Autore Paolo Emilio Petrillo
Titolo Lacerazione / Der Riss
Sottotitolo1915-1943: i nodi irrisolti tra Italia e Germania
EdizioneLa Lepre, Roma, 2014, I saggi , pag. 320, cop.fle., dim. 13,5x21x2,4 cm , Isbn 978-88-96052-92-1
PrefazioneLuigi Vittorio Ferraris
LettoreCristina Lupo, 2014
Classe storia contemporanea d'Italia , storia: Europa , paesi: Italia: 1920 , paesi: Italia: 1940 , paesi: Germania












 

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Indice


  7 PREFAZIONE

 13 INTRODUZIONE
    Berlino, 15
    Treuenbrietzen, 18
    Heinz Ruhle e Hans Baatz, 19

 24 AVVERTENZE
    Meldungen aus dem Reich, 25
    Joseph Goebbels, Diari (1924-1945), 26
    Archivio Kempowski, 27
    Stampa, 28
    Testimonianze, 28
    Traduzioni, 29


 33 PARTE PRIMA   Fasi di un processo

    Conversazione con Siegfried Bock, 35
    1915-1943: fasi di un processo, 42
    1922-1933: Italia docet, 43
    1934-1935: al di là dello scoglio austriaco, 52
    1936-1937: il bolscevismo, la Spagna, Mussolini a Berlino, 59
    1938-1939: apice e declino di un "vorticoso avvicinamento", 67
    Settembre 1939-giugno 1940:
        inizio e fine della non belligeranza italiana, 82
    Fridolin von Senger und Etterlin:
        un generale al tavolo delle trattative, 93
    1940-1941: l'Italia e la sua "guerra parallela", 97
    Conversazione con un gruppo di reduci dell'Afrikakorps, 105
    Operazione Barbarossa: la svolta di Stalingrado, 113
    Luglio 1943: lo sbarco degli Alleati in Sicilia, 138
    Estratti dal manoscritto e dai diari di Fritz Wolter, 150
    La caduta di Mussolini nei Diari di Goebbels, 154
    Rastenburg, 25-26 luglio 1943:
        i verbali dei colloqui al Quartier Generale del Führer, 157
    Dai rapporti del Sicherheitsdienst sullo stato del paese
        29 luglio 1943: notizie sul cambio di governo in Italia, 166
    Italia, 8 settembre 1943:
        le memorie del soldato Wilhelm Velten, 174
    Il discorso del Führer del 10 settembre 1943, 182
    Le reazioni dei tedeschi al discorso di Hitler, 188


193 PARTE SECONDA   Testimonianze

    Conversazione con Rudolf H., 195
    Conversazione con Hilmar D., 209
    Conversazione con Hermann Hieke, 237
    Conversazione con Heinrich Rockel, 260
    Conversazione con Willi Sitte, 281
    Conversazione con il dottor E. P, 296


316 BIBLIOGRAFIA


 

 

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Pagina 13

INTRODUZIONE



Una quindicina d'anni fa capitai in un piccolo centro del Nord Reno-Vestfalia, non distante dal confine olandese. Anja, al tempo iscritta come me alla Ruhr-Universität di Bochum, mi aveva chiesto di accompagnarla dai nonni, a prendere dei mobili per il suo nuovo appartamento: «I genitori di mia madre abitano non lontano, a una cinquantina di chilometri».

Parcheggiata la macchina davanti a una villetta monofamiliare, ci venne incontro un signore alto e diritto, oltre i settanta ben portati. Stava potando il roseto e aveva visto la nipote arrivare. Fu affettuoso con lei, gentile con me.

«Così lei viene da Roma, una bellissima città – mi disse poco dopo, mentre ci trovavamo da soli in giardino. – Sa che ci ho vissuto anch'io? Più o meno fra il 1941 e la fine del 1943, come ufficiale della Wehrmacht».

«Ah», dissi io. E pensai alle celle di via Tasso, alla notte del 16 ottobre, alle fucilazioni delle Fosse Ardeatine, a Marzabotto...

«Non fu una bella esperienza – riprese subito l'anziano signore. – Fino al settembre '43 eravamo alleati. E molti di noi avevano amici italiani, erano nate relazioni sentimentali, addirittura amori. Poi da un giorno all'altro diventammo nemici, truppe d'occupazione». Parole pacate, che avevano avuto decenni per stemperarsi. E forse necessarie, ho pensato in seguito, per potermi accogliere come ospite.


Per gli italiani l'8 settembre 1943 richiama una vicenda dolorosa e difficile, forse non ancora del tutto compresa, ma almeno a lungo dibattuta. Che cosa è stato invece per i tedeschi? Come ha influito, anche emotivamente, sulla politica d'occupazione attuata in Italia fino all'aprile del 1945? E in quale misura l'idea che i tedeschi si fecero allora degli italiani contribuisce ad alimentare l'immagine che la Germania ha dell'Italia di oggi? Forse quell' estraneazione strisciante fra i due Paesi, di cui si parlò qualche anno fa, potrebbe trovare qui una delle sue radici. Per ricostruire il modo in cui è stato "metabolizzato" in Germania il Proclama Badoglio, con le sue implicazioni e conseguenze, diventa comunque prezioso il racconto di chi a quegli eventi (o a particolari momenti di quella serie di eventi) ha assistito con i propri occhi. Il racconto dei testimoni.

Se iniziata al tempo dell'incontro con il nonno di Anja questa ricerca sarebbe stata senz'altro più agevole e fruttuosa. La spinta però è arrivata solo molto dopo e per così dire dall'attualità. Da giornalista che viveva in Germania occupandosi spesso di rapporti italo-tedeschi, mi capitava di notare come certe vecchie storie avessero ancora modo di farsi cronaca; di più, come sembrassero far da sfondo a quel contrapporsi di reciproci pregiudizi ai quali a volte si riduce la comunicazione fra Roma e Berlino.

Registriamo intanto un fatto: la memorialistica tedesca in materia è molto limitata e per certi aspetti anche la saggistica è poca cosa. Evitata dai dibattiti ufficiali, la defezione italiana del '43 ha invece alimentato in Germania un prolungato e risentito commento popolare, i cui assunti - seppur attenuati dal tempo - non solo non sono mutati di segno, ma hanno trovato conferme nella storia successiva dell'Italia, dal dopoguerra ai giorni nostri. Del resto secondo i tedeschi la nostra Unzuverlässigheit – "inaffidabilità", parola ancor oggi sensibile nei rapporti fra Italia e Germania – veniva da lontano. Già Bismarck, guardando al modo in cui in Italia si andava realizzando l'unificazione nazionale, diffidava di noi. Poi i tedeschi incassarono il "tradimento" del 1915, la cui ombra lunga si percepisce anche nel disagio con cui l'Italia fascista, nel tardo agosto 1939, optò per la non belligeranza.

Nel settembre 1943, nel mezzo di una guerra che andava ogni giorno peggio, l'opinione pubblica tedesca prese atto del Proclama Badoglio come di un qualcosa fondamentalmente già previsto. I due popoli ex alleati si trovarono ora nuovamente su posizioni avverse: per i tedeschi l'occupazione dell'Italia fu la conseguenza necessaria di un cambiamento di fronte che metteva a rischio i confini nazionali della Germania, mentre per gli italiani fu la molla scatenante di una guerra di liberazione. A decidere tra le due ragioni doveva essere l'esito del conflitto e la Germania ne uscì distrutta, nel corpo e più ancora nello spirito. Le immagini di Auschwitz tolsero ai tedeschi, anche agli incolpevoli, la possibilità di parlare dei propri lutti, sofferenze, delusioni. Comprensibile, ovviamente. Inevitabile però che certi temi, esclusi da ciò che era lecito raccontare, trovassero ospitalità nella vox populi come dati acquisiti o giudizi scontati.

Se si domanda agli anziani tedeschi cosa pensino del comportamento degli italiani nel settembre del 1943 si ottengono di solito risposte d'ironica sufficienza, velate di rabbia non del tutto digerita. A volte emergono tracce di comprensione. Due elementi si ripresentano regolarmente: a detta dei tedeschi, in termini militari il venir meno dell'Italia non sarebbe stato fonte di particolari preoccupazioni; e in termini morali, il voltafaccia del '43 non avrebbe costituito una sorpresa, perché guardando sia alla storia che all'esperienza acquisita in quei tre anni di guerra in comune si riteneva che degli italiani non ci si potesse fidare.

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Pagina 52

1934-1935: AL DI LÀ DELLO SCOGLIO AUSTRIACO


Ciò che si dissero i due dittatori di Italia e Germania durante il loro primo incontro è, come noto, non del tutto chiaro. Confidando nelle proprie conoscenze linguistiche Mussolini rifiutò l'interprete; Hitler, che dal canto suo non conosceva affatto l'italiano, parlava un tedesco prolisso e a tratti accelerato, ben al di là delle effettive possibilità di comprensione del suo interlocutore. Non furono sottoscritti particolari accordi e nessuno dei due si sbilanciò più di tanto. A giudicare dagli eventi successivi sembrerebbe però che Hitler almeno un'opinione se la sia fatta: e cioè che se avesse forzato la mano in Austria (quella austriaca, futuro e indipendenza del paese, era stata fra le principali questioni affrontate nei colloqui) l'Italia non si sarebbe opposta più di tanto.

Il 25 luglio nella Vienna del cancelliere Engelbert Dollfuss scoppiò così un putsch di matrice nazionalsocialista: circa centocinquanta uomini in divisa dell'esercito austriaco, membri delle locali SS dichiarate illegali nel giugno del 1933, presero d'assalto la Cancelleria. Dollfuss fu raggiunto da due pallottole in circostanze non chiarite e morì dopo poche ore, privo di cure. La reazione di Mussolini fu immediata: il piccolo Dollfuss — Millimetternich, lo schernivano i nazionalsocialisti — era un suo protetto, quasi un amico, e l'influenza che il Duce esercitava su Vienna era evidente a tutti. Già la sera del 26 luglio gli avamposti di quattro divisioni italiane si schierarono alla frontiera del Brennero; il gesto fu eloquente, e anche se Francia e Gran Bretagna non sembravano pronte a muoversi fu sufficiente. Hitler fece subito marcia indietro: da Berlino deplorò il "barbaro assassinio" e impedì la fuga in Germania dei putschisti, subito sconfitti dall'esercito austriaco. Poi rimosse il suo uomo di fiducia a Vienna, Theodor Habicht, sostituendolo con Franz von Papen, leader della destra del Zentrum, ex primo ministro e ora alleato di Hitler. Il 30 luglio Kurt Alois von Schuschnigg, ministro di Giustizia del governo Dollfuss, assunse il cancellierato austriaco. Il giorno successivo Otto Planetta e Franz Holzweber, i leader golpisti ritenuti i diretti responsabili della morte di Dollfuss, furono impiccati a Vienna.

La frizione con la Germania fu brusca ed ebbe come conseguenza un riavvicinarsi dell'Italia agli ex alleati della Grande Guerra: prima alla Francia, con il patto Mussolini-Laval del gennaio 1935; poi nel marzo dello stesso anno, in seguito alla denuncia tedesca delle clausole militari del Trattato di Versailles, anche alla Gran Bretagna. Si andò così formando quello che passerà alla storia con l'impegnativo nome di Fronte di Stresa: tra l'11 e il 15 aprile il primo ministro britannico Ramsay Mac Donald, il ministro degli Esteri francese Pierre Laval e Benito Mussolini si incontrarono nell'omonima località piemontese, impegnandosi a non più tollerare violazioni agli accordi di Versailles. Ma fu solo una dichiarazione d'intenti, anche perché per volontà della Gran Bretagna, che con Hitler in separata sede portava già avanti una politica di appeasement, il patto non era esplicitamente diretto contro la Germania.

Il primo colpo al fragile Fronte di Stresa lo darà proprio la Gran Bretagna nel giugno 1935, siglando con la Germania e senza darne notizia un accordo che nei fatti riconosce il riarmo navale tedesco. Il secondo e definitivo colpo fu invece opera dell'Italia, che nell'ottobre dello stesso anno invase l'Etiopia attirandosi il biasimo della Società delle Nazioni. Le sanzioni economiche all'Italia, che la propaganda fascista definirà polemicamente "assedio societario", entrarono in vigore il 18 novembre, quando il Fronte di Stresa aveva cessato di esistere da più di un mese.

Se stessimo cercando il momento esatto in cui i rapporti fra l'Italia di Mussolini e la Germania di Hitler mutarono di segno, potremmo forse trovarlo proprio in questo novembre 1935, o più precisamente nelle conseguenze innescate dalle misure della Società delle Nazioni. Alle sanzioni, peraltro relativamente blande e metodicamente trasgredite, non aderirono l'Austria, l'Ungheria e l'Albania, paesi dell'orbita italiana, e non aderì la Germania, che dalla Società delle Nazioni era uscita nell'ottobre 1933. Al di là del problema austro-tirolese, per il momento latente, nessun altro ostacolo di rilievo si poneva in effetti fra Roma e Berlino. Al contrario, come aveva scritto Hitler nel 1926, vi erano ragioni che dovevano spingere a un avvicinamento: adesso che la Germania era diventata nazionalsocialista e che al pari dell'Italia si trovava in una fase di isolamento internazionale, la sua analisi sulla questione delle alleanze appariva quanto mai attuale.

I due regimi condividevano ora anche molte somiglianze esteriori, al punto che per ridurre il debito di simboli e stilemi accumulato negli anni dallo NSDAP nei confronti del Partito Nazionale Fascista, dal 1933 Hitler si adoperò per favorire un processo di appropriazione (si potrebbe dire "tedeschizzazione") degli insegnamenti mussoliniani. Così, per le strade dove divise e camicie brune erano sempre più numerose, il saluto a mano tesa, prima generalmente indicato come Faschistengruss, divenne il Deutschengruss.

Esemplare di questo "nuovo corso" è il compito che Hitler affidò nel 1933 a Robert Ley: ristrutturare in senso nazionalsocialista l'organizzazione Nach der Arbeit, traduzione fedele fin nella lettera dell'italiana Opera Nazionale Dopolavoro, importata nel 1929 dallo NSDAP nelle proprie strutture di partito. Nacque così, dalle ceneri della versione teutonica del dopolavoro, la Kraft durch Freude, "Forza attraverso la Gioia", destinata a diventare una delle più estese realtà sociali del sistema hitleriano.

In realtà i nazionalsocialisti conservavano ancora nei confronti del fascismo un elemento di distanza ideologica, al quale aveva dato voce fra gli altri lo stesso Hermann Göring negli articoli precedentemente citati. Dopo aver elencato i vari elementi di somiglianza fra nazionalismo e fascismo, l'ammiratore del Duce si soffermava puntualmente sulle diversità, in particolare in relazione al "giudaismo".


Una differenza si manifesta nella soluzione del problema razziale, dal momento che noi consideriamo la lotta contro il giudaismo — in quanto fonte di tutti i mali — come uno dei compiti principali del nostro movimento. Tuttavia anche questa differenza è solo apparente, perché se il fascismo vuole effettivamente portare avanti e realizzare completamente il suo programma, allora dovrà anche necessariamente, presto o tardi, ingaggiare la lotta contro il giudaismo; cosa che del resto è già accaduta con il divieto delle Logge massoniche. Mussolini può anche ripetere di non essere in guerra contro il giudaismo. Sarà il giudaismo ad essere presto in guerra contro di lui.


Per vedere il governo fascista varare le Leggi in difesa della razza Göring dovrà attendere, rispetto alla data dell'articolo, ancora dodici anni. Proprio l'antisemitismo però darà occasione di mostrare quanto l'Italia a sua volta, e in un volgere assai più breve di tempo, sia stata capace di assimilarsi alla Germania, smettendo le vesti del maestro per indossare quelle del discepolo.

Già nella seconda metà del 1935, in concomitanza con la guerra d'Etiopia e l'entrata in vigore delle sanzioni, le relazioni commerciali fra Italia e Germania erano comunque notevolmente aumentate. L'Italia aveva bisogno di materie prime — soprattutto ferro e carbone — che la Germania le forniva volentieri. Poi il 1936 si aprì in una luce nuova: ai primi di gennaio Mussolini comunica all'ambasciatore tedesco a Roma, Ulrich von Hassell di «non avere nulla in contrario al fatto che l'Austria, formalmente libera e indipendente, diventi in pratica un satellite della Germania». È un primo, importante passo indietro su quello che lo stesso Mussolini aveva definito "l'unico problema, ma di basilare importanza" nei rapporti fra Roma e Berlino. Per avvicinarsi a Hitler, Mussolini ora è pronto ad abbandonare Kurt Alois von Schuschnigg, erede dell'ex protetto e assassinato Dollfuss. Lo abbandonerà di fatto pochi mesi dopo, in marzo, quando in seguito alle rinnovate pressioni di Hitler consiglierà al cancelliere austriaco di cedere alle richieste della Germania. E dunque anche su indicazione italiana l'11 luglio von Schuschnigg firma l'accordo austro-tedesco con cui la Germania riconosce pubblicamente l'indipendenza austriaca e segretamente impone, oltre all'amnistia per i nazisti imprigionati per il putsch del '34, la presenza di ministri nazionalsocialisti nel governo. Per von Schuschnigg è il principio della fine, per Hitler il preludio di quell'Anschluss che porterà a termine nel marzo del 1938.

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1938-1939: APICE E DECLINO DI UN "VORTICOSO AVVICINAMENTO"


Scrive lo storico Wolfgang Schieder: «Dalla proclamazione dell'Asse Roma-Berlino a opera di Mussolini il 1° novembre 1936, alla stesura del Patto d'Acciaio nel maggio 1939, fino all'entrata dell'Italia nel patto a tre nel settembre del 1940, fra le due dittature fasciste si svolse un processo di avvicinamento vorticoso che non rimase affatto limitato a un piano puramente diplomatico-militare. La forma di cooperazione transnazionale messa in atto da Mussolini e Hitler portò a un approfondimento di rapporti a livello politico e sociale, nonché sportivo, turistico, economico e culturale, che fino ad allora Italia e Germania non avevano mai conosciuto».

A giudicare dal successivo svolgersi degli eventi viene però il dubbio che questo avvicinamento, ampiamente promosso a livello ideologico-istituzionale e simbolizzato dal rapporto d'amicizia fra i due dittatori, non sia stato accompagnato nel popolo tedesco e in quello italiano da un'analoga spinta in termini di reciproca curiosità e simpatia. Nello stesso NSDAP, soprattutto fra i quadri medio-bassi, la diffidenza verso gli italiani (i "traditori" del '15, gli oppressori delle minoranze tedesche in Alto Adige) non era mai venuta meno. Tanto più questo valeva per la pubblica opinione, i cui umori dal 1938 in poi furono metodicamente registrati e analizzati dalle SS, e che non mancava di esprimersi sull'alleato italiano con scetticismo e non sempre bonaria ironia. Vedremo fra poco come durante i primi anni di guerra, in un momento in cui un'incrinatura dell'Asse era per loro tutt'altro che auspicabile, i "palazzi" hitleriani ebbero il loro daffare per contrastare gli umori anti-italiani montanti dalla strada. Si può dunque pensare che la linea dell'amicizia con l'Italia sia stata per molti tedeschi più accettata che sentita, o forse che se apertura di credito vi è stata essa riguardasse l'Italia fascista di Benito Mussolini e non gli italiani tout court. Per cui, quando fra il luglio e il settembre '43 si venne a sapere quasi tutto della realtà di quest'amicizia, i vecchi pregiudizi ebbero buon gioco nell'affermarsi velocemente e definitivamente come postgiudizi, e la fiducia e la simpatia che erano state concesse nel rovesciarsi in risentimento per la "buona fede" tradita.

Il 1938 è l'anno centrale del processo di cui parla Schieder. L'annessione tedesca dell'Austria in marzo e dei Sudeti in settembre, così come l'annunciato e immediato ritiro delle Brigate Internazionali dal fronte spagnolo, favorirono un'intesa sempre più stretta fra Roma e Berlino. Nell'estate del 1938 poi, dando così piena soddisfazione alle istanze di Göring, l'Italia cominciò ad adottare un'attiva politica antisemita; in settembre verranno emessi i primi tra quei provvedimenti amministrativi e legislativi denominati Leggi in difesa della razza.

Già alla fine del secondo trimestre del '39 i rapporti redatti dal Sicherheitshauptamt, punto di comando in seconda della struttura gerarchica delle SS, sottolineano che "la politica di scambio culturale con l'Italia è al momento caratterizzata da un vivace e amichevole dibattito sullo stato della ricerca razziale in Italia e in Germania». Scrive invece nel suo diario Fey von Hassell, figlia dell'ambasciatore Ulrich von Hassell, come il padre a Roma dal 1932 e ormai buona conoscitrice dell'Italia:

14 agosto 1938: Mussolini tenta di emulare la politica razziale tedesca. Quant'è rivoltante tutto ciò! È completamente assurdo il modo in cui viene creato artificialmente un problema ebraico.

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Pagina 78

Quali pensieri agitassero il governo italiano in quel 1° settembre 1939 lo racconta Giuseppe Bottai nei suoi Diari:


Ore 3 del pomeriggio, Consiglio dei Ministri. Galeazzo mí soffia in un orecchio, prima di entrare: «Tutto si risolve». Mussolini appare, in bianco, pallido. Sediamo. Attacca, subito: «La situazione in parte la conoscete. [...] La nostra posizione è chiara; e fu nettamente definita col Führer: l'Italia non sarebbe stata pronta che alla fine del '42. E spiegai perché. I tedeschi non potevano, per un'eventuale azione prima del '42, darci ciò di cui avremmo avuto bisogno: né nafta, né ferro... Il '42 era per noi termine d'assoluta necessità. Ora, siccome io non voglio passare per un fedifrago, ho telegrafato al Führer perché si assumesse lui dí dichiarare di avere, con l'improvvisa iniziativa, disimpegnato l'Italia da un impegno immediato. Il Führer mi ha subito telegrafato in questo senso». (...] Grandi sottolinea: «Bisogna che noi ci prepariamo, comunque, alla polemica sul tradimento. Ebbene, cominciamo col convincere noi stessi, che, in ogni caso, noi siamo dei traditi, non dei traditori. Così come fummo dei traditi, e non dei traditori, nel 1914». E ripete l'argomento del termine fissato al '42. Io appoggio la tesi, ricordando che il patto con la Russia costituisce un altro atto di tradimento sul terreno ideologico, morale, spirituale.


Dunque, chi ha tradito chi? Gli italiani nel periodo luglio-settembre 1943 hanno tradito i tedeschi, o i tedeschi nell'estate del '39 hanno tradito gli italiani, abusando del Patto d'Acciaio, provocando una guerra in tempi non previsti e infine lanciando un ponte a quello che dell'Asse avrebbe dovuto essere il mortale nemico, senza informarne l'alleato? Oppure sono stati gli italiani, già nella stessa occasione, a tradire i tedeschi venendo meno alla lettera dell'articolo 3 del patto? Questione posta tante volte e su tanti tavoli, che rimanda in generale a una polemica più inespressa che risolta. Erich Kuby sposa senza esitazioni la linea del tradimento tedesco, e si può comprendere; così come si può comprendere che milioni di soldati tedeschi abbiano invece vissuto come tradimento il "passaggio" italiano del luglio-settembre 1943.

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Pagina 168

Per ascoltare la parola del Führer, che avrebbe finalmente fornito una spiegazione esaustiva di quanto accaduto all'Italia fascista e al suo capo, i tedeschi dovranno attendere alcune settimane, fin quando cioè Badoglio non sarà costretto dagli Alleati a render pubblico l'armistizio firmato a Cassibile cinque giorni prima, e a comunicare al popolo italiano e al mondo il nuovo status bellico dell'Italia e del governo da lui presieduto. È la sera dell'8 settembre 1943.

La mattina successiva sulle prime pagine dei principali quotidiani tedeschi, dal Völkischer Beobachter alla Deutsche Allgemeine Zeitung, appare ovunque uno stesso comunicato che fornisce alle testate anche titolo e sottotitoli: Il vile tradimento di Badoglío — L'Italia cede le armi senza condizioni ai nemici dell'Asse — Il governo tedesco era preparato e ha assunto tutte le misure necessarie. Il popolo tedesco viene così a sapere che «Il governo italiano ha offerto la capitolazione senza condizioni delle forze armate italiane. Eisenhower ha accettato la capitolazione e stabilito con l'Italia un armistizio che è stato firmato da un suo rappresentante e da un incaricato del maresciallo Badoglio. L'armistizio è entrato immediatamente in vigore con la sua firma. Fin dal criminale attacco al Duce del 25 luglio e dal putsch organizzato da inglesi e americani per l'eliminazione del governo fascista fedele all'alleanza, il comando tedesco era preparato a questo aperto tradimento dell'attuale governo italiano, e ha perciò già attuato tutte le misure militari necessarie. L'infame tradimento contro i difensori dell'Europa alla fine fallirà, come tutti gli altri analoghi tentativi».

Le notizie sono ancora molto frammentarie e non consentono di farsi un'idea precisa dell'accaduto. In un rapporto licenziato lo stesso 9 settembre, gli analisti del Sicherheitsdienst riferiscono:


I primi giornali del mattino sono stati letteralmente strappati dalle mani dei venditori e le notizie immediatamente discusse per strada o sui mezzi di trasporto. Vengono fatti paragoni con il tradimento dell'Italia nella prima guerra mondiale: "Di quei fratelli non c'è mai stato di che fidarsi", è l'opinione dei nostri connazionali. La notizia che il comando tedesco era da tempo preparato e ha adottato le misure necessarie ha avuto dappertutto un effetto tranquillizzante.


Il 10 settembre sulla prima pagina di Der Angriff appare invece un articolo intitolato Il triplice tradimento, quello operato cioè da Badoglio contemporaneamente ai danni del Duce, del popolo italiano e dell'alleato tedesco. La Deutsche Allgemeine Zeitung titola invece in prima pagina L'uomo senza onore: Badoglio, e scrive: «Ventiquattro ore dopo che il mondo è venuto a sapere del tradimento di Badoglio ai danni dell'alleato e del popolo italiano appare sempre più chiara all'Europa e al mondo quale sia la situazione in cui l'uomo senza onore, Badoglio, ha gettato l'Italia. Ovunque nel mondo l'opinione pubblica ha preso posizione. Nelle fila dei popoli nazionali c'è solo un giudizio sull'8 settembre 1943: questo crimine, che porta il nome di Badoglio e per la seconda volta quello del re Vittorio Emanuele, macchia la storia italiana in modo ancor più indelebile di quanto fece il tradimento del 1915».

Sempre in data 10 settembre suona poi definitivo il verdetto del bollettino di guerra dell'OKW: «Le misure tedesche adottate contro il tradimento del governo Badoglio sono state condotte ovunque — sui Balcani, nell'Italia del Nord e nella Francia meridionale — con pieno successo. La massa delle truppe italiane in questi territori ha già gettato le armi per consegnarle ai tedeschi. Lì dove comandanti italiani, precedentemente informati del tradimento di Badoglio, hanno ordinato e intrapreso la lotta contro i tedeschi, ogni resistenza è stata energicamente e in breve tempo stroncata».

Il regime nazionalsocialista si trova in un momento molto delicato: l'aver perso, ora anche ufficialmente, il più simbolico dei propri alleati, rappresenta una bruciante sconfitta che investe il fronte interno forse ancor più di quello esterno. La propaganda deve dunque mutare drasticamente di segno e il "tradimento", finora negato, diventa la verità ufficiale del regime nazista sull'operato italiano fra il 25 luglio e l'8 settembre 1943. Ciò equivale in sostanza ad ammettere di aver intenzionalmente mentito all'opinione pubblica per intere settimane, e di li a poco toccherà infatti a Hitler spiegare l'accaduto. La rigida univocità implicita nel giudizio di "tradimento" è però diventata a questo punto più un'esigenza del regime che non un riflesso dell'opinione pubblica tedesca. Dalla disfatta di Stalingrado in poi si vanno moltiplicando in Germania coloro che pensano che la vittoria finale non sia in realtà più possibile e che si stia probabilmente andando incontro al più tragico dei destini. Gli stessi osservatori del Sicherheitsdienst sono costretti a registrare che fra gli strati più popolari della società tedesca in molti hanno reagito alla notizia delle "dimissioni" di Mussolini esattamente come gli italiani, e cioè con una gioia legata alla speranza di una prossima fine del conflitto.

Divenuta ora tema di reiterata e velenosa propaganda, la versione ufficiale del "tradimento" cancella queste voci, così come quelle di altri personaggi già incontrati, come Fey von Hassell o Gerhard Nebel. Due figure assai diverse fra loro, e se vogliamo statisticamente poco rilevanti: prova però che nella tarda estate del 1943 fra i tedeschi del Terzo Reich trovava trasversalmente spazio anche una lettura degli eventi ben diversa da quella data dal regime nazista.

Scrive Nebel nel suo Diario il 26 luglio 1943, mentre è di stanza a Sala Consilina, Salerno:


Il grande evento, la caduta di Mussolini, mi ha proiettato in un vero umore da festa. Così una delle origini umane del male, sotto il quale soffriamo, è stata travolta e dilaniata dai carri del destino; e quel che stupisce è la facilità con cui tutto ciò è avvenuto. Nessuno si è opposto, nessuno ha preso le armi, nonostante nel paese ci siano i tedeschi. I suoi paladini sembrano averlo abbandonato e io ne deduco che la situazione militare di Hitler sia ancora più disperata di quanto non appaia.

Nel nostro accampamento circolano naturalmente i vecchi discorsi sulla mancanza di lealtà degli italiani e sulla perfidia dei latini, ma io mi dico che nel comportamento di Badoglio parlano una risoluta furbizia e un senso di responsabilità per il suo popolo. Se una situazione è senza speranza occorre ad ogni costo trovare un modo per tirarsene fuori, e il problema è soltanto che noi in Germania non abbiamo alcun Badoglio a fermare il nostro Duce e farlo sparire».


La notizia dell'armistizio raggiungerà Nebel nella tarda sera dell'8 settembre 1943, mentre il suo reparto si trova a Monte di Leva, nei pressi di Roma.


Ero impegnato in un'interminabile partita a skat, nel corso della quale avevo svuotato due gavette di vino; ed ero così dell'umore migliore quando la notizia dell'armistizio italiano irruppe nella nostra festicciola. Rimanemmo a lungo nell'oscurità a esaminare la situazione. Arrivò anche il maresciallo capo e con aria subdola mi chiese cosa pensavo dello svolgersi degli eventi. Andai allora alla tenda di P. per sentire la radio. Tutti i canali italiani però tacevano e quelli tedeschi, come era da aspettarsi, nascondevano l'evento. Così cercai Radio Londra e nel mentre trovai una trasmissione francese, nella quale c'era una sorella latina che singhiozzando pateticamente ne abbracciava un'altra.

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Diverse e concomitanti furono le ragioni per le quali l'esercito italiano si lasciò disarmare così velocemente. Decisivo fu l'accurato lavoro preliminare di raccolta informazioni e dislocazione delle truppe al quale il feldmaresciallo Rommel si era dedicato, su incarico di Hitler, fin dal 18 maggio 1943. Era l' Operazione Alarico, il cui nome fu mutato in Fall Achse (Piano Asse) dopo i fatti del 25 luglio: nel caso l'alleato fosse venuto meno, le forze armate del Reich dovevano immediatamente procedere al disarmo dell'esercito italiano, alla requisizione della flotta aerea e navale, all'occupazione della parte di penisola non ancora in mano nemica e alla creazione di un nuovo governo fascista che la amministrasse. Man mano che si sviluppavano gli eventi, i comandi tedeschi procedevano nella messa a punto del loro piano. Così, nel momento in cui Badoglio affidava il suo comunicato a un messaggio radiofonico preregistrato, in Italia erano presenti già diciassette divisioni tedesche, mentre altre quattro erano in arrivo: circa 150.000 uomini dislocati sul territorio disponibile riuscirono a conseguire buona parte degli obiettivi prefissati entro il 14 settembre. Secondo il rapporto redatto il 7 novembre dal generale Alfred Jodl, capo di stato maggiore della Wehrmacht, furono catturati 573.000 militari italiani e sottratti al Regio Esercito circa 4.000 velivoli, un migliaio fra panzer e cannoni d'assalto, 10.000 pezzi d'artiglieria e poco meno di 40.000 mitragliatrici. Nel vuoto di ordini e responsabilità di vertice, di fronte alla fuga del re e di Badoglio, della corte e dello stato maggiore, le forze armate italiane si frantumarono in un modo che ha fatto storia.

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CONVERSAZIONE CON RUDOLF H.



Costituita a Vienna subito dopo l' Anschluss, il 1° aprile 1938, la 44° Infanterie-Division della Wehrmacht era in origine composta prevalentemente da elementi austriaci, fra i quali soldati di leva e volontari entusiasti del nuovo corso nazionale. Nella campagna di Polonia la divisione ebbe la prima occasione per distinguersi, rivelandosi capace di avanzate così rapide da sorprendere gli stessi comandi tedeschi; dal maggio 1940 combatté sul Fronte occidentale, dove ai primi di giugno sostenne con successo sul fiume Avre alcuni fra gli scontri più sanguinosi dell'intera campagna.

La sua permanenza in Francia durò fino al marzo 1941, quando in vista dell'imminente Operazione Barbarossa la divisione fu trasferita a Est e sottoposta a un intenso periodo di addestramento. In giugno, aggregata alla 6° Armata e destinata al settore meridionale del fronte, la 44° Infanterie-Division mosse verso Kiev, Ucraina; qui per quattordici mesi consolidò la sua fama di truppa d'élite, avanzando e resistendo ai contrattacchi sovietici che si facevano ogni giorno più severi. Nell'agosto 1942, quando sembrava che Stalingrado dovesse presto cadere in mani tedesche, alla divisione fu dato un fatale cambio di destinazione: invece di muovere verso il Caucaso, come stabilito, dovette raggiungere al più presto le truppe di Friedrich von Paulus e sostenerle nella definitiva conquista della città sul Volga. Le cose andarono però diversamente. Negli ultimi giorni del gennaio 1943, quasi decimata al termine di sei mesi di incessanti combattimenti, la 44° Infanterie-Division cessò una prima volta di esistere. Causa i grandi meriti bellici e la conseguente sua pubblica notorietà, l'Alto Comando tedesco aveva però già stabilito che la divisione dovesse essere ricostituita e potesse anzi presto fregiarsi del titolo d'onore Reichsgrenadier-Division "Hoch- und Deutschmeister". A riempire le sue fila, oltre ai pochi sopravvissuti, contribuirono reparti sbandati del Fronte orientale, giovani di leva e feriti richiamati non appena conclusa la convalescenza. Fra questi ultimi c'era anche il tenente Rudolf H., il nostro interlocutore.

Nato nel 1922 a Gestungshausen, in Franconia, Rudolf H. fu chiamato alle armi nell'ottobre 1940 e successivamente inviato in Belgio per il corso addestramento reclute. Come soldato semplice del 95° reggimento, 17° Divisione di fanteria, Gruppo d'Armate Mitte, il giovane Rudolf partecipò fin dal primo giorno all'invasione dell'Unione Sovietica. Le schegge di una granata lo feriranno nel marzo 1942, procurandogli una convalescenza in patria che si prolungò in un corso allievi ufficiali a Baverloo, in Belgio. Nominato tenente all'inizio del 1943, in maggio Rudolf ebbe l'ordine di aggregarsi alla 44° Infanterie-Division, in via di ricostruzione.

«La divisione era famosa ma io non ero affatto il tipo del soldato — racconta Rudolf, oggi novantaduenne. — La cosa più complicata era sparare, perché a causa della mia miopia non riuscivo a mettere a fuoco i bersagli. "Fesso di uno studente" divenne così un epiteto per me abituale, durante le prime fasi di addestramento. Se sono diventato tenente è solo perché in Russia, fra gli ufficiali, ci furono da subito perdite gravissime. Così chi aveva preso la maturità ricevette i gradi quasi d'ufficio, dopo un breve periodo alla scuola di guerra. Posso dire che non ho mai superato un esame con altrettanta facilità».

Dopo un breve periodo di addestramento in Belgio, interrotto anzitempo dalla caduta di Mussolini, la 44° Reichsgrenadier-Division "Hoch- und Deutschmeister" venne inviata in Italia, dove arrivò fra la fine di luglio e l'inizio di agosto del 1943. Fra l'8 e il 9 settembre, la divisione prese prigionieri circa 50.000 militari italiani; i due mesi successivi la videro invece impegnata contro i partigiani di Tito nella zona fra Leibach e Trieste. Il 21 novembre, infine, l'unità mosse verso il Sud Italia, direzione Cassino. Nella violentissima battaglia che fra gennaio e maggio 1944 infuriò intorno alla cittadina laziale e alla sua abbazia, la "Hoch- und Deutschmeister" pagò di nuovo un fortissimo tributo fra morti, feriti e prigionieri.

Anche il tenente H. cadde nelle mani degli Alleati: «Mi presero la mattina del 7 gennaio 1944 su Monte La Chiaia, l'ultimo bastione difensivo prima di Cassino, a circa otto chilometri dalla città — racconta — e questo probabilmente mi salvò la vita. Rimasi prigioniero degli americani fino al 1946».

La nostra conversazione avviene nel maggio 2010 a Heilsbronn, un paese nei pressi di Norimberga dove da alcuni anni Rudolf vive con la moglie in un luminoso residence per anziani. Allegro, spigliato, mi accoglie cordialmente e pone una sola condizione. «Parlo molto volentieri con lei di quegli anni, ma non voglio essere esplicitamente citato. Per favore, dica un testimone. Solamente un testimone». E sorride, mettendo in tavola un vassoio con caffè e pasticcini.

«All'inizio del luglio '43 — racconta il tenente H. — mi trovavo con il mio reggimento (il 134° Fanteria, divisione "Hoch- und Deutschmeister") nel campo di Soissons, in Piccardia, per un periodo di esercitazioni. A causa dello sbarco alleato in Sicilia però le manovre vennero presto interrotte. La nuova situazione richiedeva un impegno immediato sul Fronte meridionale; così a bordo di treni militari 2.500 soldati scesero a Sud, passando per Reims, Metz, Saarbrücken, Ansbach, Monaco e Rosenheim. La nostra unità era diretta in Sud Tirolo e quando attraversammo Innsbruck per raggiungere il Brennero fu quasi una marcia di trionfo: le strade erano piene di gente in festa che ci offriva cibo, bevande e fiori. Ma già a fine luglio le nostre prospettive cominciarono a incupirsi. Durante un pernottamento a Matrei venimmo a sapere dalla popolazione locale della caduta e dell'arresto di Mussolini; si diceva che Badoglio avesse già aperto trattative con gli angloamericani giù in Sicilia. Per il morale dei soldati fu un brutto colpo, soprattutto per i camerati austriaci. Non ci trovavamo più tra alleati in difficoltà, dicevano, ma tra perfidi traditori. Ed erano in molti, fra i notabili del luogo, quelli che venivano a ricordarci la questione del '15.

Di resistenza comunque in Italia non ne trovammo, solo un atteggiamento freddo e distante da parte dei funzionari italiani e delle loro famiglie. E l'arrivo al Brennero fu già una delusione: la polizia e le guardie di frontiera italiane non ci guardarono neppure in faccia. Ricordo che avevano il berretto completamente calato sul viso. Un modo per dirci: di certo non siete benvenuti. E in giro era la stessa cosa: le finestre delle case erano tutte chiuse, nessuno sulla porta o per strada. Ovunque lo stesso messaggio: "non avete nessun motivo per essere qui". E di fronte a questo scenario, a me venne da pensare che le cose non potessero finire bene.

Per i sudtirolesi invece eravamo dei liberatori. Ci raccontavano dei raggiri subiti dagli occupanti italiani. Una sera, mentre eravamo accampati intorno a Steinach, fra Innsbruck e il Brennero, venne da noi un contadino che avrà avuto sessant'anni, e che a me allora parve molto anziano. Era stato soldato nella Prima Guerra, e ci raccontò dei combattimenti sull'Isonzo e sulle Dolomiti. Poi ci disse: "Cari ragazzi, state andando incontro a una situazione difficile. Probabilmente state per vivere quello che noi abbiamo già vissuto nel '15. Speriamo che non si ripeta oggi ciò che è accaduto allora, quando l'Italia ci abbandonò".

Devo dire che all'inizio ero perplesso: le sue parole mi sembrarono quasi una forma di istigazione. Come facevano i sudtirolesi a parlar così male di quella che era tutto sommato la loro gente? E i rapporti tra tedeschi e italiani erano comunque antichi: pensavo a Carlo Magno, ai cavalieri crociati che insieme agli italiani si erano recati in Terrasanta, a Federico II, agli affreschi di Tiepolo nella Residenza di Würzburg... Com'era possibile che da un giorno all'altro le cose fossero tanto cambiate?».


Che idea si era fatto dell'Italia negli anni precedenti alla guerra?

«A scuola ci veniva insegnato che avevamo bisogno di un alleato, di un paese amico con il nostro stesso orientamento politico. Poi nel 1933, con l'avvento al potere di Hitler, si aprì la strada che dal Führer portava al Duce. Nel '34 in realtà ci fu qualche tensione con l'Italia per via dell'Austria e noi studenti pensammo subito che l'amicizia italo-tedesca fosse artificiale, destinata a finire presto. Poi invece vennero il '38 e la guerra di Spagna, e i rapporti si rafforzarono al punto che si cominciò a parlare di Asse, di Patto d'Acciaio. Pensammo allora che in fondo le liti sull'Austria dovevano essere state di poco conto, di quelle che capitano in genere fra amici; la conferma arrivò nel 1940, quando Mussolini entrò in guerra a fianco di Hitler contro la Francia. Dunque il nostro legame con l'Italia era proprio una cosa seria!

Iniziò poi la guerra d'Africa. A Tobruk ed El Alamein soldati italiani e tedeschi combattevano e morivano insieme. Durante quelle battaglie mi trovavo già in Russia e ricordo che come i miei camerati guardavo con attenzione a quanto accadeva sul fronte libico, alle gesta di Rommel e alla sua collaborazione con Gra- ziani. Eravamo ormai certi che l'Italia fosse la nostra vera alleata».


In Italia lei è arrivato alla fine del luglio '43, subito dopo la destituzione di Mussolini. Cosa avete pensato, lei e i suoi commilitoni provenienti dal Fronte orientale, dello sbarco alleato in Sicilia?

«In realtà cominciai a saperne qualcosa solo verso l'inizio di agosto, quando a Bressanone incontrai una famiglia siciliana che era fuggita dall'isola per cercare rifugio al Nord. In un tedesco molto frammentario queste persone mi raccontarono che le truppe italiane avevano combattuto pochissimo, che i soldati si ritiravano e in molti casi si consegnavano spontaneamente agli americani. Ricordo che noi in quel periodo ci chiedevamo perché ci tenessero fermi al Nord invece di mandarci nel Meridione, dove senza dubbio avremmo potuto essere subito impiegati. Invece restavamo in Sud Tirolo, dove ci sentivamo ripetere di continuo questa storia del '15, che per noi era tutto sommato un fastidio: eravamo arrivati con l'idea di aiutare le truppe italiane e ci trovavamo invece ad ascoltare di continuo le lamentele sobillatrici della gente del posto.

Tornando alla Sicilia, venimmo via via a sapere — grazie ad alcuni profughi e anche ai sudtirolesi, che disponevano di mezzi d'informazione di cui noi soldati eravamo privi — che in Sicilia gli italiani avevano combattuto poco e che la difesa dell'isola era stata faccenda soprattutto tedesca. Per noi cominciò un periodo di crescente delusione: pensavamo di esser lì per affiancare gli italiani contro un'aggressione nemica, che poi avremmo respinta insieme, e invece... I commilitoni con i quali ero più in confidenza mi chiedevano spesso: "Tenente, perché siamo qui?". Ricordo che una volta un soldato mi disse: 'Se le cose devono andare così, allora sarei rimasto più volentieri in Russia'. Una grossa delusione, sì, che i sudtirolesi si preoccupavano di alimentare riportando voci di ogni tipo, e che poi culminò dopo i fatti dell'8 settembre».


Che ricordi ha di quel giorno?

«Un 'oppressione dell'animo. E un'inverosimile rielaborazione da compiere in fretta e furia: improvvisamente da fratelli d'armi diventavamo truppe d'occupazione. Un cambiamento di ruolo per cui — se posso dirlo — provavamo una certa rabbia. Fu una reazione umana, psicologica, che alla fine esplose».


Con i soldati, con gli ufficiali, commentavate la situazione?

«Ricordo che una volta parlai dell'armistizio con un tenente austriaco, e lui mi disse che se lo aspettava da tempo. Con i soldati semplici preferivo non parlarne. Dovevo essere prudente, anche in quanto comandante di un plotone. Non sapevi come potessero essere interpretate le tue parole e il rischio di incontrare un Giuda che andasse poi a riferire alla Gestapo c'era sempre. Anche come ufficiali si era comunque sotto lo sguardo della Gestapo.».


Nei due anni circa di occupazione tedesca dell'Italia furono compiuti, come saprà, diversi eccidi ai danni della popolazione civile. Si possono collegare con la rabbia di cui lei ha parlato?

«Non posso dirle granché a riguardo. Di certi fatti accaduti in Italia ho letto per la prima volta nel 1945, nell'edizione del Milwaukee Post per prigionieri tedeschi. Non ci è sembrato un modo corretto di fare la guerra, ma onestamente non ci abbiamo pensato molto. Eravamo prigionieri in un campo americano, non più soldati. Di quegli eventi non parlammo molto fra noi».


Leggendo il suo manoscritto "Lebenserinnerungen" si ha l'impressione che per voi soldati sia stata quasi una liberazione essere fatti prigionieri, e che in seguito siate stati trattati abbastanza bene.

«Sì, gli americani si comportarono con noi in modo corretto. Non posso veramente dire altro di loro. Certo, per oltre due anni non avemmo molto da fare...».


Subito dopo il Proclama Badoglio le truppe tedesche cominciarono a disarmare e imprigionare i militari italiani, deportandone buona parte in Germania. Sul terreno, fra le divisioni impegnate, c'era anche la "Hoch-und Deutschmeister". Che ricordi ha di quei giorni?

«Ricordo che prima di eseguire l'ordine di disarmo ci furono ore di forte tensione. Io ero un giovane ufficiale, avevo ventun anni, e avevo ricevuto l'ordine di disarmare una caserma italiana. Non sapevo cosa sarebbe successo: avrebbero sparato? E noi avremmo dovuto sparare? Eravamo a Bressanone ed era proprio l'8 settembre. Le cose, comunque, andarono così: il comandante di compagnia ci aveva affidato l'incarico di catturare un gruppo di militari italiani che aveva abbandonato la caserma e si era rifugiato nei dintorni. Durante la notte dovevamo portarci in alto, sul declivio della montagna, per poi passare all'azione a fondovalle alle prime luci dell'alba. Il mio plotone era stato assegnato a una compagnia di fucilieri, in funzione di rinforzo, con il compito di fornire fuoco di copertura dall'alto mentre i fucilieri scendevano per fermare e disarmare gli italiani. All'ora prestabilita abbiamo aperto il fuoco sparando non tanto a valle, quanto verso la montagna antistante, a mezza costa, così da dissuadere gli italiani da un eventuale tentativo di fuga. Giù in basso però i nostri fucilieri non trovarono nessuno, solo i resti di un accampamento deserto.

Venimmo a sapere poi che i soldati italiani si era effettivaniente rifugiati in quella valle, come ci avevano detto gli informatori altoatesini, ma erano fuggiti in tempo. Personalmente, fui contento che le cose fossero andate così. Ricordo che mentre tornavo indietro mi venne incontro un altoatesino: "Guardi! — mi disse — In quella casa c'è un ufficiale italiano!". Andai e trovai effettivamente un ufficiale italiano che si era nascosto lì con la moglie; con tono che a ripensarci oggi mi sembra troppo duro, gli chiesi come mai non fosse rimasto in caserma, dato il chiaro appello via radio in tal senso. L'uomo mi seguì senza fare resistenza e a quanto ho saputo, almeno nella zona in cui io mi trovavo, le cose andarono per lo più in questo nodo: senza spargimenti di sangue, il che è la cosa più importante».


Dai suoi commilitoni sentiva usare spesso parole come "tradimento" o "traditori"?

«Sì molto spesso. Comunque, prima di essere assegnato al fronte di Cassino fui inviato a Mantova, dove rimasi alcune settimane. Era nata da poco la Repubblica di Salò e proprio a Mantova in quei giorni si andava riorganizzando il primo reggimento italiano, composto naturalmente da fascisti fedeli a Mussolini. In ogni caso, dato che avevo studiato un po' di latino venni nominato ufficiale di collegamento con questo reggimento in ricostruzione, e devo dire che la collaborazione fu buona. Professionale e tranquilla. Una volta venne da me il comandante fascista e mi disse che alla stazione c'erano molti soldati italiani che stavano per essere deportati in Germania. Andammo insieme alla stazione e dopo un lungo colloquio con il comandante tedesco del convoglio riuscimmo ad ottenere la liberazione di alcuni di loro. Erano soldati di provata fede fascista, assicurava l'ufficiale italiano, e lui era pronto a garantire per loro. Certo, si può dire che in quell'occasione aiutai dei fascisti; in quel momento però la cosa più importante mi sembrava poter dare una mano, poter risparmiare a qualcuno l'esperienza della prigionia... Nel contesto della guerra lo sentivo come un compito umanitario e lo svolgevo più volentieri di qualsiasi altro.

Quello di Mantova fu il periodo più bello della mia permanenza in Italia, anche perché oltre ai compiti militari ne avevo alcuni di natura civile, e quindi ero spesso in contatto con i sindaci e con le varie autorità locali. Sempre a Mantova, poi, ebbi occasione di conoscere personalmente una delle figure mitiche di quella guerra: un giorno fui convocato al Comando tedesco e rimasi assai sorpreso nel constatare che a volermi parlare era il feldmaresciallo Erwin Rommel. Al corrente del fatto che lavoravo all'organizzazione del nuovo reggimento italiano, Rommel voleva sapere come potessero a mio avviso essere impiegati quei soldati. Risposi che pensavo soprattutto a incarichi dietro le linee di combattimento, perché al fronte si sarebbero trovati a scontrarsi con fratelli italiani. Così avanzai qualche proposta: servizio sorveglianza prigionieri, compiti di rifornimento, trasporto armi e strumentazioni militari. Per quanto riguardava i prigionieri, Rommel disse che aveva già avuto esperienze poco positive e così la proposta fu subito respinta. Sul resto il feldmaresciallo non si espresse, il che a mio avviso significava: "Giovanotto, lei non ha del tutto torto"».


Che idea avevate, lei e i suoi commilitoni, della Repubblica di Salò?

«Se non ricordo male a Verona, nel novembre 1943, Galeazzo Ciano venne condannato a morte dal suocero. Pensai allora che anche la nuova repubblica non era stata costruita su buone basi, e che ciò che nasce da certe necessità non ha futuro. Io personalmente dopo l'esperienza di Mantova non ebbi altri rapporti con quegli ambienti. Per quanto riguarda in generale i soldati tedeschi, va detto molto sinceramente che in quel periodo pensavano soprattutto a bere e mangiare. Voglio dire: pensieri profondi non ne facevamo, né ci interessavamo più di politica: nessuno sguardo avanti o indietro, solo il "qui e ora". Bere un buon bicchiere di vino, mangiare un piatto di pasta o una pizza, stare per un po' lontani dal fronte: queste erano le priorità. Si può dire che pensavamo in modo molto primitivo».


Prima di allora i soldati tedeschi avevano dunque ragionato in un modo che potremmo definire più "politico"?

«Sì. Ma ora tutto si era ridotto a questo godere, a questo far nulla, allo stare lontano dai pericoli, badando solo ed esclusivamente ai propri compiti. Va da sé che El Alamein e Stalingrado avevano avuto il loro peso in questo cambiamento. Dopo Stalingrado e la scomparsa di un'intera armata, una gran parte di noi soldati aveva compreso che l'esito della campagna di Russia era stata la svolta della guerra. Noi avremmo perso. Non ci era permesso parlarne, neppure tra di noi, ma era chiaro: eravamo alla fine. E l'Italia fu per certi versi, per me almeno, il secondo punto di svolta, la pesante conferma».


Accanto al giudizio di "tradimento", che come lei confermava poco fa era molto diffuso, c'era fra i tedeschi anche una qualche forma di comprensione verso il comportamento italiano?

«Tra me e me — perché queste erano cose che non si potevano dire in nessun modo — pensai che il passo italiano, politicamente parlando, non fosse stato il peggiore possibile. Voglio dire: tu, uomo politico, in una situazione in cui vedi chiaramente che la guerra è persa, non agiresti allo stesso modo? Invece a noi tedeschi si diceva: non fa niente se dobbiamo arretrare per miglia e miglia, dietro ci sono le armi segrete! Ecco, quella fu un'autentica campagna di istupidimento, e non l'unica! Dell'argomento comunque parlai una prima volta con i commilitoni quando eravamo già in prigionia, a Orano. Lì al campo si poteva parlare. Una sera ci fu una lunga discussione sulla questione italiana e sulle sue conseguenze. Tempo dopo poi, quando ero già prigioniero a Crossville, nel Tennessee, con due commilitoni con cui ero molto in confidenza tornai sulla questione più volte: trovavamo che sia il comportamento dell'Italia che la sconfitta della Germania fossero giusti. Dicevamo anche: 'Speriamo di non essere i vincitori di questa guerra. Altrimenti, bang-bang!».


In Istria, a quanto ho letto, la sua divisione è stata impiegata anche nella cosiddetta "Bandenbekämpfung", la lotta contro le formazioni partigiane di Tito. E in Italia? Siete entrati in contatto anche con i partigiani italiani?

«No, con i partigiani in Italia non abbiamo mai avuto contatti. La prima volta che ne sentii parlare fu durante il viaggio verso Montecassino. Eravamo in Toscana, e il treno si fermò perché più in là stavano bombardando Arezzo. A un certo punto arrivò un carabiniere sudtirolese, dicendo che potevamo essere contenti di esserci fermati lì, perché quello era un posto tranquillo. Unica cosa, dovevamo stare attenti ai partigiani: "Da queste parti ce ne sono parecchi!". Noi venivamo dalla Russia, dove di partigiani ce n'erano davvero moltissimi; il treno ripartì e ai partigiani non pensammo più. Solo molto tempo dopo sentii di nuovo parlare di loro, in riferimento alla morte di Mussolini e della sua compagna, di cui ebbi notizia dall'edizione tedesca del Milwaukee Post nei primi di maggio del 1945. Il giornale diceva che la Resistenza italiana aveva messo in campo forze importanti e aveva così contribuito ad abbreviare la guerra».


Negli anni del dopoguerra si parlava in Germania dell'8 settembre 1943 e in generale della vicenda italiana?

«In Germania non mi è mai capitato di sentirne parlare. Anzi, a dirla tutta, è la prima volta che qualcuno mi pone delle domande su quei fatti».


Secondo lei, perché tutto questo silenzio?

«Penso che una delle ragioni sia stato il desiderio di lasciarsi tutta quella storia alle spalle il più velocemente possibile. Nel 1946, quando sono tornato in Germania, la ricostruzione e direi l'esistenza erano le priorità assolute. Il paese era distrutto, non c'era lavoro. Sopravvivere nel presente era certo più importante che occuparsi del passato».


Nel campo di prigionia lei ha detto di aver conosciuto commilitoni che avevano combattuto in Africa con gli italiani. Che immagine avevano questi soldati dei loro ex alleati?

«Tutti quelli con cui parlai nel campo di prigionia di Crossville erano rimasti ben impressionati da questa fratellanza d'armi, dal rapporto del dare e avere con i camerati italiani, che spesso si basava sulle cose più semplici e necessarie, come l'acqua. La disponibilità degli italiani, la loro generosità, avevano colpito tutti».


Erwin Rommel sosteneva che una cosa erano i soldati italiani, tutto sommato "buoni", e un'altra gli ufficiali, nel complesso "cattivi". Lei e i suoi commilitoni condividevate questo punto di vista?

«Mi viene in mente quello che mi disse una volta un compagno di prigionia, un soldato del Genio militare che aveva lavorato alla costruzione della ferrovia di Bengasi. Mi raccontò che fra i soldati e gli ufficiali italiani c'era una grossa differenza, usò anzi il termine "forbice": mentre i soldati se la cavavano con pochissimo, a volte con meno dello strettamente necessario, gli ufficiali pretendevano comodità che al fronte erano alquanto fuori luogo. A Bengasi, poi, aveva visto i soldati italiani lavorare con lui alla tratta ferroviaria, mentre gli ufficiali se ne stavano sdraiati a fare assolutamente nulla. Una disparità di condizioni e di trattamento che a un militare tedesco non poteva non apparire quantomeno sorprendente».


Quando lei era in Russia ha avuto modo di sentire pareri sull'affidabilità delle truppe italiane?

«Sono stato in Russia per dieci mesi, ma gli italiani erano sul settore meridionale del fronte, mentre io ero in quello centrale, che andava da Varsavia a Mosca. Contatti diretti con loro non ne ho perciò mai avuti. La sola voce che recepii si collegava alla vicenda di Stalingrado: si diceva che agli italiani era stato dato il compito di tenere un fianco, ma che non lo avevano difeso come si aspettava il comando tedesco. Così i russi riuscirono a passare, creando la sacca in cui poi scomparve la 6° Armata. Dev'essere accaduto prima della vera e propria battaglia di Stalingrado, a ovest della città. Di più io non so».

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CONVERSAZIONE CON HILMAR D.



A San Giovanni in Persiceto rimanemmo tre giorni. Tutto ciò che ci ricordava la Russia sparì dentro valige, casse e pacchetti e venne spedito a casa. Ricevemmo le divise gialle tropicali, quelle con cui si era combattuto in Africa, con tanto di elmetti coloniali. Dopo averli portati in testa un paio di giorni tutti orgogliosi, li buttammo nella spazzatura. Chincaglieria, nient'altro.

Anche Dunja, Maria e Tanja vissero una loro metamorfosi. Dalla Russia avevamo riportato otto ragazze, che si erano aggregate alle truppe come nostre Hiwis e da anni come aiuto-cuoche contribuivano molto al nostro benessere. Le avevamo portate fin giù in Italia, più o meno di nascosto. Ora però dovevamo separarci, l'esercito voleva così. Dunja, Maria e Tanja erano ragazze perbene, non come certe che pur ci sono. Almeno erano monogame. Ora però il sogno era alla fine ed era il momento delle lacrime. Le ragazze ebbero però fortuna: riuscimmo a impiegarle in un ospedale italiano e dopo un mese erano tutte e tre sposate con dei bravi uomini italiani. Così, come il bruco si trasforma in farfalla, le nostre "Panienkas" emersero dall'ovatta russa e si ornarono di leggerissimi vestitini italiani, moda all'ultimo grido. E come erano carine, quelle ragazzotte rotondette con quei vestitini colorati...

Il 4 giugno lasciammo San Giovanni in Persiceto e rotolammo, per così dire, a Sud. Senza le batterie al seguito (di treno in treno erano arrivate nei pressi di Bologna, ma si muovevano per conto loro) il nostro camion si arrampicava sulle strade scoscese del Passo della Futa. Poi scendiamo a Sud, verso Roma, e la sete di Sud già ci travolge. Ci scuoterà l'anima, se ancora ne abbiamo una. Lo sapete che siamo diventati lanzichenecchi? Briganti e saccheggiatori? Ora viviamo sulla pelle quello che da ragazzini cinguettavamo all'aria aperta, senza capire: le canzoni dei vecchi lanzichenecchi. Ascoltatele.

Wir zogen vor Friaul da hatten wir allesamt gross Maul.

O anche:

    Tutti i fiori erano rossi
    Tralalà Tralalà
    Caldi come il taglio della morte...

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