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| << | < | > | >> |Pagina 9Vespasiano, imperatore a Roma tra il 69 e il 79 d. C., impose la tassa "centesima venalíum", sull'urina raccolta nelle latrine pubbliche gestite da privati. Dall'urina veniva ricavata l'ammoniaca necessaria alla concia delle pelli.Secondo lo storico Svetonio il figlio di Vespasiano, Tito, aveva rimproverato al padre di aver tassato perfino l'urina e aveva tirato alcune monete in uno dei bagni, in segno di sfida all'imperatore; ma Vespasiano le avrebbe raccolte e, avvicinatele al naso, avrebbe pronunciato le fatidiche parole: «Pecunia non olet». Da allora questa frase avrebbe significato che il denaro è denaro e che, soprattutto, la sua provenienza non gli dà alcuna connotazione positiva o negativa. | << | < | > | >> |Pagina 11«Qualcosa non va?». L'avvocato Bressan, nervoso per la prolungata attesa e per il viaggio estenuante, voleva vedere e toccare la ricevuta del deposito in contanti appena effettuato. Il lavoro sporco, cui era stato spinto dalla necessità, stava per essere finalmente portato a termine. La giovane assistente, che indossava un elegante tailleur blu, una camicia a righe rosa e un foulard di seta attorno al collo, era tornata nel salottino della banca ginevrina. Dopo essersi seduta dietro a un'antica scrivania, sorrise in direzione dell'ospite. Pareva volersi scusare per averlo lasciato solo, in attesa, per oltre mezz'ora. «Nessun problema», disse sorridendo, mentre estraeva dalla cartellina un foglio che porse al nuovo cliente. «Ecco la ricevuta del versamento». «Il conto è aperto?», chiese Bressan, mentre stringeva nelle mani la carta sottile. Non riusciva a rilassarsi. «Nella nostra banca, come in tutte le banche private ginevrine, i clienti vengono presentati ai soci prima di essere accettati: si tratta di una misura cautelativa che adottiamo con i nuovi potenziali clienti. Una volta divenuto cliente, anche lei beneficerà di questa forma di protezione». «Quindi il conto non è ancora stato aperto?». La colonna vertebrale di Jean-Luc Bressan, messa a dura prova durante le lunghe ore trascorse in auto, tornava ad accusare i postumi di una piccola ernia trascurata. «Solo una piccola formalità». L'assistente di gestione manteneva le gambe accavallate, e le mani, molto curate, erano posate su una cartellina di pelle nera appoggiata sulla scrivania in mogano fine Ottocento. «Sono molto stanco per il viaggio. Fa già molto caldo, anche se siamo solo in giugno». Jean-Luc Bressan era ormai da giorni agitato e allo stremo delle forze. «Mi rendo conto, monsieur. Le faccio portare un po' di acqua fresca», disse la donna, sempre sorridendo con garbo. Bressan, avvocato francese in trasferta nella Ginevra di Calvino, estrasse gli occhiali dal taschino della giacca, che conteneva anche un piccolo fazzoletto bianco piegato in modo da formare una candida striscia orizzontale sul completo grigio gessato. Appoggiò le due lenti, sorrette dalla sola montatura in oro sottile, senza stanghette, sul naso. Osservava la ricevuta: era riuscito a depositare tutto il denaro in contanti. La cortese segretaria ginevrina restava dietro al tavolo da lavoro con la schiena diritta e lo guardava, mentre lui cercava di nascondere l'ansia sorridendo sotto i folti baffi. Senza quasi rendersene conto, Bressan aveva afferrato la ricevuta in modo un po' brusco, tanto da stropicciare la carta intonsa appena uscita da un raccoglitore. Da quando aveva iniziato il viaggio per lui era diventato sempre più difficile controllare il proprio stato emotivo e anche se l'incubo stava per finire l'ansia non accennava a svanire. Davanti ai suoi occhi, stretta dalle proprie mani tremanti per l'ansia, aveva la conferma che i dodici milioni di dollari USA portati in contanti fin lì, in cerca di un rifugio sicuro tra quelle mura antiche, erano stati depositati su un conto intestato a una società con sede nelle Isole Vergini Britanniche. La sigla BVI accompagnava il nome di fantasia Red Arrow, freccia rossa. Era stato Leboeuf ad aver avuto quell'idea e a occuparsi di tutto. Le Isole Vergini Britanniche erano un luogo ideale per chiunque volesse mettere al sicuro capitali: qui le società avevano uno statuto fiscale estremamente favorevole che, oltre a garantire l'anonimato del proprietario, prevedeva azioni al portatore, ovvero chi le possedeva fisicamente era anche il legittimo proprietario della società.
Bressan infilò il pezzo di carta bianca un po' sgualcito in
una busta che chiuse ermeticamente e ripose all'interno di
una borsa da viaggio.
La composta segretaria aveva visto gli occhi del nuovo cliente chiudersi per un attimo, mentre il suo corpo pesante perdeva rigidità e sprofondava nella piccola poltrona che a fatica ne conteneva la pancia prominente e due spalle un tempo possenti da nuotatore professionista. «Mi scusi, signorina. Non le ho neppure chiesto il suo nome», disse l'avvocato guardando con attenzione, per la prima volta da quando era arrivato in banca, la giovane signora ginevrina. «Il mio nome è Monique Werdell». «Signorina Werdell, il denaro è stato verificato?». «Certo. Tutto a posto. Dovrà solo assicurare al nostro socio anziano che i fondi siano di provenienza lecita. Una formalità». L'avvocato Bressan aveva lavorato per decenni con le banche svizzere. Era la prima volta che si trovava a dover interagire con una procedura così rigida, meticolosa e scrupolosa. Era comunque soddisfatto per aver seguito il consiglio del suo amico e corrispondente ginevrino, André Leboeuf. La signorina Werdell aprì la porta a un commesso in divisa blu, che portava un vassoio con una brocca d'acqua e un bicchiere in cristallo. La divisa dell'uomo era perfetta, senza la minima piega, ed era stata cucita su misura, così come la camicia e la cravatta. La segretaria versò con cura l'acqua nel bicchiere e lo porse a Bressan, che bevve con piacere, seguendo con lo sguardo l'inserviente mentre usciva dalla stanza. L'avvocato sentì che l'acqua fresca risvegliava il suo corpo stanco e accaldato. Ora non gli restava che aspettare di incontrare il banchiere. La signorina Werdell sorrise e chiese, quasi sussurrando: «Desidera altro?». L'avvocato ricambiò il sorriso e rispose: «Grazie, ho solo bisogno di rilassarmi».
La donna scivolò fuori dalla stanza con passo felpato,
impercettibile, dischiudendo la porta quel minimo necessario a uscire.
L'avvocato si soffermò a guardare la moquette
azzurra, per cercare le tracce del passaggio di una creatura
così discreta e impalpabile. Provò a espellere tutta l'ansia con
un lungo sospiro, ma faceva fatica a liberarsene. Abbandonò
la piccola poltrona che lo teneva intrappolato da quasi un'ora. Rimase in piedi
immobile accanto alla finestra, con lo
sguardo assente rivolto a un vicolo della città vecchia. Le
immagini esterne si riflettevano nelle piccole lenti degli
occhiali che Bressan aveva dimenticato di togliere dal naso.
L'avvocato faceva appello alle poche energie residue, per
non crollare del tutto: aveva superato un infarto quattro
anni prima, temeva per il suo cuore. Le auto nei primi anni
Ottanta non avevano ancora l'aria condizionata, se non nei
modelli lussuosi. Il suo corpo e la sua mente, messi a dura
prova da mesi di ansia e di decisioni solitarie, e da un viaggio estenuante di
quarantotto ore, rischiavano di crollare
sotto il carico eccessivo della stanchezza e della tensione.
L'estate del 1981 era iniziata da due giorni. I raggi di sole già intensi facevano brillare i muri e i tetti delle vecchie case. Bressan iniziava a riprendersi. Provò a emettere un respiro profondo. La tensione si allentava con minor fatica. Il corpo si rilassava. Ritrovava, a poco a poco, lo stile e l'atteggiamento distaccato che avevano sempre contraddistinto la sua immagine di avvocato d'affari. Con il suo carattere mite ed equilibrato aveva conquistato la fiducia di molte famiglie facoltose che lo avevano scelto come amministratore dei loro patrimoni. Il timore di essere scoperto con tanto contante in macchina o di essere derubato era stato grande. Qualcuno sapeva del suo viaggio. Eppure non si era confidato con nessuno. Aveva paura: i soldi erano tanti. Aveva perciò concordato con i suoi clienti un percorso, per poi seguirne un altro. Questa era la sua prima esperienza in operazioni del genere, e non aveva pensato che la sua auto potesse essere rintracciata. Se ne era reso conto solo durante il viaggio. Da Parigi aveva raggiunto Basilea, per poi proseguire verso Friburgo, da dove infine si era diretto a Ginevra. Durante il tragitto aveva raccolto i cinque milioni di dollari USA in contanti. Una parte di questo denaro era il frutto del cambio di una cifra in franchi francesi trasportata fin da Parigi nascosta nella sua Citroën DS Pallas del 1973; il resto era stato prelevato da banche svizzere già in territorio elvetico. Aveva imbottito i sedili posteriori e gli sportelli smontando e rimontando le coperture, poi anche il tetto tra la carrozzeria e l'imbottitura bianca all'interno dell'abitacolo. Al confine tra Francia e Svizzera aveva provato autentico terrore. Nonostante avesse scelto un valico secondario nei pressi di Mulhouse, la coda di auto in attesa era molto lunga. Continuò comunque a sentirsi sicuro di potersi confondere nella massa di vacanzieri estivi, finché non si trovò, dopo quasi un'ora di attesa, a dieci auto dai doganieri francesi. Ogni vettura veniva fermata. Controllavano con cura i documenti, il bagagliaio e l'abitacolo. Sentì il suo stomaco contrarsi e le pulsazioni iniziarono ad aumentare. Non sudava solo per il caldo. Ragionava velocemente. Pensava a scuse plausibili. Non ne trovava. Poi la coda ebbe un improvviso balzo in avanti. In pochi minuti Bressan si trovò faccia a faccia con un doganiere francese robusto e sudato quasi quanto lui. Il gendarme sorridendo lo pregò di esibire i documenti, spegnere il motore e attendere. Dopo circa quindici minuti tornò accompagnato da un collega. Entrambi lo osservarono per alcuni istanti, poi gli chiesero di aprire il baule. L'avvocato scese dalla macchina e mostrò il contenuto del bagagliaio. I doganieri sorrisero, gli restituirono i documenti e lui proseguì. Nel tepore di quel salotto ovattato, ripensava ancora alla scena. Lo aspettavano. Lo avevano lasciato passare. Non poteva essere stato altrimenti. Sorrise tra sé e sé: ancora una volta denaro e potere percorrevano la stessa strada, sostenendosi a vicenda. Jean-Luc Bressan non ci aveva ancora fatto l'abitudine, nonostante l'età. All'improvviso fu investito nuovamente da un intenso impeto di ansia. Si sedette per cercare di riprendersi. Prima di allora non si era mai cimentato in operazioni simili: aveva da tanti anni rapporti d'affari a Ginevra per conto di suoi clienti, ma non aveva mai dovuto trasportare soldi di nascosto, come un contrabbandiere. Appena passato il confine, in territorio elvetico, era stato costretto a trascorrere alcune ore in un albergo per recuperare le energie prima di proseguire il viaggio. Durante il tragitto tra Basilea, Friburgo e Ginevra aveva custodito i soldi prelevati dalle banche in territorio svizzero in una valigia riposta nel bagagliaio insieme ad altre borse. Aveva rispettato i limiti e tutte le regole del codice della strada. Non temeva la polizia: in Svizzera nel 1981 non gli avrebbero fatto troppe storie. Un avvocato parigino con il baule dell'auto pieno di soldi in contanti non avrebbe destato scalpore. Il socialista Mitterrand era stato eletto da poco Presidente. La fuga di capitali dalla Francia era appena iniziata. Sarebbe bastato fornire generalità e giustificazioni adeguate per non essere scambiato per un delinquente comune o in alternativa poteva sempre chiamare il suo amico e socio d'affari André Leboeuf, avvocato ginevrino che conosceva da almeno quarant'anni. Bressan più che altro aveva paura di sentirsi male o di subire un furto. Qualcuno sapeva del trasporto eccezionale di denaro. Una rapina in Svizzera, in una strada di montagna, sarebbe stata un gioco da ragazzi. E sarebbe stato altrettanto semplice depositare i soldi in qualche banca e poi far ricadere la colpa su di lui, stimato avvocato a fine carriera, accusandolo di aver tentato il colpo della vita. Sarebbe stato il modo migliore per far sparire, per sempre, il patrimonio. L'uomo sorrise. Lo trovava un nome troppo nobile per una massa di banconote ammucchiate in borse o nascoste nei sedili di un'auto. Aveva accettato di occuparsi del "problema" solo perché voleva guadagnare una cifra che gli consentisse di chiudere la carriera e far fronte a una serie di impegni economici. I soldi guadagnati gli avrebbero permesso, finalmente, di ritirarsi e godersi ancora il tempo che il destino gli avrebbe lasciato da vivere. Nella sua vita aveva guadagnato tanto ma risparmiato pochissimo: due famiglie e tre figli erano stati una costante fonte di costi e debiti. Non aveva detto nulla né ai suoi collaboratori più stretti né alla sua famiglia. Lo stesso amico ginevrino avvocato André Leboeuf non sapeva niente di preciso, se non che Jean-Luc sarebbe arrivato sul lago Lemano tra la metà di giugno e la metà di luglio. Si erano visti a Ginevra nel mese di aprile. Come altre volte, per cifre molto inferiori, l'avvocato ginevrino si sarebbe occupato di creare una società ombra alla quale intestare un conto in una delle banche della sua città. Le leggi bancarie elvetiche all'epoca erano molto elastiche; solo molto più tardi, nel 1992, sarebbe stata abolita la norma secondo la quale per aprire un conto a nome di una società bastava che un avvocato dichiarasse di conoscere l'identità del vero proprietario. La Svizzera era un paradiso di anonimato nel cuore d'Europa. La guerra fredda aveva riaperto i conflitti della Seconda guerra mondiale. Tutte le potenze economiche e politiche, i cui interessi spesso s'intrecciano a quelli della grande criminalità organizzata, avevano bisogno di un territorio neutrale, una sorta di valvola di sfogo e terreno d'incontro delle varie tensioni finanziarie e valutarie.
L'avvocato d'affari Jean-Luc Bressan e il suo corrispondente ginevrino André
Leboeuf avevano maturato da alcuni anni una discreta esperienza nel creare conti
intestati a società off-shore, con sede in paradisi fiscali, per proteggere
l'anonimato dei veri proprietari dei fondi. Questa volta
però Bressan aveva un compito più complesso, perché il
patrimonio era notevole, da versare tutto in contanti e in
una sola volta. Doveva perciò trovare una banca che si occupasse in modo attento
della gestione, che fosse disposta
ad accettare e custodire il denaro nel più assoluto anonimato per un lungo
periodo, e che incaricasse un'unica persona di seguire il patrimonio il più a
lungo possibile e per tutto il tempo in cui questo fosse rimasto in deposito. Le
istruzioni a tale proposito erano state chiare. Non era il
solito conto bancario anonimo. In aprile, durante l'incontro
che aveva preceduto il suo viaggio, Bressan aveva illustrato
all'amico avvocato ginevrino le richieste dei suoi clienti, i
quali non cercavano solo una cassaforte ma un vero e proprio custode, attivo,
solerte e sempre presente. Per venire
incontro a queste particolari esigenze, Leboeuf lo aveva
condotto tra le mura del vecchio palazzo che ospitava il
salottino perfettamente arredato nel quale si trovava in quel
momento, mantenuto in una rassicurante penombra da
pesanti tende. Jean-Luc aveva avvisato il suo corrispondente e amico la mattina
stessa del suo arrivo a Ginevra da Losanna. I telefoni portatili sarebbero
arrivati circa dodici anni dopo e Internet era ancora una parola sconosciuta.
L'avvocato Leboeuf non era rimasto sorpreso dal comportamento dell'amico, perché
sapeva che si trattava di una faccenda delicata. La riservatezza e la prudenza
di Jean-Luc furono da lui apprezzate, non certo viste con sospetto.
Le pareti della stanza erano ricoperte da un tessuto color carta da zucchero a righe sottili tono su tono, tra le quali s'insinuavano, disegnati da una mano precisa, piccoli fiori blu e foglie cosparse di puntini rossi. Tende della stessa tonalità dei fiori incorniciavano la finestra. Il tavolo poggiava su un piccolo tappeto persiano, che a sua volta ricopriva un parquet in legno antico un po' consumato. Vicino alla porta, invece, si trovava il riquadro di spessa moquette azzurra sul quale la signorina Werdell era passata senza lasciare tracce. Una stampa con un panorama di Ginevra sovrastava un piccolo camino. Un abat-jour a stelo, alto quanto lo schienale di una poltrona in pelle poco distante, e due piccole poltroncine, anch'esse in pelle, circondavano un tavolo in stile Luigi XV. Lo stabile di fine Settecento, austero, con piccole finestre, pochi fronzoli e porte massicce - quasi a custodire il silenzio al loro interno - ospitava la banca fin dai giorni della sua costruzione. André Leboeuf aveva scelto una banca posseduta e gestita da famiglie calviniste, perché in questo tipo di istituzione i soci dirigono in prima persona tutte le attività e rispondono in solido tra di loro, con i propri patrimoni personali, agli impegni assunti dall'istituto. Sono banche dove il personale viene selezionato con molto rigore e viene premiata la fedeltà, per cui capita spesso che alcune famiglie siano seguite dal medesimo funzionario anche per decenni. Nel 1981 a Ginevra esistevano sei banche che facevano riferimento a famiglie di tradizione calvinista. Oggi ne esistono ancora quattro, di dimensioni sempre maggiori e con una presenza sempre più internazionale. Dalla loro fondazione, all'indomani della Rivoluzione Francese e della crisi finanziaria che seguì il crollo della monarchia, i proprietari di queste potentissime istituzioni sono banchieri che ispirano la propria vita al Protestantesimo di Calvino, che guidò la città di Ginevra dalla metà del Cinquecento, influenzandone lo sviluppo culturale per i secoli a venire e conferendole il carattere di autonomia e di forza che l'ha portata, sebbene centro di medie dimensioni, a essere sede di alcune tra le più prestigiose organizzazioni mondiali. I banchieri che fanno parte di questa tradizione si differenziano da quelli che professano altre religioni per la loro rigida disciplina etica. Calvino lasciò ai ginevrini una concezione austera e severa della vita, insieme alla convinzione che la ricchezza e il benessere, in quanto segno della benevolenza del Signore, non vadano né mostrati, né ostentati. Le ricchezze vanno custodite, protette e incrementate nel più assoluto silenzio. I banchieri calvinisti si sono così conquistati la fama di grandi gestori di patrimoni. La loro notorietà è sempre stata solo sussurrata, come ogni cosa a Ginevra, per proteggerne il valore. Sono conosciuti per la grande discrezione nei rapporti con i clienti di tutto il mondo, solitamente privati e molto ricchi. Voltaire, filosofo illuminista ospite della città alla fine del Settecento, a questo proposito scrisse: «Quando un banchiere calvinista si butta dalla finestra bisogna seguirlo, perché c'è sempre qualcosa da guadagnare». | << | < | > | >> |Pagina 111Lo squillo del telefono lo distrasse dai suoi pensieri. Era la sua segretaria. «Lo faccia entrare subito», ordinò Bernard. La porta dello studio si aprì. Entrò un vecchio signore, di circa novant'anni, molto distinto e con un sorriso pieno di sincera cordialità. Bernard si alzò di scatto e si precipitò a stringere la mano dell'ospite; poi gli porse una sedia e lo fece accomodare di fronte a lui. Non osò sedersi dietro la scrivania per rispetto. «Sono contento che tu non abbia cambiato nulla dello studio di tuo padre, Bernard!».Melchiorre De Weld sorrideva compiaciuto. Aveva lavorato per la banca Tannant dal 1929 al 1994. Aveva iniziato a sedici anni come apprendista ed era stato dipendente della banca per sessantacinque anni, ma aveva collaborato con la banca anche dopo la pensione, fino al 1996, ovvero fino all'età di ottantatré anni. «Monsieur De Weld, la ringrazio infinitamente per aver accettato il mio invito. Quanti anni ha lavorato per noi?». L'anziano banchiere sorrise ancora una volta, un velo di nostalgia nello sguardo ancora acuto, e rispose: «Sessantacinque, caro Bernard!». «Mi perdoni se glielo chiedo, ma... Quanti anni ha? Mi scusi l'indiscrezione, ma il fatto è che la trovo in forma smagliante». «Novantacinque anni, mio caro. E riguardo al mio stato di salute hai ragione, fosse per me lavorerei volentieri ancora un po'!». «Mi fa piacere sentirglielo dire. Anche perché questo significa che è stato bene con noi!». «Ragazzo, la Tannant & Cie è sempre stata una grande banca. Tuo padre e tuo nonno prima di lui sono stati dei grandi banchieri!», disse De Weld con aria solenne. «Ha ragione! Voi avete fatto la storia della banca. Avete superato la crisi del '29 e la Seconda guerra mondiale... Monsieur De Weld, che cosa pensa invece della crisi di oggi?». Bernard Tannant si riferiva a un evento verificatosi poco meno di un mese prima: il fallimento della banca d'affari Lehman Brothers di New York. Nel corso della mattinata del 15 settembre 2008, il principale indice della borsa di New York aveva perso più di cinquecento punti. Era stato il crollo più grave dal 17 settembre 2001, il primo giorno di scambi successivo all'attentato alle Torri gemelle. Il fallimento di Lehman Brothers non era stata la causa principale della crisi, ma da quel momento era stato chiaro a tutti che molto presto la crisi avrebbe raggiunto proporzioni globali. La voce profonda di Melchiorre De Weld riportò Bernard alla realtà. «Caro Bernard, quella che stiamo vivendo non è la prima e non sarà certo neanche l'ultima crisi che il mondo si troverà ad affrontare. Quel che è certo è che le crisi si verificano sempre in seguito a periodi caratterizzati da continui eccessi. Come ben sai, secondo la nostra religione il denaro è il segno della benevolenza di Dio, un dono prezioso che va preservato e custodito con cura. E noi abbiamo sempre cercato di attenerci a questo principio. Per questo la nostra banca ha superato i due secoli di vita, mentre quella banca americana è fallita. Lo stesso è successo nel 1929, quando crollò la Borsa. Ricordo che avevo iniziato a lavorare da pochi mesi... Anche in quel caso la crisi fu il frutto di una serie di eccessi. Quello che voglio dire, Bernard, è che bisogna evitare a tutti i costi di esagerare. Preserva i valori dei tuoi antenati e la tua banca continuerà a esistere per altri due secoli!». Bernard Tannant rassicurò l'anziano ex dipendente di suo nonno e di suo padre riguardo alla politica della banca, perfettamente in linea con la tradizione portata avanti con fierezza dai suoi predecessori. Dopodiché il suo volto assunse un'espressione seria e preoccupata. Questa volta si rivolse De Weld in tono sommesso, di confidenza: «Monsieur, a dire il vero in questo momento non è solo la crisi a preoccuparmi. Devo farle un'altra domanda. Si tratta di una questione molto delicata». «Dimmi pure, caro Bernard». «Lei ricorda l'apertura del conto intestato alla società Red Arrow, avallata da mio padre nel 1981? Lei è stato il suo più fidato assistente per molti anni». «Per ventidue anni», precisò De Weld con orgoglio. Poi indossò un paio di piccoli occhiali ed esaminò per un attimo i raccoglitori sulla scrivania di Bernard. Li riconobbe. Divenne serio: «Vedo che ne sai più tu di me. Ricorda, tuo padre è stato un banchiere eccezionale; una volta accettato un cliente, non lo ha mai tradito». Bernard era imbarazzato. Voleva informazioni, voleva sapere. Doveva prendere in mano la banca insieme ai suoi più stretti collaboratori, per diventare competitivi con gli americani e per fondersi con altre banche: «Ma come è possibile che nessuno si sia preso la briga di controllare da dove venissero tutti quei soldi e soprattutto dove fossero andati a finire?». «Caro Bernard, le leggi sono cambiate, anche se il mondo è più o meno sempre lo stesso. Vedi, il cliente ci fu presentato da un avvocato rispettabile. Che cosa dovevamo chiedere di più? All'epoca era lui a rispondere dell'identità del beneficiario, non noi». Bernard Tannant doveva invece destreggiarsi con le nuove regole che dal 1992 gli imponevano di sapere tutto riguardo al beneficiario economico di ogni franco svizzero depositato nella sua banca. I trasferimenti erano già da tempo divenuti nominativi ed elettronici, rendendo rintracciabile ogni movimento di denaro. Era fermamente convinto che la Svizzera dovesse fare il grande salto e cominciare a competere con le altre piazze. Avrebbe dovuto smettere di contare solo ed esclusivamente sul segreto bancario e puntare sulla qualità dei servizi. E doveva cercare di evitare che, proprio mentre lui stava per cambiare lo stato delle cose, uno scandalo che veniva da lontano rovinasse il suo lavoro e gli oltre duecent'anni di storia dei banchieri Tannant. «Capisco, monsieur De Weld. Ma secondo lei posso stare davvero tranquillo?». «Caro ragazzo, nessuno può garantirti questo, ora che le leggi sono cambiate. Ma tu ricorda sempre che qualsiasi cosa dovesse uscire su questa storia, per te è solo un conto chiuso nel 1991. Intesi? Ovvero, un conto chiuso prima del 1992 e quindi prima che fossimo obbligati a conoscere l'identità dei beneficiari di ogni società che apriva un conto presso di noi». Bernard Tannant ricordava la mole di adempimenti e le complicazioni che aveva comportato l'adeguamento alla riforma. Per la transizione erano stati necessari due anni di duro lavoro. De Weld aveva collaborato con la banca durante questo passaggio. «Monsieur De Weld, ma siamo sicuri che nel 1991 il conto fu chiuso definitivamente? Voglio dire, non è che i fondi sono rimasti, in qualche modo, in una nostra filiale estera e dunque direttamente o indirettamente collegati alla nostra banca?». Il vecchio signore si tolse gli occhiali e guardò fisso negli occhi il giovane banchiere. Lo aveva visto bambino, ragazzo, giovane gestore alle prime armi e infine l'aveva visto subentrare al padre: «Caro Bernard, ti prego, ricorda quello che ti ho detto. Per te il conto è stato chiuso nel 1991. Punto. Fu un'ottima occasione per liberarsene». «In che senso "liberarsene"?». Il vecchio De Weld si alzò e si mosse in direzione della porta. Stava per congedarsi. A quel punto Bernard ebbe uno scatto di nervi: «Beni di famiglie ebraiche mai tornate dai campi di concentramento nazisti, il dittatore delle Filippine, il pazzo africano, i generali argentini... tutte richieste che piovono dal mondo sulla Svizzera! Basta, dobbiamo cambiare! Il mondo è cambiato! Se qui non si muta la rotta andremo a fondo!». De Weld si fermò poco prima di raggiungere la porta e si voltò di nuovo verso Bernard. Aveva novantacinque anni e per oltre sessanta aveva lavorato tra quelle mura. Non accettava una critica così feroce al suo passato: «Bernard Tannant, se tu siedi su quella sedia, se puoi vivere in due castelli, se puoi studiare filosofia e avere una banca lo devi alla tua famiglia! Non è la Svizzera che non funziona. È il mondo là fuori ad essere marcio! Se non fossimo noi a proteggere tutti quelli che ci affidano i loro beni, ci sarebbe qualcun altro a farlo. Ricorda, è là fuori... È fuori dalla Svizzera che il mondo è impazzito! Tu sei un banchiere e hai il dovere morale di proteggere sempre e comunque i beni che ti vengono affidati». L'ultimo erede in servizio della dinastia di banchieri calvinisti Tannant era un appassionato di storia. Prese una moneta dalla tasca, cinque franchi svizzeri. Mostrò all'anziano ex dipendente il lato sul quale è impressa l'immagine di una croce, simbolo della Svizzera da settecento anni: «Monsieur De Weld, vede questa croce? Credo fermamente nella teoria secondo cui i Templari — scacciati e perseguitati dalla Chiesa per la loro abilità nel nostro stesso mestiere — si rifugiarono tra queste montagne e arrivarono a Sion. Fu proprio quello l'inizio della nostra storia di banchieri. E lo fecero in nome di Dio, della libertà e dell'aiuto reciproco. Questi sono i principi ispiratori della Confederazione elvetica, non dobbiamo mai dimenticarlo!». «Lo so, ma tu non dimenticare che i Templari erano anche grandi custodi di denaro». «Sì, ma tanti di loro sacrificarono la vita per difendere la loro fede. E noi che stiamo facendo? Li stiamo veramente onorando? Siamo veramente fedeli ai valori della Confederazione?». Il vecchio De Weld era scioccato. Osservava la moneta da cinque franchi come se fosse un oggetto sconosciuto. Il giovane Tannant era un uomo da rispettare, ma ciò che era stato chiamato a rappresentare era più importante di lui e delle sue idee personali. Non doveva crollare, non poteva rinnegare il passato: «Bernard, mi appello alla tua coscienza: ricorda che questa banca esiste da oltre duecento anni. I tuoi antenati la fondarono mentre in Francia scoppiava la Rivoluzione. Ginevra è da sempre un baluardo di libertà. Qui scelsero di vivere Rousseau, Voltaire e lo stesso Calvino. Dobbiamo impegnarci affinché nessuno possa mai e poi mai distruggere tutto questo!». Bernard era rimasto seduto. Le parole dell'anziano banchiere lo avevano turbato. Si trovavano su fronti diversi, ma le ragioni dell'uomo non gli erano del tutto estranee: «Mi scusi, monsieur De Weld. Non intendevo offendere il nostro passato e non intendevo mettere in dubbio l'operato suo o quello di mio padre...». Il vecchio si avvicinò al giovane banchiere, che ora sedeva con lo sguardo rivolto verso il basso. Fissò Bernard per un istante: era un uomo rispettabile e senza dubbio degno del ruolo che ricopriva. Certo, aveva le sue idee e probabilmente desiderava cambiare le cose... D'altronde, solo lui avrebbe potuto mandare avanti la banca con il nome della famiglia. L'importante era che non distruggesse tutto, nella foga di cambiamento. De Weld ricordò quando a quattordici anni, nel 1970, Bernard era scappato di casa per andare a Parigi, affascinato dal '68 e da tutto quello che stava accadendo in quegli anni: «Sai cosa disse tuo padre quando scappasti a Parigi con i tuoi amici?». Bernard alzò lo sguardo. Era visibilmente commosso. Suo padre era sempre stato duro e severo con lui e tra loro non vi era mai stato un vero dialogo. «Mi disse che eri un ragazzo straordinariamente acuto e sensibile. E mi disse che era certo che saresti stato capace di rinnovare la banca senza distruggerla». Così dicendo, De Weld gli strinse la spalla con affetto e lo salutò, avviandosi verso la porta. Prima di uscire dalla stanza, lo ammonì un'ultima volta: «Bernard, ricorda quello che ti ho detto: il conto intestato alla Red Arrow è un conto chiuso nel 1991. Fallo per tuo nonno e per tuo padre. E per tutti coloro i quali affidano ancora i propri patrimoni alla tua banca». | << | < | > | >> |Pagina 340Marco soffriva di vertigini, e le Sette Sorelle erano scogliere molto alte. Il prato naturale terminava dove la terra sembrava recisa con un coltello, formando una parete alta e ripida di pietra bianca: la costa, arrivando dal mare, appare come una torta tagliata. In alto l'erba di un verde intenso, e sotto il mare della Manica... Era una giornata di sole e vento. Camminarono fino alla cima più alta. Chiunque avrebbe provato terrore guardando in basso.«Ricordi quando ti ho assunto?», chiese Sutherland. «Non potrò mai dimenticarlo: iniziai la mia carriera nella finanza grazie a lei!». Il vecchio Sutherland non lo riteneva un merito, ma un errore. Rimase in silenzio per alcuni istanti. Lo osservò attentamente. Marco era riuscito a mantenere intatto il suo entusiasmo, la sua cultura e il suo stile. La finanza negli ultimi anni era stata in mano a gente senza scrupoli, che vendeva e comprava pezzi di carta chiamati titoli, speculando, senza avere più alcun rapporto con l'economia reale. Si fermarono qualche secondo a riprendere fiato e a respirare quell'aria piena di iodio, mentre soffiava il vento tipico della Manica. Il vecchio Sutherland ne approfittò per fare un'altra domanda: «E sei ancora contento di quella scelta?». «Sì, molto». «Che cosa hai fatto dopo che la banca è stata costretta a chiudere?». «Ho divorziato da mia moglie. Non so se è al corrente della storia...». «Parli di Leen?». «Sì». Sutherland riprese a camminare in silenzio. Janeth era stata la sua segretaria e il ragazzo l'aveva conosciuta proprio nel suo studio. Penny camminava poco dietro di loro e ascoltava. Si fermarono in un punto più alto del precedente, ma non erano ancora arrivati alla cima delle Sette Sorelle. Sutherland tornò a parlare, ripescando nei suoi ricordi ancora così vividi: «Se non sbaglio, parlammo della South See Company...». «Esatto!». «Vedi, mio caro, allora le banche servivano per finanziare i commerci, le nuove industrie. Negli ultimi anni, come tu stesso avrai avuto modo di constatare, sono invece diventate solo macchine per speculazioni. Ormai ogni banca del mondo dà a giovani ragazzi intraprendenti soldi propri per speculare su obbligazioni, derivati e titoli. Sono convinti che con la carta si possa semplicemente creare altra carta e scambiarla per denaro. Ma così facendo, vedrai che presto il denaro non varrà più nulla». «Sono d'accordo con lei, mi creda!». Marco aveva studiato economia, filosofia e storia, e aveva idee precise in merito, anche se quelle idee non l'avevano certo portato a diventare ricco. Aveva visto suo padre insegnare all'università restando sempre e solo un grande sognatore, e lui non voleva diventare un idealista spiantato. «Quindi?». «Grazie a lei ho visto nascere da vicino il mercato dei titoli e le do pienamente ragione. In fondo la grande novità del mercato dei capitali è stata quella di trasformare i debiti che le banche hanno nei confronti dei creditori in carta che vendono ai risparmiatori... E alla fine nessuno sa più quale sia il reale valore di un credito o di un'obbligazione». «E pensi di aver capito perché tutto ciò accade?». «Per creare sempre più denaro». «Sì mio caro, ma il denaro non si crea dal nulla. Vedi, quando un veliero salpava da uno dei porti della Manica, andava a prendere merci e le portava qui o altrove per rivenderle. Il margine guadagnato sulla merce consentiva di comprare altra merce, e così via. Così si creava ricchezza vera! Ma ora non esiste più un rapporto costante con l'economia reale...». Marco considerava Sutherland fosse un vecchio romantico banchiere. Dal canto suo, Sutherland osservava felice il mare e sperava di essere ancora in tempo per rimediare all'errore commesso tanti anni prima. Ripresero in silenzio a camminare verso la scogliera più alta. Dopo aver assaporato il vento e il sole, decisero di incamminarsi in discesa lungo i prati, verso una piccola penisola dove avrebbero potuto fermarsi in un pub: da lì sarebbe stato possibile osservare le Sette Sorelle illuminate dal tramonto, prima che il buio, ormai precoce per l'imminente arrivo dell'inverno, le avvolgesse. La discesa rendeva il passo meno faticoso. Sutherland era di buon umore: voleva assolutamente aiutare Marco, riteneva fosse suo dovere. «Penny mi ha raccontato della tua caccia al tesoro, Marco...». Gabbiani bianchi volavano rapidi dalla cima delle scogliere fino al mare, per poi risalire veloci. | << | < | > | >> |Pagina 453[...] Sutherland si avvicinò a un uomo che aveva osservato a lungo: «Bernard Tannant, immagino». «Sì, buongiorno!». «Mi chiamo Sutherland, conoscevo suo padre, lavoravo per la Stewart, Burhart & Co.». «Ricordo benissimo la sua banca. Ero molto giovane e stavo facendo il mio apprendistato presso l'ufficio titoli della Tannant». «Anche voi in Svizzera dovrete cambiare molte cose, questa crisi non ci lascerà per un po' di tempo». «Non siamo i soli, lei ha ragione, ma anche qui nella City...». «Lasciai la banca nel 1987 perché ero contro tutto questo». «Anche se negli ultimi anni ci sono stati momenti molto buoni». Sutherland sapeva di aver visto con troppo anticipo quello che stava accadendo in quei giorni: «Vede signore, la nostra City era grande quando finanziavamo i commerci, per favorire lo sviluppo dell'economia e far nascere nuove industrie». Bernard la pensava come il vecchio Sutherland. Avevano gli stessi valori: «Lei è stato fortunato a poter lasciare la banca prima della grande crisi». Sutherland si era sempre chiesto cosa sarebbe successo se non avesse mai lasciato la banca, se fosse rimasto a lottare: «Occorre dare soldi e fiducia a chi crea cose reali, non a chi compra e vende pezzi di carta sottraendo denaro all'economia: ha visto cosa sta accadendo nel mondo? Li chiamano titoli tossici. Sono obbligazioni, titoli, carta che non ha più valore. Sono la causa del fallimento delle banche». Bernard provò un'istintiva simpatia per quel vecchio signore che aveva ancora voglia di parlare e che in fondo, lo sentiva, amava profondamente il suo lavoro. «Mr. Sutherland, credo che questa crisi mondiale cambierà molte cose. Sono d'accordo con lei, quando afferma che non dobbiamo dare spazio alle speculazioni, ma investire il denaro dove c'è ancora un'economia reale!». «Lei è certo di essere svizzero?». Lo humour inglese avrebbe forse potuto offendere lo spirito calvinista ginevrino, ma non fu così. «Perché, lei non ama la Svizzera e gli svizzeri?». «Voi avete custodito denaro per secoli, noi lo abbiamo immesso nell'economia». «Ne è così sicuro? Mi sembra che ultimamente le banche inglesi e americane siano in difficoltà per costruzioni finanziarie che rischiano di metterci tutti in crisi». «È vero, devo ammetterlo: da quando i titoli obbligazionari hanno preso il posto delle linee di credito e dei prestiti, il mercato delle obbligazioni è cresciuto a dismisura e nessuno le sa più valutare. Chi guarda che cosa sono realmente? Ha visto che cosa è accaduto dopo il fallimento della Lehman Brothers?». Bernard non esitò a confrontarsi con Sutherland, anche per superare l'emozione del funerale: «Credo che l'aumento vertiginoso del debito sia servito per rilanciare l'economia. Ma ora che le banche di tutto il mondo hanno accumulato debito su debito, il valore di molti titoli sta facendo crollare le banche stesse». «Lei è convinto che quanto stanno facendo e faranno le banche centrali aiuterà l'economia?». «Intende dire il ribasso dei tassi e l'immissione di liquidità che è già in corso? Sì, credo che aiuterà moltissimo a impedire che il sistema bancario salti come nel 1929, ma sarà la genesi di altri problemi ben più gravi!». «Esatto: adesso i governi salvano le banche, ma poi presenteranno il conto ai cittadini in due modi, prima con le tasse e poi con una lunga depressione economica». «Il male peggiore è un altro», ribatté Bernard. «Con tutto il debito che è stato accumulato, abbiamo avuto un immenso trasferimento di ricchezza: coloro che si indebitano per comprare un bene alimentano un meccanismo per cui chi vende quel bene guadagna, chi invece lo ha comprato non è veramente proprietario del bene, ma si accolla un debito. Questo è molto pericoloso per la stabilità del sistema». «Che cosa immagina, allora?», chiese severo Sutherland. «Occorre ridistribuire in modo intelligente la ricchezza. Per questo bisogna investire nell'economia reale, nelle aziende, e gli Stati saranno obbligati a modificare la tassazione con lo scopo di ridare possibilità di consumo alla massa». Sutherland camminava adagio e provava simpatia per il suo interlocutore: «Ripeto: lei è proprio certo di essere un banchiere svizzero?». «Ma che idea si è fatta di noi svizzeri? Sa che cosa diceva Voltaire? "Quando un banchiere svizzero si butta dalla finestra è bene seguirlo, perché c'è da guadagnare". Più o meno, questa era la frase...». Sutherland era colpito ma non voleva cedere, aveva anche lui la propria personalità: «Ogni tanto vado sulla costa sperando di vedere un veliero che solca il mare e immagino che sia finanziato da banchieri veri». «Non deve sognare, venga a lavorare da noi a Ginevra. Noi investiamo in Asia, nelle economie emergenti; sa che abbiamo anche un ufficio in Cina? Questo è il mio biglietto da visita, mi venga a trovare a Ginevra, avrei bisogno di un consulente come lei». «Non le gioverebbe un ottantenne...». «Il suo sguardo e la sua voglia di rivincita non sono quelli di un ottantenne, ha ancora tanto da dare. L'aspetto!». «Grazie, ma sto bene qui, sulle mie coste...». Bernard sorrise: «Venga quando vuole». Sutherland gli strinse forte la mano e lo salutò dicendo: «Si tenga stretta la sua banca, la difenda, non la abbandoni neanche per un attimo: in questo momento è come un veliero nella tempesta, deve farcela!». «Si ricordi che siamo una nazione senza mare e non siamo abituati alle tempeste. Avremmo bisogno di un esperto comandante come lei». Sutherland fu lusingato da queste parole. Bernard aveva colto nel suo sguardo il leone ferito che viveva dentro di lui, l'immenso desiderio di restituire a quella professione il senso che aveva avuto prima che la finanza virtuale prendesse il sopravvento. «Costerei molto caro, le chiederei un compenso speciale che lei non potrebbe mai darmi». «Mi dica!», lo esortò Bernard.
«Vorrei essere pagato con del tempo: è il bene più prezioso
e non me ne è rimasto molto. Ne ha un poco da parte per me?».
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