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| << | < | > | >> |Pagina 12Otto settimane prima, mercoledì 15 agosto Quartier generale della polizia a Kungsholmen, Stoccolma «Olof Palme» disse Lars Martin Johansson, capo della polizia nazionale. «Questo nome vi dice qualcosa?» Per qualche motivo, mentre lo diceva sembrava quasi felice. Era appena tornato dalle ferie, con un'abbronzatura che gli si addiceva, bretelle rosse e una camicia di lino senza cravatta, come per sottolineare il passaggio dal dolce far niente al normale giorno lavorativo. Si chinò in avanti sulla sedia all'estremità del tavolo della sala riunioni e lasciò il suo sguardo vagare sulle altre quattro persone riunite intorno allo stesso tavolo. Una contentezza che sembrava essere l'unico a provare. Sguardi incerti erano stati scambiati fra tre dei quattro presenti, la dirigente di polizia Anna Holt, il commissario Jan Lewin e il commissario Lisa Mattei, mentre il quarto membro della compagnia, il commissario Yngve Flykt, ovvero il capo del "gruppo Palme", sembrava piuttosto imbarazzato dalla domanda e forse cercava di compensare il suo disagio con un'aria cortesemente assente. «Olof Palme» ripetè Johansson, ora con un tono di voce più esigente. «Non sentite suonare un campanello da qualche parte?» Alla fine fu Lisa Mattei a rispondere. Era la più giovane dei presenti, ma da tempo abituata al ruolo di prima della classe. Prima aveva guardato con la coda dell'occhio il capo dell'indagine Palme, che si era limitato ad annuire con aria stanca, poi aveva abbassato gli occhi sul suo blocnotes, completamente privo sia di annotazioni sia dei soliti ghirigori con cui aveva l'abitudine di riempirlo, indipendentemente dall'argomento trattato. Infine, aveva riassunto la carriera politica di Olof Palme in due frasi e la sua fine in altre quattro. «Olof Palme» disse Lisa. «Socialdemocratico, l'uomo politico svedese più famoso del dopoguerra. Primo ministro del paese per due mandati, dal 1969 al 1976 e dal 1982 al 1986. Assassinato all'incrocio di Sveavägen con Tunnelgatan nel centro di Stoccolma ventuno anni, cinque mesi e tredici giorni fa. Era la sera di venerdì 28 febbraio 1986, ore ventitré e venti. Fu ucciso con un colpo di revolver sparato alle spalle e sembra sia morto quasi subito. Avevo undici anni quando è successo e temo di non poter fornire ulteriori contributi» concluse. «Non dire così» disse Johansson con la flemma tipica di un uomo del nord della Svezia. «La nostra vittima era un Primo ministro e un uomo buono, quanto spesso vengono uccise in questo paese persone del suo livello? In verità, sono solo il capo della polizia nazionale, ma sono anche una persona meticolosa ed estremamente allergica ai casi non risolti... e se vi chiedete perché siamo seduti qui oggi, devo dirvi che li prendo a cuore in maniera del tutto personale.» Nessuno si chiese il perché. Allo stesso tempo, nessuno sembrava particolarmente entusiasta. Fu così che iniziò. Come succede quasi sempre in un contesto del genere. Con alcuni poliziotti seduti intorno a un tavolo che parlano di questo e di quello. Ma senza lampeggiatori blu, senza sirene e, in definitiva, senza armi d'ordinanza in pugno. Anche se la prima volta, più di vent'anni prima, tutto era iniziato proprio in quel modo, cioè come inizia quasi sempre. Con lampeggiatori blu, sirene e armi d'ordinanza in pugno. Ma non era servito a nulla. Era finita male. Johansson aveva poi sviluppato le proprie idee sulle procedure da adottare. Come agire in senso puramente pratico e per quali ragioni. Come tante volte in passato, si era anche avvalso della sua esperienza personale, e questo senza la minima traccia di modestia, né falsa né genuina. «Secondo la mia esperienza personale, spesso quando un caso si è arenato è utile discutere con persone che possono vedere i fatti con "occhi nuovi", per così dire. È facile non accorgersi di cose che abbiamo sotto il naso da tempo» affermò. «Capisco cosa intendi» rispose Anna Holt, con un tono di voce più pungente di quanto avrebbe voluto. «Ma se vuoi scusarmi...» «Certamente» la interruppe Johansson. «Ma solo se prima mi lasci finire.» «Ti ascolto» disse Anna. Perché non imparo mai, pensò. «Se sei avanti con gli anni, come il sottoscritto, sfortunatamente il rischio di non ricordarti cosa volevi dire aumenta, quando qualcuno ti interrompe» spiegò Johansson, sorridendo amabilmente ad Anna. «Cosa stavo dicendo...» proseguì. «Stavi parlando di come procedere» intervenne Lisa. «Con la nostra indagine, voglio dire.» «Grazie Lisa. Grazie per l'aiuto che dai a questo vecchio.» Senti senti, pensò Anna sorpresa. Come si sta comportando, persino con Lisa, proprio lei, fra tutti? | << | < | > | >> |Pagina 171Dopo aver sgranchito le gambe, Anna Holt dichiarò di non essere più convinta che Christer Pettersson fosse colpevole, e di non credere neppure che la via di fuga dell'assassino indicata dai responsabili dell'indagine fosse quella giusta. Invece, ora credeva alla testimonianza di Madeleine Nilsson e anche al profilo dell'assassino tracciato da Johansson. «Finalmente hai visto la luce e la verità, Anna» commentò Johansson. «Chiamala come vuoi. Ho semplicemente cambiato opinione» «Ce ne hai messo di tempo, Anna» disse Johansson. Il suo dubbio sembrava tuttavia avere contagiato Lisa Mattei. Con tutto il rispetto per Anna e i calcoli di Lewin, le dichiarazioni dei testimoni la lasciavano perplessa in senso generale. L'unico risultato raggiunto era stato di mettere in disione le tesi precedenti e lanciare una nuova ipotesi. Neppure un'antitesi, soltanto un'ipotesi. «Ma bisognerebbe essere più sicuri» disse. «Una situazione drammatica e caotica. Un secondo qua e uno là, non mi dicono niente» concluse scuotendo la sua testa bionda. «Credi che valga la pena verificarla? La nostra ipotesi, voglio dire» chiese Johansson. «Naturalmente» disse Lisa. «È l'unica che abbiamo. Non dobbiamo neppure dare delle priorità. Ma non sarà un compito facile trovare il nostro assassino dell'indagine. Ammesso che ci sia.» «Però non direi che non c'è assolutamente speranza» obiettò Johansson. «Un assassino più qualificato, fra i trentacinque e i quarantacinque anni, un militare, un poliziotto, o qualcuno che se ne intende di cose di questo tipo, uno incensurato, che ha accesso ad armi, buone risorse economiche, contatti con la sede del governo, la Sàpo o la famiglia Palme. Personalmente, non lo trovo un compito impossibile. Soprattutto se consideriamo che, una volta portato a termine il suo incarico, avrebbe preso la metropolitana per Ostermalm o Gàrdet» aggiunse sorridendo ad Anna. «Il problema è che non è possibile cercarlo secondo questi criteri» disse Lisa. «Non è come una ricerca su Google. Il materiale dell'indagine Palme è classificato in modo completamente diverso. O secondo principi del tutto diversi, se devo essere più precisa.» «Quali principi?» chiese Johansson fissandola con aria sospettosa. «È assolutamente poco chiaro. Credo che neppure loro lo sappiano. Affermano di avere classificato il materiale in base agli sviluppi dell'indagine, ma non è possibile effettuare una ricerca seguendo i criteri che hai indicato tu.» «Gli sviluppi dell'indagine» ripetè Johansson che sembrava non avere capito. «Sì, ma questa definizione include chiaramente un bel po' di cose diverse» disse Lisa. «La più comune è la cosiddetta soffiata che, generalmente, consiste in un informatore che fa il nome di una data persona. Ce ne sono migliaia. Poi, molto diffuse sono le iniziative degli investigatori, un interrogatorio, un'idea, l'opinione di un esperto, qualsiasi cosa. Persino quelle che il primo responsabile dell'indagine ha definito tracce durante la conferenza stampa. Come ho detto, può trattarsi di qualsiasi cosa. Si direbbe che la maggior parte del materiale sia stata classificata nel segno della stanchezza. È tutto talmente caotico che quando salta fuori qualcosa di nuovo è impossibile capire in quale classificatore ordinarlo. Quindi, si crea un nuovo classificatore. Letteralmente. Vuoi un esempio?» «Volentieri» disse Johansson. Una pugnalata in più o in meno non può fare alcuna differenza. «L'altro giorno ho scoperto per puro caso che la soffiata di un informatore, che ha fatto il nome di una persona che avrebbe assassinato Palme, è registrata in tre diversi classificatori. Quindi esattamente la stessa informazione, stesso informatore, stesso colpevole, in tre classificatori diversi.» «Ma per quale motivo, per tutti i santi del paradiso?» disse Johansson. «Posso soltanto immaginare che sia pervenuta a colleghi diversi in momenti diversi, visto che l'informatore era uno che si dava notoriamente da fare per tenersi buoni diversi colleghi.» «Tu cosa ne dici, Lewin?» chiese Johansson. Mi sembra completamente insensato. «Tenderei a essere d'accordo con Lisa» rispose Lewin schiarendosi la gola discretamente. «Se non si sa sotto quale voce cercare, è difficile. Cioè non basta sapere cosa si sta cercando. Bisogna anche sapere dove cercare. Con poche eccezioni.» «Fammi un esempio» disse Johansson. È contro la natura stessa della ricerca. «La cosiddetta pista della polizia è l'esempio migliore. Quando si partì con l'indagine, fu dato l'incarico alla Sapo di indagare su tutte le informazioni e le soffiate che riguardavano poliziotti. Quasi tutti i colleghi indicati come persone coinvolte nell'omicidio lavoravano a Stoccolma, e considerando che quasi tutti quelli che seguivano l'indagine erano stati reclutati a Stoccolma fu considerato inopportuno che indagassero su se stessi, per così dire. Per questo l'incarico fu affidato alla Sapo e, almeno in quel caso, tutto il materiale fu raccolto in un unico luogo, quasi tutto. Non ho idea di cosa sia stato fatto con il materiale raccolto in seguito.» «Okay» disse Johansson. «Adesso facciamo così. Fate del vostro meglio.» Che altra scelta abbiamo? «Lo sai benissimo, Lars» disse Anna con un sorriso gentile. «So cosa?» | << | < | > | >> |Pagina 273Il giorno dopo, Bàckstròm aveva deciso che era il momento di agire e perciò era arrivato al lavoro con buon anticipo prima dell'ora di pranzo. Per prima cosa accese il computer per controllare la posta in arrivo. Nessun messaggio da quello scansafatiche cronico della scientifica. Quell'idiota non aveva capito che poteva trattarsi dell'arma più scottante nella storia della polizia svedese, che adesso si stava raffreddando nel suo laboratorio. Com'è possibile che uno così sia diventato poliziotto, pensò inviando un altro messaggio. Poi telefonò alla segretaria di Johansson chiedendole di passargli il suo capo. «Commissario Evert Bàckstròm. Voglio parlare con il grande capo.» «Non è in ufficio» rispose la segretaria con un tono di voce neutro. «Di cosa si tratta?» «È una cosa che non si può dire al telefono» disse Bàckstròm seccamente. In ogni modo non a te, maledetta strega. «In questo caso, le suggerisco di mandargli un'e-mail per comunicargli di cosa si tratta.» «Anche questo è impossibile. Devo incontrarlo personalmente.» Anche la sua bocca deve essere verticale. «Riferirò il messaggio e verificherò la sua disponibilità.» «Brava» disse Bàckstròm e attaccò prima che potesse farlo lei. E adesso cosa faccio. Erano soltanto le undici e mezza. Troppo presto per andare a pranzo. Persino troppo presto per svignarsela, dato che il cosiddetto capo andava avanti e indietro nel corridoio pronto a piombargli addosso come un falco, Wiijnbladh, pensò d'improvviso. È arrivato il momento di mettere alle strette quel piccolo frocio e vedere cosa ha da offrire. Non molto, come potè constatare poco dopo. Wiijnbladh era carponi sotto la sua scrivania alla ricerca di qualcosa. «Come butta, Wiijnbladh? Stai controllando se le pulizie sono state fatte come si deve?» Wiijnbladh si girò senza alzarsi, scosse il capo e lo fissò imbarazzato. «La mia pastiglia, ho perso la mia pastiglia.» «La tua pastiglia?» disse Bàckstròm. Cosa diavolo sta dicendo. «La mia medicina» spiegò Wiijnbladh. «Proprio quando stavo per metterla in bocca mi è caduta, e adesso non la trovo più.» «Hai mai pensato di passare alle supposte?» chiese Bàckstròm. Cerca di tenerti in vita finché non ho finito di parlarti piccolo frocio. Quel mezzo frocio è completamente andato, si disse Bàckstròm uscendo dall'ufficio di Wiijnbladh. In mancanza di meglio, tornò nel suo ufficio. Per un attimo aveva pensato di telefonare a un suo parente che lavorava per il sindacato della polizia e sapeva praticamente tutto sui suoi cosiddetti colleghi. Ma decise di non farlo. A dispetto del legame di sangue che li univa, suo cugino era troppo curiose inaffidabile per passargli un'informazione così delicata. Ormai era mezzogiorno, e visto che c'era abbastanza tempo per una rapida camminata fino al ristorante a un paio di isolati di distanza dove pranzava abitualmente decise di mettere a tacere il brontolio del suo stomaco. In ogni caso quel falco del suo capo era sparito dal corridoio. Spinse il tasto zero sul suo telefono - zero come "fuori ufficio per pranzo" - e uscì a passo svelto. Era stata una pausa breve. Già due ore dopo, Bàckstròm era di ritorno al suo posto di lavoro. E aveva trovato anche il tempo di comprare una confezione di rinfrescanti caramelle alla menta. Ancora nessuna e-mail da quell'idiota della scientifica e neppure da quel bastardo di un lappone. Probabilmente sta marchiando la sua mandria di maledette renne, pensò. Poi, telefonò il buon GeGurra per chiedergli come andavano le cose. Al momento Bàckstròm doveva tenerlo di buon umore, e quindi calcò la mano. Stava andando a gonfie vele, lo rassicurò. Era impegnato al massimo nella sua indagine interna, sia sulla persona che sull'oggetto in questione. «Posso solo dirti che ci sono diversi sviluppi interessanti» disse. «Puoi parlarne al telefono?» chiese GeGurra. Purtroppo no. Troppo delicato. Però aveva una domanda da fargli. «Mi hai detto che ha comprato un quadro di Zorn. Come ha potuto permetterselo? Non è certo qualcosa che i comuni poliziotti hanno l'abitudine di appendere alle pareti di casa» disse. Comunque, se riuscirai a trovarmi una riproduzione di quel quadro la appenderò volentieri sulla porta del cesso di casa mia. «Genitori ricchi» disse Gustaf Gson Henning, GeGurra per gli amici. «Da diverse generazioni, sia dal lato paterno che materno. Il grande mistero è perché abbia scelto di fare il poliziotto. Non un semplice poliziotto fortunatamente, ma pur sempre un poliziotto.» «Cosa vuoi dire?» Cosa diavolo ne sai tu dei veri poliziotti. «Niente di cui si possa parlare al telefono. Ci sono alcuni clienti che mi aspettano, ci sentiremo dopo il fine settimana.» Maledetto tirchiaccio, pensò Bàckstròm. Avrebbe potuto invitarmi a cena questa sera. | << | < | > | >> |Pagina 436Anna Holt aveva sfruttato i suoi contatti informali alla Sapo, ed era riuscita a individuare una donna che si diceva avesse avuto una storia con Claes Waltin ai tempi dell'omicidio di Palme. Jeanette Eriksson, nata nel 1958, un tempo dipendente dei Servizi. Una collega di Waltin, più giovane di tredici anni, che aveva lasciato il corpo di polizia l'anno dopo la morte del Primo ministro per andare a lavorare come investigatrice in una compagnia di assicurazione. Ed era ancora lì, attualmente in veste di caporeparto, e non era sembrata molto contenta quando Anna le aveva telefonato. Il giorno dopo l'incontro con Berg, si trovarono nell'ufficio di Jeanette Eriksson. «Preferirei non parlare di Claes Waltin» disse Jeanette Eriksson. «Neppure una piccola chiacchierata fra donne?» propose Anna. «Niente registratore, niente blocnotes, niente verbale. Soltanto noi due, confidenzialmente.» «Va bene» accettò Jeanette con un sorriso forzato. Claes Waltin era stato il suo capo alla Sapo. Nell'autunno del 1985 avevano iniziato una relazione. A marzo del 1986 Jeanette l'aveva troncata. «Anche se lui si era stancato molto prima, altrimenti non mi avrebbe lasciata andare. Aveva già un'altra donna.» «Capisco. Ho sentito che era un vero sadico.» «Sì, e per me era molto strano. Non è nel mio carattere. Personalmente non sono mai stata masochista. Eppure ci sono finita dentro. All'inizio credevo che il suo fosse una specie di gioco delle parti, e quando ho capito che era veramente un sadico era troppo tardi per tirarmi indietro. Era orribile. Claes Waltin era un uomo orribile. Quando beveva troppo poteva diventare estremamente pericoloso. Più di una volta ho creduto che fosse sul punto di uccidermi. Ma non avevo mai un livido da mostrare perché qualcuno potesse credermi.» «Sei stata insieme a lui sei mesi?» «Insieme? Sono stata sua prigioniera cinque mesi e undici giorni» disse Jeanette Eriksson. «Prima di riuscire a liberarmi. Lo odiavo. Quando finalmente mi sbarazzai di lui, rimanevo in macchina davanti a casa sua per spiarlo e vendicarmi.» «Ma non lo hai mai fatto» disse Anna. «Una cosa però l'ho fatta. Quando ho capito che si era procurato un'altra donna. L'ho capito quando l'ho vista insieme a lui la seconda volta in una settimana. Allora mi sono informata, sono riuscita a sapere chi era e le ho telefonato.» «Le hai parlato?» chiese Anna. «Sì, per avvertirla. Ero venuta a sapere che lavorava alle poste. Una sera l'ho aspettata e quando è uscita mi sono avvicinata. Le ho detto chi ero e le ho chiesto se potevo parlarle. Nessun problema. Siamo andate in un locale lì vicino e le ho raccontato tutto.» «E lei come l'ha presa?» chiese Anna. «Non capiva. Quando le ho raccontato cosa mi aveva fatto Claes, sembrava quasi scioccata. Mi ha chiesto se ero ancora innamorata di lui. Secondo lei, era quello il vero motivo dell'incontro. Non abbiamo parlato molto, dopo. Non avevamo litigato, ognuna è semplicemente andata per la propria strada. Non ci siamo più sentite.» «Naturalmente sai come si chiama» chiese Anna. «Sì.» «Come si chiama?» «Adesso le cose si fanno un po' più complicate» disse Jeanette. «Presumo che non sia per lei che sei venuta a parlarmi.» «No. Prima di adesso non ero a conoscenza dell'esistenza di quella donna.» «Posso farti una domanda?» «Certamente.» «Hai detto che lavori al quartier generale della polizia. Il tuo capo non è quel Lars Martin Johansson? Quell'uomo grande e grosso del nord?» «Sì» confermò Anna. «È questo che rende le cose complicate» disse Jeanette. «il punto è che il tuo capo è sposato con la donna di cui ti ho parlato. Allora si chiamava Pia Hedin. Oggi si chiama Pia Hedin Johansson.» «Ne sei sicura?» «Assolutamente sicura. Li ho visti insieme a una festa della Svenska Enskilda Banken alcuni anni dopo, quando già lavoravo qui. Allora erano sposi novelli. Deve essere stato agli inizi degli anni novanta.» «Ne sei veramente sicura?» chiese di nuovo Anna. «Assolutamente. Pia Hedin è una donna molto bella. Non la si dimentica facilmente ed è difficile scambiarla per un'altra.»
«Lo so» disse Anna. «L'ho incontrata.» E adesso cosa faccio, pensò.
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