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| << | < | > | >> |IndicePresentazione 7 Allestimenti per una biopolitica minore di Paolo Perticari PARTE I 15 LA VITA SPAESATA DI FRONTE AI BIOPOTERI SENZA LUOGO Senza luogo di Alessandro Dal Lago 17 Normalità dello stato di eccezione di Alessandro Dal Lago 25 li deperimento della società civile di Michael Hardt 33 Per una biopolitica della moltitudine di Judith Revel 59 Pensare a termine. Jacob Taubes: un apprendimento concreto nel pensiero bio-teo-politico di questo tempo di Paolo Perticari 67 Proteggere lo sguardo nell'era dello show di Ivan Illich 87 Biopolitici attivi contro lo spossessamento della vita di Alberto Ghidini 119 Organizzare il silenzio. Il passato nel presente dei Rom di Dimitris Argiropoulos 131 La guerra e il dominio seguito da L'ordine come disordine totale di Giorgio Agamben 183 PARTE II 189 BIOPOLITICA MINORE Una biopolitica minore intervista a Giorgio Agamben di S. Grelet e M. Potte-Bonneville 191 L'impero svelato dal basso intervista ad Alex Zanotelli di A. Ghidini 205 Il Contro-impero attacca intervista a Toni Negri di I. Bonnaud, S. Grelet, M. Potte-Bonneville, J. Revel 213 Saperi, poteri e produzioni di soggettività intervista ad Alessandro Dal Lago di I. Arnolfini e F.M. De Collibus 231 Una politica dell'eresia intervista a Isabelle Stengers di S. Grelet, P Mangeot, M. Potte-Bonneville 237 Conversazione e trasversalità intervista a Paolo Perticari di A. Ghidini 257 La misura del vero amore è poter insultare l'altro intervista a Slavoj Zizek di S. Reul e P. Deichmann 271 Una moltitudine creativa intervista a Michael Hardt di A. Ghidini 283 Indice delle fonti 290 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Se il problema pratico, politico e filosofico attuale resta ancora quello della biopolitica, parola ambigua a cui Foucault dava un'accezione piuttosto negativa, qui si tratta di fare emergere i contorni di una biopolitica minore che si applichi a qualunque forma di vita si trovi presa nelle categorie e nei dispositivi di un potere e di una pratica che la tratta come tale - vita esposta e amministrata. Non si può negare che in questi ultimi secoli, in particolar modo con il liberalismo a cavallo della prima guerra mondiale, la naturalizzazione del dominio delle merci abbia assunto la sua forma più radicale: il biopotere. Con il biopotere l'autonomizzarsi progressivo della totalità sociale arriva all'amministrazione e al governo della vita stessa in quanto tale. Da un lato assistiamo a una politicizzazione del biologico: la salute, la bellezza, la sessualità, le condizioni e le possibilità di ogni individuo dipendono sempre più dalla responsabilità di gestione della società. Dall'altro lato si opera una biologizzazione del politico: l'ecologia, l'economia, l'ambiente, la ripartizione generale dello «star bene» e delle «cure», la crescita, il prolungamento della vita e l'invecchiamento, la sopravvivenza della popolazione, si impongono come i punti decisivi di esercizio del potere. Questa naturalmente è solo la punta dell'iceberg e non l'iceberg stesso che in realtà si fonda sulla falsa evidenza del corpo e della vita biologica, sul controllo totale delle condotte, dei comportamenti, delle rappresentazioni, dei rapporti tra gli uomini, delle percezioni, per forzare in ciascuno l'accordo con la dimensione onnicomprensiva di spettacolo attraverso le procedure della partecipazione democratica oggi divenuta biocratica. Sotto il biopotere agli esseri umani sfugge la loro dimensione fisica ed estetica che si erge contro di loro e li opprime; ed è esattamente in questo che il biopotere è un momento dello spettacolo tanto quanto il fisico è un momento del metafisico. È perciò una necessità ferrea che ogni nuova norma restringa un po' più delle libertà già derisorie pretendendo di proteggere ciascuno da se stesso, opponendo alla legge l'ultima ratio della nuda vita. «Perdonateli, non sanno quello che fanno!», dice il biopotere mentre estrae la sua siringa e mentre estrapola la procedura emanata dalla norma. Il punto di vista da cui il nichilismo del mercato considera l'uomo, punto di vista in cui la vita umana non è più distinta dalla vita animale e l'animale definitivamente separato dall'umano, tratta ogni forma di vita e di non acquiescenza come una malattia che bisogna curare per il bene di tutti. Per questo non ci può essere nessuna politica dentro il biopotere, se non come manifestazione di una trascendenza contro il biopotere. Poiché il biopotere è la negazione definitiva del politico, la vera politica non acquiescente deve esordire affrancandosi dal biopotere, cioè riconoscendolo come tale in ogni forma di governo degli altri e di amministrazione della vita. Il problema dell'amministrazione della vita in quanto tale e del governo degli altri pone innanzi tutta l'urgenza di inaugurare una visione critica della realtà della vita quotidiana e delle pratiche che formano il lavoro comunicativo e cognitivo delle moltitudini a partire dalla contingenza e dalla condizione in cui qualunque forma di vita viene a trovarsi vis-à-vis con i biopoteri di questo tempo. Da questo punto di vista il biopolitico emerge come occasione strategica in relazione a tutte quelle pratiche legate in un modo o in un altro alla gestione e alla cura della vita, al lavoro, alla produzione, alla marginalità, alle diverse immagini della malattia, così come del successo, alla cittadinanza, e alle immigrazioni, alle minoranze, al disagio, allo spaesamento, alla vulnerabilità in qualunque contesto venga chiamato in causa il corpo e il legame sociale. Il qualunque nel Bloom. Il Bloom che è dappertutto, ma che la sociologia non vede da nessuna parte. Non semplicemente soggettività qualunque, ma struttura che connette qualunque forma di soggettivazione individuale e collettiva nelle democrazie biopolitiche, l'essere vuoto e incostante di tutta la letteratura del Novecento, l'uomo senza qualità, ma anche Eichmann, l'assassino zelante e banale. Riappropriarsi del Bloom per riappropriarsi dell'anonimato a cui si è costretti in qualunque ambito ci si trovi al cospetto di una divisa portata da tutti coloro che vogliono far riconoscere il proprio ruolo di amministratori di un qualunque frammento della vita. Qualunque ambito, cioè, in cui la vita in quanto tale diviene la posta in gioco di biopoteri senza luogo. Lì e a partire da lì emerge la funzione cosciente e morale di una biopolitica minore, capace di deviare dalla biopolitica maggiore e dai suoi imperativi funzionali. Da qui l'invito a praticare il biopolitico come altri praticano l'anonimato, il sabotaggio o la sovversione in tutte le forme possibili come arte della deviazione dal basso, rispetto a tutto ciò che muove attraverso il canone del potere, dall'alto. [...]
Impegnati in una cospirazione permanente contro questa
fiction
senza fine, contro questo scenario fatto di elicotteri che sorvolano il
territorio nemico, di un attentatore palestinese suicida sul punto di farsi
esplodere insieme ad altri, di George W. Bush e di Tony Blair candidati da
Harald Nasvik al premio nobel per la pace, di un soldato americano impegnato in
una guerra di fronte allo schermo del computer a centinaia di chilometri di
distanza dal nemico, di una ragazza con cui credi di stare e che invece è un
dispositivo. Non è raro che di fronte a questo scenario alcuni scelgano di
scomparire nell'ombra, di fare uso dell'ombra trasformandola in spazio
strategico da cui partiranno gli attacchi ai luoghi dell'Impero.
Lentus in umbra:
uno smantellamento radicale delle procedure e delle pratiche che fanno la vita
pubblica al fine di preparare, anticipare, orientare una diserzione di massa
dalle rovine dell'assetto sociale lavorando già a un diverso modo di mostrare
mondi, consapevole della dimensione messianica che il tempo presente pone
innanzi. Usare il tempo della fine per aprire una visione che superi la scena di
questo mondo riconsiderando la possibilità di una politica della finitudine
dalla quale si possa sentire l'acuta esigenza di una forza e di un linguaggio
tesi a mettere in luce il gemito inesprimibile della creatura quando essa è
senza speranza. Porre fine a questa arte del controllo, della cura e governo
della vita in qualunque sua forma e annientare, attraverso un onesto nichilismo
metodologico, il ruolo centrale della vita esposta al niente e al nichilismo dei
biopoteri dell'Impero. Al diavolo una vita spaesata, subito afferrata dagli
amministratori delle regolazioni delle emergenze sociali e dagli imperativi
funzionali che essi emanano. Fare uso delle proprie condotte per annientare il
niente del mercato spettacolarizzato, della condizione che ci riserva la
biopolitica maggiore. Qui si propone un'educazione degli adulti, un'occasione
per diventare adulti in questo tempo, nel corso della vita esposta e posta in
gioco degli apparati biopolitici e dei loro dispositivi.
Questa antologia si compone di due blocchi. La prima parte è legata agli spaesamenti politici di questo tempo, allo spostamento dei mezzi del controllo politico e alla diffusione pervasiva dei poteri che invadono ogni ambito della vita in quanto tale. Un'analisi politica che ruota attorno al deperimento della società civile e alla crisi dello spazio politico in un tempo in cui gli spazi politici sono, nella loro essenza costitutiva, occupati dai biopoteri e dal mercato. Ma anche alle contro-tendenze, mai così numerose e cariche di opportunità come in questo tempo a qualunque livello tanto che fin dalla stessa condotta etica individuale e collettiva (frammentata dalla presenza di quegli stessi poteri che occupano i corpi e la vita in ogni dove), si pone all'ordine del giorno l'istanza di un legame che restituisca l'integrità dei pezzi infranti. Si tratta di ampliare la base dell'elemento biopolitico che attraversa gli strumenti e le pratiche sociali critiche di qualunque professionalità lasciando intravedere una possibilità di deviazione e di cambiamento di rotta: quello di una coscienza biopolitica pensata dal basso contro la biopolitica imposta dall'alto. Questa alternativa è già in quel che si sta facendo: nel mezzo dei biosaperi, nei contesti delle scienze umane legate al lavoro comunicativo e cognitivo - così come nella dimensione amministrativa e istituzionale del lavoro stesso - nell'esperienza della differenza, nell'esperienza della solidarietà, negli incontri con la follia e nella terapia legata alla vulnerabilità, nei problemi della trasformazione della scuola, nei problemi dei migranti o della cooperazione internazionale. La seconda parte vuole fare emergere, attraverso una serie di interviste e conversazioni la convergenza di alcune voci, anche molto diverse tra loro, verso il tema della biopolitica minore in cui diviene più concreto il senso di un contrattacco diffuso nel vivo e nel concreto delle diverse esperienze di scontro con i biopoteri e con i biosaperi che costituiscono il cuore dell'Impero. | << | < | > | >> |Pagina 33Il concetto di società civile ha goduto ultimamente di rinnovato interesse, non soltanto in Europa occidentale o nel Nord America, dove piuttosto vanta una lunga e gloriosa carriera a sostegno delle posizioni politiche più svariate, ma qui e là nel mondo; particolarmente in quei Paesi in Asia e nell'Europa orientale che stanno vivendo la transizione dal socialismo al capitalismo, così come nei regimi postautoritari e postdittatoriali dell'America Latina. La società civile viene vista come il carattere determinante di ogni democrazia: l'infrastruttura istituzionale principe per le mediazioni della politica e per il mercato. Tuttavia, nell'analizzare le funzioni democratiche che il concetto e la realtà della società civile hanno reso possibili, è importante rendersi conto anche delle funzioni di disciplina e sfruttamento che sono inerenti e inseparabili da queste stesse strutture. Inoltre, dobbiamo chiederci se le istituzioni sociali necessarie per la costruzione e il funzionamento della società civile siano ancora presenti nelle formazioni sociali contemporanee. Quello che intendo sostenere è che negli ultimi anni le condizioni di possibilità per la società civile si sono progressivamente indebolite in Nord America, Europa e altrove (se poi è davvero mai esistita al di là del mondo europeo). Anche se considerassimo la società civile come la realtà politicamente più desiderabile, qualsiasi evocazione del concetto al momento attuale corre il rischio di restare vuota e inutile. Concentrare l'analisi attorno al concetto di società civile ci sfida così a nuove prospettive su una problematica più generale. Detto altrimenti, riconoscere il deperimento della società civile ci dà i termini per meglio afferrare quei fenomeni che troppo spesso sono vagamente indicati con riferimento alla fine della modernità o alla fine della società moderna. I termini moderno e postmoderno mancano di quella specificità necessaria che li renda utili oltre un certo punto. La società che stiamo vivendo, più propriamente, è definibile come una società postcivile. | << | < | > | >> |Pagina 87INTERFACCIA Ci siamo riuniti per riflettere su L'immagine nell'era della digitalizzazione, un tema pubblicizzato dai produttori di software e hardware. L'«ipertesto» e la «realtà virtuale» attirano gli spettatori verso spettacoli che appaiono sui monitor dei computer nell'atrio e, con mio grande stupore, verso lo spettacolo di luci laser che riflettevano sullo smog del porto di Amburgo la notte scorsa. Il «linguaggio» predominante in un'aula è quello dell'informazione. Si è scelta come parola-chiave «interfaccia». L'uso di questa parola coniata di recente (1964) pregiudica furtivamente l'orientamento di una qualunque discussione sull'immagine. Riducendo la relazione all' interfaccia veniamo invitati ad uguagliare i sistemi, essendo «nati da donna» o disegnati da un cyber-fenomeno. Come medievista, mi sento un pesce fuor d'acqua in mezzo a questa gente che studia informatica e comunicazione. Nonostante io sia un profano, sono stato invitato a scrivere sulla parola Bild, un termine che in tedesco significa sia «struttura» sia «immagine». Lo farò paragonando l'immagine che trae beneficio dall'interfaccia con l'immagine che io conosco dal passato. Presentando una breve storia della nozione di immagine, vorrei chiarire i concetti che ritengo essere relativi all'etica. Quando dico «immagine», e me la figuro come la corda di uno scalatore usata per avanzare lentamente dal paradigma-schermo fino alle Idee di Platone, noto che la fibra che scorre nelle mie mani cambia di epoca in epoca. Il nome attraverso il quale l'immagine è definita, il potere che detiene, il rispetto che comanda, cambia in ogni regime iconico. Comunque, più studio la storia dell'immagine, più chiaramente vedo che il suo posto e la sua funzione sono cambiati e, ancora più fortemente, sono portato verso tre intuizioni: - Primo, lo stato polemico dell'immagine è una caratteristica distintiva della storia occidentale - Secondo, il dissenso sulla natura delle immagini è stato utilizzato come questione etica fino a poco tempo fa - Terzo, in questa era dell'interfaccia, l'immagine, che è stata oggetto di disputa, impallidisce di fronte a qualcosa di nuovo che io chiamo show. È compito degli storici trovare e soppesare le prove che lo show sia eterogeneo a quella che è stata definita come immagine nel passato. Questa visione storicamente distante dello spettacolo lo è doppiamente per un'etica dello sguardo: è necessario inserirci nella tradizione dell'iconologia etica e riconoscere la variazione etica totalmente nuova che si è attuata con l'era dello spettacolo. [...] Oggi, le cose sono cambiate. Lo sguardo senza vergogna è ormai di casa: non sto parlando di guardare con bramosia un giornale porno, trash o sado-maso. L'Era dell'Informazione si incarna nell'occhio. La lettura veloce, il riconoscimento di un modello, la gestione di un simbolo fanno parte delle abilità d'élite. Non sto nemmeno parlando dello sguardo del guidatore che sta sulla difensiva, o del programmatore informatico che localizza gli errori, né del meeting annuale della Società Internazionale per lo Studio del Panorama dal Parabrezza del Texas. Tutto questo afferrare e codificare informazioni è legato solo debolmente alla cultura etica dello sguardo. Il paradigma contemporaneo è strumentale: l'occhio viene allenato per competere con il comandamento della ricerca del Verbo Perfetto. L'occhio è intrappolato in un'interfaccia con le icone di Microsoft Windows, e il moderno allenamento all'occhio riduce lo sguardo ad una forma di scanning. Dozzine di parole che indicavano le varie tonalità della percezione sono scomparse dall'uso corrente. Per quanto riguarda il naso, qualcuno ne ha contato le vittime: delle 158 parole tedesche che indicano le variazioni dell'odorato, utilizzate dai contemporanei di Dürer, solo 32 sono ancora in uso. Allo stesso modo, il registro linguistico per il tatto è stato ridotto. Le parole relative alla vista non se la passano meglio. Le tue occhiate possono essere ancora chiamate bramose, sporche o gentili; ma difficilmente in libri di fisiologia. Oggi le parole che qualificano lo sguardo sono prese dalle metafore. Precedentemente, uno sguardo penetrante, buio, luminoso, minaccioso aveva poteri distinti. Alcune persone in Messico credono ancora al mal de ojo, l'occhio malefico. Ma la maggior parte dei miei colleghi ride di Shelldrake, colui il quale studiò come le persone si voltino non appena le si fissino da dietro. Attribuiscono un potere simbolico e non fisico allo sguardo. Ho avuto delle difficoltà a spiegare perché Medusa, la Gorgone, con i suoi occhi vuoti, dovrebbe essere presa come simbolo dell'interfaccia. | << | < | > | >> |Pagina 119L'UOMO INFORMATO L'immensa campagna di espropriazione della vita messa in atto nel nostro tempo ci interroga sulle formulette consolatorie e sulle pedanterie che allertano l'uomo, un po' ovunque, di fronte ai pericoli di un mondo in cui sembra non si possa più vivere senza seguire i consigli di un esperto o senza aver letto un qualche manualetto di istruzioni esistenziali. Tra noi e noi stessi si è scavato un abisso di estraneità da colmare con la tutela delle leggi dell'ingegneria sociale che, utilizzando un'espressione di Ivan Illich, hanno istituzionalizzato il prossimo creando la base operativa fondamentale per il governo, l'amministrazione, il contenimento della vita in quanto tale. Ma che cosa ne è di questa vita? La domanda suppone il senso della vita come senso del modo in cui il controllo biopolitico delle popolazioni è penetrato nel lavoro, nel linguaggio, nei corpi, nei desideri e nella sessualità. Già nel 1974 Michel Foucault, in una serie di conferenze sulla medicina sociale tenute in Brasile, evocava la razionalità d'insieme di una molteplicità di tecniche di potere che prendono per oggetto la vita degli individui e delle popolazioni e allo stesso tempo mirano a disciplinare i corpi individuali e a controllare i processi biologici d'insieme della specie (salute, natalità, mortalità, durata della vita, ecc. così come le loro condizioni di variazione), processi che sono venuti a occupare un posto centrale all'interno della politica. Nella società di servizi alla persona la vita è regolata da un'economia politica della competenza sul vivente. Giorno dopo giorno e in ogni dove, il biopotere ci assale e ci insegna come vivere: gioie, passioni, dolori, dispiaceri, ricordi, ambizioni devono prima passare sul tavolo di dissezione del professionista che ci dirà quello che si prova e si sente veramente e quali conseguenze tutto ciò implica in un tempo in cui ciò che il potere spaccia come regola naturale nasce e viene applicata con la pretesa di proteggere ciascuno da se stesso. Si tratta di un mondo spirituale biopoliticamente neutralizzato che ha assolutizzato la sua onnipresenza nella prospettiva di un'immanente possibilità di decisione riguardo all'esistenza umana; la vita, spossessata, è stata definitivamente catturata da un'armata di esperti competenti, di operatori tecnici, di consulenti supervisori, i quali si occuperanno di sottoporla quotidianamente alle operazioni di confezionamento industriale del bio-management. Con l'affermarsi della dominazione biopolitica, come ha dimostrato a più riprese Agamben sulla scia di FoucauIt, si assiste a uno spostamento e a un progressivo allargarsi al di là dei limiti dello stato di eccezione della decisione sulla nuda vita in cui consisteva la sovranità. Se in ogni stato moderno si poteva distinguere nettamente la decisione sulla vita da quella sulla morte, questa distinzione non si presenta più così netta oggi. La linea che prima divideva due zone chiaramente distinte è diventata, piuttosto, «una linea in movimento che si sposta in zone via via più ampie della vita sociale, in cui il sovrano entra in simbiosi sempre più intima non solo col giurista, ma anche col medico, con lo scienziato, con l'esperto, col prete.» Alla lunga, in qualunque ambito della vita umana, finiremo col ritenerci circondati di bisognosi e dunque moralmente obbligati a intervenire e a interpretare i problemi vitali di ogni singola situazione con i nostri criteri di (operatori) esperti, ovviamente solo nella misura in cui l'individuo di fronte a noi sia educato, «pedagogizzato» - e si badi bene che in questo tempo non c'è professionista che non faccia come mestiere quello di «pedagogizzare» - o ben mediato dai nostri modelli di percezione della realtà. Da questo punto di vista abbiamo bisogno dei bisognosi per soddisfare quella compassionevole necessità patologica di occuparci della vita di qualcun altro. Nell'esercizio delle nostre forme di dominio e controllo l' altro e le sue richieste sono eliminati dal solipsismo radicale di un soggetto realmente incurante dei reali interessi/bisogni altrui. Ma il prossimo non è un Tamagochi. Dobbiamo essere in grado di liberarci da questo sentimentalismo sui bisognosi che non hanno ricevuto quello che è stato definito «quel minimo di educazione senza il quale non si può essere cittadini». [...] Ciò che la tecnica non era ancora riuscita ad afferrare, propriamente il metafisico - emozioni, senso d'identità, libero arbitrio - , è divenuto ora una sfida alla sua portata. Ne è la prova l'omiciattolo sovrumano insensibile e funzionale generato dalla scienza moderna, quello che in nome della difesa di un lifestyle si dice serenamente pronto a dichiarare guerra, con metodi cinesi, a chiunque rappresenti una fantomatica minaccia per l'integrità del sistema e per la salvaguardia dei diritti dell'uomo dotato di diritto naturale (questo scialbo, livido uomo circondato dai diritti...), salvo in seguito impegnarsi, per riappacificare la sua sudicia coscienza, in una qualsiasi iniziativa collettiva o di volontariato in campo sociale. Dovremo allora interrogarci sulla strumentalizzazione dell'educazione e sulla banalizzazione della conoscenza dal punto di vista della scuola e di tutta la lifelongeducation intese come efficientissime macchine antropotecniche. Noi possiamo lanciare una controsfida, una scommessa, quella di fare incontri e apprendere, vivere e conoscere, in modo tale che la stupidità e la banalità non siano necessarie, ogni qualvolta ci troviamo di fronte a poteri che per loro natura tendono a legiferare con grande facilità, ma in realtà propongono leggi a vantaggio proprio. Quando questo vantaggio proprio supera una certa soglia la banalità e la stupidità non diventano più giudizi di merito ma strumenti applicativi di norme e di leggi. Annientare il niente della banalità e della stupidificazione, prodotte quotidianamente in quantità inflazionata dalle tecnocrazie degli specialisti, attraverso la testimonianza di un piccolo esempio di vita capitato improvvisamente, di un imprevisto, di un dettaglio indicibile sentito molto intimamente che sfugga ai poteri dell'imprenditore-prenditore di ogni frammento della vita umana.
Questa è già la posta in gioco e ancora una volta l'esile promessa della
nostra stessa esistenza nell'impatto con i biopoteri di questo tempo.
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