassarsela un po'. Se una ragazza, foss'anche ritardata, era così stupida da andare in uno scantinato con uno squadrone di atleti focosi, allora chi poteva biasimare quei giovani se approfittavano di una simile manna dal cielo?

Io avevo la mia personale opinione sugli imputati – volevo vederli condannati e sbattuti in prigione, dove avrebbero potuto imparare a loro spese cosa significa sentirsi deboli, spaventati e soli – ma in aula la tenevo per me, optando per i ruoli più neutrali di moderatore e avvocato del diavolo.

«Loro erano forti e lei debole» feci notare. «E non è forse vero che i forti hanno la responsabilità di non ferire o umiliare i deboli?».

Lisa Flanagan azzardò la prima risposta. Era proprio il tipo di alunno che ambivo a coinvolgere, una ragazza intelligente e infelice che voleva solo essere accettata dall'aristocrazia di atleti e cheerleader di Winwood e non si rendeva conto – come poteva? – del sollievo che avrebbe provato una volta scoperto il nuovo mondo del college, col suo sistema di valori ben più caritatevole.

«Prof» disse in tono gentile, come per istruirmi sulla natura del mondo, «non è così che funziona. I forti si prendono quello che vogliono».

Inarcai le sopracciglia.

«La legge della giungla, Lisa? È di questo che stiamo parlando?». Indicai Dino Mikulski, il mostro di steroidi del nostro gruppo, centotrenta monolitici chili di muscoli e foruncoli che già facevano sbavare gli allenatori di football dei college più importanti. «Se la tua analisi è corretta, allora propongo che Dino venga dichiarato presidente degli Stati Uniti. Sono sicuro che potrebbe battere George Bush in un combattimento regolare e di conseguenza merita di essere il nostro leader».

Lisa capì dove volevo arrivare. Il volto le si tese in una smorfia di sgomento quando Dino e i suoi lacchè presero a darsi il cinque per celebrare quell'improvvisa ascesa alla guida del Mondo Libero. Fui lieto di vedere la mano di Paul Warren scattare verso l'alto.

«Quei tizi di Glen Ridge sono feccia» dichiarò il ragazzo, zittendo tutta la classe con la perentorietà del suo giudizio. «La poveretta non meritava quello che le hanno fatto».

Se dovessi appuntare uno spillo sulla mappa del passato e dire Ecco, è cominciato tutto da qui, credo che sceglierei proprio quel momento.

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Pagina 56

TAMMY WARREN

Fu terribile tornare a scuola dopo la sospensione e vedere questi manifesti di Paul dai colori assurdi appiccicati un po' ovunque con quei loro stupidi slogan tipo "Potere per Paul" e "Abbiamo bisogno di lui". Appena svoltavo un angolo, c'era mio fratello che mi osservava, mi guardava dall'alto di pareti e bacheche come una specie di biondo dio perplesso.

Mi bastò un'occhiata per capire che erano opera di Lisa. Le piaceva disegnare coi pastelli, e una volta mi aveva ritratta seduta accanto a una finestra mentre, inondata dalla luce del mattino, guardavo le foglie che cadevano da un albero dorato. Quando voleva, sapeva davvero come adulare una persona.

Tracy aveva persino più manifesti di Paul. Erano rossi, bianchi e blu e sembravano sospettosamente professionali, come í cartelli che si vedono appiccicati ai pali del telefono durante le elezioni vere e proprie. "Una X per Flick" suggeriva uno. "Tracy for President" proclamava un altro.

Io non avevo pianificato nessuna campagna. Immaginavo di poter arrivare tranquillamente alle elezioni e perdere con grazia, l'unica candidata che aveva avuto il fegato di dire la verità ed era stata punita per la sua sincerità. Mi sembrava un buon modo per uscire di scena.

I tre giorni a casa mi avevano fatto bene. Avevo scoperto questo grandioso corso di yoga sulla tv via cavo e avevo imparato a meditare insieme alla conduttrice, la donna con la voce più calma e dolce di tutto l'universo. Mi diceva di pensare al mio cuore come a uno di quei grossi cuscini rossi di san Valentino, e mi suggeriva di far uscire tutta la negatività che avevo lasciato accumulare al suo interno. E così feci. Lasciai uscire tutta l'invidia, la rabbia e il bisogno di far del male a chi ne aveva fatto a me. Dopodiché, non mi rimasero più motivi per voler essere la rappresentante di istituto.

Ma quel mattino, quando tornai a scuola, accadde una cosa buffa. Ragazzi che neanche conoscevo mi venivano a stringere la mano, dicevano che il mio discorso era stato una figata e avrebbero senz'altro votato per me. Una ragazza in sedia a rotelle mi fece un saluto col pollice in su. Uno del secondo anno, un piromane coi capelli tutti unti, mi disse che ero una con le palle. Alcuni dei professori più simpatici mi sorrisero timidamente, di nascosto. Il signor Herrera arrivò addirittura a farmi l'occhiolino. Due matricole sfigate – maniaci dei videogiochi con gli occhi a palla – mi invitarono a un party che, come dissero più volte, sarebbe stato assolutamente fuori di testa.

Era proprio come diceva la signora dello yoga: tira fuori il negativo, e il positivo arriverà subito a riempire il vuoto.


IL PROF

Erano le elezioni più interessanti che avevo visto nei miei nove anni a Winwood. C'era un ronzio nei corridoi, un'emozione che non si poteva ricondurre solo alla novità di una sfida tra fratelli. C'era questa sensazione in tutta la scuola che per una volta ci sarebbe stata una votazione con reali possibilità di scelta.

Paul basava la sua candidatura su un'immagine visiva – lo Studente Eroe. Idealizzato in colori pastello, presidiava i corridoi come una sorta di benevolo spirito ultraterreno. C'era qualcosa di consolante e al tempo stesso fastidioso in quei ritratti; vedevi la gente che ci restava davanti assurdamente a lungo, li osservava come i quadri di un museo.

Tracy aveva scelto la via opposta. Lei non si era candidata come una studentessa, ma come una politicante di professione. Per quanto semplici – lettere rosse su cartelloni blu, la i del cognome con una stella bianca al posto del puntino – i suoi manifesti erano stati chiaramente realizzati da un grafico e stampati in tipografia con una spesa tutt'altro che contenuta. Sembrava quasi che si fosse candidata all'assemblea nazionale.

I manifesti di Tammy non erano neppure dei veri manifesti, solo messaggi criptici scarabocchiati su fogli di taccuino, attaccati in posti improbabili – uno schedario, il sedile di una sedia, in un gabbiotto nei bagni.

"Vota Tammy" dicevano. "È inesperta e pure un po' pigra".

Oppure: "Elezioni? Quali elezioni".

Oppure: "E vai. Fai la scelta stupida".

Diventò una specie di gioco. Entravi in un'aula e vedevi le parole "Perché no?" scarabocchiate su una lavagna per il resto pulita. Srotolavi il planisfero e non c'era da sorprendersi se trovavi un cartoncino rosa attaccato al Corno d'Africa e recante la seguente statistica: "Due bevitori di caffè su tre preferiscono Tammy all'espresso". Se vedevi un foglio di carta appallottolato per terra, ti piegavi e lo aprivi, ché non si sa mai.

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Pagina 100

TRACY FLICK

Mia madre si alzò alle cinque del mattino e mi aiutò a glassare le duecento tortine che avevamo infornato la notte prima. Avevo in mente di distribuirle all'ingresso principale, insieme a un sorriso e a un gentile promemoria su chi votare. (C'erano più di novecento studenti a Winwood, ma duecento era il limite estremo della nostra cucina e della nostra pazienza. Speravo solo che chi non riceveva il dolcetto non mi serbasse rancore.)

Avevo la nausea per tutto quell'odore di cioccolato e per il poco sonno, ma mia madre sembrava allegra e ben riposata, come se non desiderasse fare altro in quel momento che glassare tortine per il bene della mia carriera. Lavorava canticchiando, fermandosi di tanto in tanto per un sorso di caffè.

A parte me, non aveva chissà quali impegni nella vita. Non si vedeva con nessuno da anni, e ormai sembrava che non le interessasse neanche più. Raramente si comprava vestiti nuovi, e non viaggiavamo mai se non per visitare college e musei. Il suo unico vero hobby era scrivere lettere alle donne di successo per chiedere se avevano consigli per quella sua figlia che aveva "il college nel destino". Avevamo ricevuto un bel po' di risposte gentili da gente come Pat Schroeder, Anna Quindlen e Connie Chung, lettere che mi dicevano di studiare sodo e sognare in grande ecc. Lettere che mia madre conservava in una cartellina, e a volte la beccavo a sfogliarle con lo sguardo perso nel vuoto.

«Mamma» le dissi. «Penso che oggi perderò».

Lei spalmò la glassa con un fluido movimento rotatorio, terminando con un elegante svolazzo. Infilò uno stuzzicadenti in cima alla tortina, poi la poggiò delicatamente nella scatola di cartone.

«No che non perderai, tesoro. Domani a quest'ora sarai la rappresentante d'istituto».

Era sempre così serenamente sicura del mio successo, e la cosa non mancava mai di tirarmi su.

«Lo pensi davvero?».

Lei passò un dito nella ciotola con la glassa, poi se lo ficcò in bocca.

«Lo so per certo. Tracy Flick è una vincente».

Quando finimmo di preparare i dolcetti – sei scatole piene – feci in fretta la doccia e mi vestii. Come portafortuna, misi il mio vestito rosso più audace, quello che fa girare la gente per strada.

Mi pare strano avere questa fama di bomba sexy, perché non mi sento quasi mai sensuale. Ho i capelli opachi e una faccia così insipida che a volte mi guardo allo specchio e mi viene da piangere. Ma ho un bel corpo, e con quel vestito addosso comincio a sentirmi come mi vedono gli altri, una ragazza coraggiosa che non ha niente di cui scusarsi.

Mia madre era accanto al frigo con addosso un paio di jeans e un cardigan, si stava ancora leccando il cioccolato dalle dita. Aveva chiesto al suo capo il permesso di andare al lavoro un'ora più tardi.

«Ehi ehi» disse. «Sei deliziosa».

Feci una giravolta, felice di farmi ammirare.

«Andiamo» fece mia madre. «Le tortine sono in macchina».

Per precauzione, arrivammo a scuola alle sette e un quarto, una buona mezz'ora prima che anche i più mattinieri cominciassero a fare la loro comparsa. (Non avevo nessuna intenzione di lasciare a uno dei Warren la possibilità di conquistarsi un posto migliore del mio.) Avevamo già sistemato il tavolo pieghevole e aperto due delle sei scatole quando la macchina del Prof entrò nel parcheggio degli insegnanti, di fronte a un prefabbricato con altre aule.

Tenni lo sguardo basso, facendo finta di raddrizzare una fila di tortine, e non lo alzai finché mia madre non mi diede un colpetto col gomito. Il Prof era a circa sei metri da noi, una sacca da palestra rossa in mano, e ci studiava con un'espressione di orrore e ribrezzo che dubito dimenticherò mai. Fui molto stupita dal suo aspetto malconcio, gli occhi sgranati, la camicia spiegazzata e fuori dai pantaloni, le scarpe slacciate. Sembrava che avesse passato la notte alla stazione degli autobus.


IL PROF

Fin quando non le vidi lì, accanto a quel tavolo pieno di dolcetti, giuro su Dio che avevo dimenticato del tutto le elezioni. L'abito rosso di Tracy me le riportò alla mente come un'inondazione – le sue bugie e le minacce, la sospensione di Tammy, l'incubo logistico che stavo per affrontare mentre avrei voluto solo rannicchiarmi sotto la scrivania e dormire tutto il giorno. Ero ben consapevole di non aver fatto ancora la doccia e di avere i capelli spettinati, e non ero affatto nello stato d'animo giusto per scambiare due chiacchiere con Barbara Flick. Tracy aveva sentito l'odore del sangue. Glielo vedevo in quel suo sorriso.

«Prof» disse, «mi sa che una bella tortina le farebbe bene».

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