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| << | < | > | >> |IndicePremessa di Angelo Pezzana Omosessuale per sempre 3 Mi ricordo 5 Nomi 37 Le parole e i gesti 121 Modernità 137 Israele 165 Movimento gay 185 Politica, elezioni, partiti 197 Omofobia 208 Delitti, vittime, carnefici 239 Marchette 254 Le leggi 260 Amore 272 Indice dei nomi 277 |
| << | < | > | >> |Pagina 3Premessa
Omosessuale per sempre
La domanda è impegnativa e tuttavia ineludibile: esiste un'identità omosessuale? Messa in questi termini, senza pluralità o sfumature, la risposta potrebbe essere negativa. L'identità, però, è qualcosa di più complesso di un'appartenenza e più articolato di una rigida identificazione con una categoria o con un comportamento. L'omosessualità è passata lungo i secoli dalla negazione assoluta con la conseguente condanna a seconda del tipo di tribunale, fino al contemporaneo riconoscimento esplicito. Non c'è da stupirsi se uno stigma che ha attraversato millenni di storia umana abbia lasciato una così potente traccia di sé. Anche se figli del nostro tempo, abbiamo ereditato culture che hanno contribuito a costruire quella modernità che chiamiamo società civile. Il mio essere omosessuale, in un Paese occidentale del terzo millennio, non può prescindere da quella che è stata la vicenda di milioni di altri miei simili che mi hanno preceduto e questo mi spinge a cercare di capire in quali contesti hanno vissuto, quali erano le leggi e i costumi che hanno governato le loro vite, come ha potuto svilupparsi e solidificarsi un'ostilità che, pur non essendo mai riuscita a escludere l'amore dal nostro destino, ha però impedito il naturale esprimersi di una sessualità che per altro nulla aveva di asociale o di distruttivo nei confronti di quella prevalente. Anni fa in Dentro & Fuori (1995) ho voluto raccontare quello che era stato il percorso identitario che aveva segnato la mia avventura umana e politica. Era mia intenzione scrivere un'autobiografia che si muovesse tra il privato e il pubblico e nella quale ricordare i passaggi più significativi della mia vita di attivista. Un libro nato dall'urgenza di comunicare agli altri come un giovane omosessuale, negli anni in cui diventa adulto, senta l'imperiosa necessità di vivere senza ipocrisie e l'esigenza di combattere l'odio e l'ignoranza di una società che avrebbe voluto costringerlo alla clandestinità. Riflettendo sui significati della mia identità omosessuale, che non solo ho sempre accettato ma che è stato l'obiettivo più significativo di tutta la mia battaglia politica, con il trascorrere degli anni ho incominciato a percepire l'esigenza di raccogliere idee e pensieri legati al ricordo del passato o a fatti della vita quotidiana. In questi ultimi anni ho tenuto un diario nel quale ho annotato quella parte della mia vita che va sotto il segno dell'omosessualità. Senza alcuna ambizione enciclopedica, ho raccolto quelle che abitualmente vengono rubricate come storie di varia umanità. Partendo da alcuni ricordi d'infanzia, ho cercato di capire quanto la mia esistenza sia stata influenzata – qualcuno, maliziosamente, potrebbe dire condizionata – dal mio essere omosessuale. E a dire il vero non ho alcun problema ad accettare il verbo 'condizionare' se con questo riconosco quanta parte della mia esistenza sia debitrice alla mia omosessualità. Ho ricordato, nel bene e nel male, personaggi pubblici e altri ignoti, questi ultimi per me ancora più essenziali dei primi. E poi la politica, le leggi, il movimento gay, il lessico che ancora ci manca, il cinema, le marchette e Santa Madre Chiesa. Ho voluto raccontare anche un Paese che amo, Israele, e ho tentato di cogliere i segni più significativi della nostra epoca che presto o tardi è destinata a mutare i contesti sociali nei quali viviamo. Ho anche tentato di descrivere la parte oscura del nostro vissuto connessa con i delitti e l'omofobia per concludere poi con un inno all'amore. Before I forget, prima che dimentichi, era il titolo dell'autobiografia di James Mason uscita anni fa. Un titolo che ha ispirato queste pagine, queste storie, questi pensieri e queste identità svelate e da condividere. Un'opera aperta e un diario che continua. Angelo Pezzana | << | < | > | >> |Pagina 5Mi ricordoUn funerale Il pensiero di morire non mi ha mai spaventato. Anzi, ho sempre trovato la morte un argomento interessante. Credo di aver redatto il mio primo testamento, sia pure rudimentale, ai tempi del liceo e ho cominciato a interessarmi all'aldilà quando ho capito che il vero problema era l'aldiquà. Non mi piace definirmi ateo perché nutro una certa curiosità nei confronti di chi professa una religione e mi interessa molto sapere del rapporto che queste persone intrattengono con il proprio Dio. Ritengo però tutto ciò un fatto squisitamente privato e continua a sembrarmi insopportabile l'ingerenza delle istituzioni ecclesiastiche nella vita civile, nella mia in modo particolare. Della morte, insomma, mi viene da parlarne con assoluta tranquillità. L'unico aspetto che mi ha sempre disturbato era immaginare il mio funerale, durante il quale mi vedevo presente fisicamente ma impedito a dire la mia. Questo sì, mi dispiaceva. Pur sapendo che comunque andrà a finire così, ho voluto precedere quella che sarà la cerimonia vera e propria con una organizzata da me, secondo quanto mi piacerebbe venisse fatto se a dirigere il mesto evento fossi io, vivo e vegeto e in grado di dare le opportune istruzioni. Il che, detto francamente, renderebbe quel rito tutto tranne che mesto. Si era nel 2003 e ho atteso che si avvicinasse una domenica autunnale di sole tiepido e di leggera brezza, giornata ideale per una gita con gli amici, prima di spedire una quarantina di inviti in cui chiedevo di partecipare al mio funerale. Visto che la mia famiglia viene da Bianzè, un paese nella provincia di Vercelli, è lì che si trova la tomba di famiglia. Dopo aver chiesto il consenso a mio fratello – anche perché in quel luogo silenzioso, oltre a me, è destinato anche lui – ho studiato come avrei voluto congedarmi da questo mondo. Nell'invito ho pregato gli amici di indossare qualcosa di bianco e di azzurro perché mi piaceva l'idea che a dominare fossero i due colori della bandiera israeliana. Ho unito una mappa stradale per indicare la strada più rapida per arrivarci – il cimitero è infatti un po' fuori dal paese – e ho chieo, come usa, che fosse confermata la presenza. Qualcuno ha creduto fosse uno scherzo ma l'appuntamento a fine cerimonia in un ristorante non lontano per celebrare l'evento con una ottima 'panissa', un piatto tradizionale vercellese a base di riso, ha convinto gli incerti che facevo sul serio. Sono andato dal marmista che esegue le iscrizioni funerarie e non potendo mettere per ovvi motivi la data della dipartita, gli ho chiesto di scolpire la scritta "vivrà in eterno", frase che, dopo la data di nascita – quella sì precisa – lasciava aperta ogni possibilità. Ho scelto caratteri molto classici da applicare sul marmo e l'ho pregato di fare una doppia iscrizione: una in italiano e una in ebraico. Tra il nome e il cognome ho fatto applicare una piccola stella di Davide in argento e smalto azzurro, per far sorgere nell'ignaro passante qualche assillante domanda. Mentre eravamo riuniti davanti alla tomba, in una calma se non religiosa quantomeno cimiteriale – credo che fossimo i soli presenti – è risuonata alta e sonora la voce di Barbra Streisand che intonava "Avinu Malkenu", che in ebraico vuol dire "Nostro Padre, Nostro Re". Chi l'ha ascoltato anche una sola volta sa cosa significhi essere posseduti da una forte emozione e da un groppo alla gola. Poi è stata la volta di Nat King Gole con "Nature Boy", canzone malinconica ma pure sempre romantica, nella quale mi ero riconosciuto da ragazzo: "There was a boy, a very strange enchanted boy. They say he wandered very far, very far over land and sea... ". Atmosfera completamente diversa al ristorante. La tristezza della funzione aveva lasciato il posto all'allegria e il mio amico Gianni Farinetti, armato di cinepresa, ha raccolto i commenti dei convenuti sul caro estinto. Qualcuno è stato sincero e il tono generale è stato di rimpianto, proprio come accade nei veri funerali. Quando la morte si presenterà alla mia porta, mi consola il pensiero che il più è già stato fatto. Manca solo la cremazione, ma per questo ultimo atto mi pare conveniente attendere. | << | < | > | >> |Pagina 7La prima voltaHo incominciato a chiedermi se il mio pisello avesse qualche altra funzione oltre a quella di mingere attorno agli otto anni, quando nei soliti svaghi al mare con i coetanei, ne ho trovato uno che la sapeva lunga. Mentre giocavamo a nascondino ci ritrovammo dietro a un folto cespuglio, noí due soli, ansimanti per la corsa ma senza emettere un rumore per non correre il rischio di farci trovare. In un batter d'occhio lui si sbottonò i pantaloni, mi prese la mano e se la mise sul suo pisello. Non solo non ritrassi la mano, ma scoprii che quel contatto mi procurava un inedito e vigoroso piacere. Anche se avevo l'impressione di fare qualcosa di proibito non riuscivo a capire bene, a mettere a fuoco, a dare un nome a quel che stava accadendo. Fatto sta che dietro a quel cespuglio imparai cosa fosse una sega, come si facesse dall'inizio alla fine. La breve cerimonia durò una manciata di minuti alla fine dei quali mi pare di ricordare che lui eiaculò. Rammento invece bene che nei giorni – ma dovrei dire, nelle notti – seguenti sognai ripetutamente quei gesti, la sua mano che si impossessava della mia, che la posava sul suo sesso e io che me ne stavo inebriato e stordito, affascinato e ammutolito. Di quei sogni infantili restava sempre un'umida traccia sul lenzuolo. Fu in quel frangente, credo, che scoprii il piacere del sesso tra maschi. Mi resi conto, insomma, che non avevo mai guardato una ragazza con quell'ansia, quel desiderio e quella febbre e cominciai a scrutare i ragazzi in modo più o meno esplicito. Traumi? Macché! Tutto era avvenuto in maniera semplice, naturale e diretta. A quattordici anni, quando andai in collegio, si rafforzò la convinzione che fosse il genere maschile il centro del mio interesse. Nel pomeriggio, dopo qualche esercizio sportivo, quando qualcuno andava a farsi la doccia io lo seguivo. Passavamo così lunghi minuti a guardarci, muti ma inattivi finché ognuno tornava nella propria stanza con addosso un'acuta e quasi dolorosa inquietudine. Se faccio un bilancio, in collegio di sesso ne ho fatto ben poco. Me ne mancava il coraggio ma soprattutto ignoravo da che parte cominciare. Capitava semmai di notte quando, per gioco, ci si ritrovava nella camera di qualcuno di noi per fare un po' di casino. Le luci erano spente, noi in pigiama. Tra il tiro di un cuscino e un lenzuolo che ti avvolgeva all'improvviso, c'era sempre qualcuno che finiva per mettere nelle mani di qualcun altro il proprio uccello. Si veniva così, tra le grida soffocate per non svegliare chi dormiva nelle stanze accanto. L'oggetto di piacere era solo ciò che avevamo fra le gambe ma tutti fingevano di non rendersene conto. Io mi comportavo come gli altri, o almeno lo credevo. Una notte, uno più furbo, a giochi finiti mi guardò dritto negli occhi e mi chiese se mi fosse piaciuto. Sono passati più di cinquant'anni, ma ricordo perfettamente che quella domanda mi trovò completamente impreparato e feci finta di nulla, come se non fossi stato io a essere interrogato. Ciò che invece non potrò mai scordare è il primo bacio che ho dato, un bacio vero, con tanto di lingua e saliva. Avevo diciotto anni e lui era un ballerino di avanspettacolo, bello come il sole e di un paio d'anni più grande di me. Eravamo a una festa tra amici in anni in cui la parola gay nemmeno esisteva. Dopo qualche esitazione le nostre labbra si avvicinarono e si strinsero le une sulle altre. Ciò che ne provai fu uno schifo terribile accompagnato da una irrefrenabile voglia di vomitare. Lui – molto più esperto – rimase piuttosto deluso: forse, tentò di spiegare gentilmente, dipendeva da lui. Forse non era il mio tipo. Stordito e imbarazzato balbettai qualcosa rispondendo che non capivo cosa mi stesse succedendo e che lui era il ragazzo più bello che avessi mai conosciuto. Stufo di quella situazione ridicola, il bel giovane finì per girarmi le spalle e andò a ballare con un altro. Il fatto è che non avevo avuto il coraggio di dirgli la verità: era la prima volta che baciavo un uomo e fino a quel momento non avevo immaginato altre sensazioni collegate con lingua e saliva che non fossero quelle alimentari. Capii presto che se volevo trovare il principe azzurro, che poi era il sogno di un giovane omosessuale di quegli anni, era necessario che uscissi dal disincanto. I ragazzi che incominciavo a conoscere erano preoccupati che in giro non trapelasse nulla. Se capitava che ci incontrassimo per strada ci si ignorava, fingendo di non conoscerci. Salutare uno 'così' sarebbe stata come una confessione, una dichiarazione azzardata, un'autodenuncia. Scoprivo che il mondo omosessuale mi piaceva poco ma non c'erano alternative: o prendere o lasciare. Alla fine decisi di prendere. A vent'anni la voglia che hai di fare l'amore è urgente e se il mondo era quello, tanto valeva affrontarlo. Trovai aiuto nei libri e nei film che mi diedero modo di capire un concetto fondamentale per ogni omosessuale e cioè che non ero solo al mondo. Anzi, di quelli come me ce n'erano tanti, tantissimi. Si trattava di andarli a scovare, impresa non facile in una società eterosessuale organizzata e studiata per soddisfare i propri bisogni e trascurare se non negare quelli degli altri. E di una cosa ero certo: io appartenevo agli altri. Prima di prenderne completa coscienza e di capire che non mi andava di vivere nascondendo una parte così importante di me, sarebbero passati ancora dieci anni. Nel frattempo avevo imparato a rompere gli schemi e a scegliere amicizie etero senza pregiudizi. Si trattava per lo più di donne che, nella complicità con un ragazzo come me, trovavano un confidente sincero e un amico fidato con il quale non si correva il rischio di complicazioni sessuali. I pensieri, i dettagli dell'anima, la narrazione della vita interiore potevano essere condivisi con le ragazze mentre con i maschi tutto era considerato off limits. Con loro, al massimo, si scopava. Spesso i ragazzi etero invidiavano questa intesa tra le ragazze e noi maschi omosessuali. "Se avessi io tutte le donne che hai tu...", mi ripetevano sospirando e sorridendo. | << | < | > | >> |Pagina 9Cera rivaQuand'ero bambino e mi capitava di sentirmi triste, mia madre mi guardava con tenerezza e, con un breve sorriso, mi diceva: "Vieni qui, facciamo cera riva". In piemontese, al posto di viso, volto, diciamo cera. T'las na bela cera vuol dire infatti hai un bell'aspetto. Riva, invece, vuol dire 'vicino'. Cera riva significava insomma stare guancia a guancia, sia pure per pochi secondi, senza fiatare. Allora la tristezza evaporava come per miracolo e io potevo staccarmi da quell'abbraccio, guardando riconoscente mia madre e allontanandomi felice. Da grande, i motivi per fare cera riva si erano fatti più consistenti ma stare cera riva non era più, da sola, la soluzione. Succedeva anche a mia madre di sentire quel bisogno di stare vicini. Allora ero io a proporglielo. "Dài, mamma, facciamo cera riva". I problemi non svanivano, ma la vicinanza delle nostre guance continuava a produrre quell'effetto un po' magico. Oggi che mia madre non c'è più, quel cera riva mi manca, perché era solo con lei che potevo farlo. Si può voler bene, amare qualcuno appassionatamente. Ma quel legame, profondo e antico come nessun altro, si è dissolto e vaga nello spazio. Io non saprei più dove andarlo a trovare. | << | < | > | >> |Pagina 260Le leggiMeglio culattoni Qual è la differenza tra un bidone e una fregatura? Se con i Dico (Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi) tirati fuori dal cappello delle due onorevoli Bindi-Pollastrini volevano inserirci nella serie B, con i cosiddetti Cus (Contratti di unione solidale) promossi da Cesare Salvi scendiamo ancora più in basso. Con i primi eravamo nell'opera buffa con tanto di raccomandate postali inviate al proprio partner per informarlo che avevamo intenzione di formare una unione di fatto con lui. I Cus, invece, ci avrebbero obbligato a rivolgerci agli uffici dei giudici di pace, sorta di tribunali per ufficializzare una convivenza amorosa. Sempre secondo quel progetto il diritto di eredità poteva essere fatto prevalere solo dopo nove anni, mentre per i matrimoni eterosessuali vale subito. Chissà per quale motivo noi omosessuali dovremmo godere di un diverso trattamento. Che siano falliti miseramente come miseramente erano stati concepiti, non può che farmi piacere. Meglio l'Italia di quelli che ci chiamano culattoni. Potremo sempre guardarli a testa alta e segnarli al disprezzo dell'Europa civile che si è data leggi che l'Italia non è neanche in grado di immaginare.
Mi ha sempre dato fastidio l'uso del verbo infinocchiare. Ma se ci
caschiamo ancora una volta, allora giuro che lo adotterò anch'io, spiegando
anche perché.
La Corte Europea Mi rendo conto quanto sia anacronistico parlare di diritti civili in Italia in un momento nel quale sembrano non interessare nessuna parte politica. Per fortuna c'è la Corte Europea le cui sentenze sono destinate a influenzare la giurisdizione dei Paesi che appartengono all'Unione. Uno dei verdetti della Corte ha per esempio condannato la Francia a risarcire due donne lesbiche conviventi da più di dieci anni alle quali era stata negata la possibilità di avere un figlio. Il tribunale europeo ha sancito che i gay sono cittadini come tutti gli altri, con il diritto pieno di formare una famiglia e di essere genitori. Il Paese che dovesse contravvenire a questo principio violerebbe due articoli della Costituzione europea dei diritti dell'uomo: il divieto di discriminazione (art. 14) e il diritto al rispetto della vita privata (art. 8). Resta in discussione quale sia il reale effetto sulle legislazioni delle singole nazioni ma il fatto, almeno simbolico, resta e pesa.
L'adozione da parte di coppie gay è legale in Spagna, Inghilterra,
Belgio, Olanda, Islanda e Svezia. La "Stepchild-adoption" (letteralmente:
adozione del figliastro) e, cioè, l'adozione da parte di una coppia gay di figli
naturali avuti da un precedente matrimonio o unione,
è una figura giuridica presente in Danimarca, Norvegia, Germania e
Israele. In Irlanda, Paese di tradizioni cattoliche (ma che non ospita il
Vaticano) anche i single, etero o gay non importa, possono ottenere
l'affidamento di un bambino. Matrimoni o riconoscimento di pari diritti valgono
in Belgio, Olanda, Polonia (ma sì, la cattolicissima Polonia, la terra che ha
dato i natali a papa Wojtyla e ai fratelli Kaczynski),
Danimarca, Germania, Finlandia, Inghilterra, Islanda, Norvegia, Portogallo,
Francia, Lussemburgo. L'unica nazione nella quale o si tace o
si insulta o si è presi in giro, è l'Italia. Una prece.
Torna la tassa sul celibato? La domanda è solo apparentemente provocatoria. La tassa l'aveva introdotta il fascismo nella convinzione che, per evitarla, sarebbero aumentati i matrimoni che costituiscono, come ognuno sa, l'anticamera della procreazione. Siccome il numero era potenza, scapoli e nubili erano di fatto nemici del regime. Tassandoli per bene se ne sarebbe ridotto il numero. Come poi è andata a finire lo sappiamo. Con questo non voglio negare l'importanza del calo demografico nel nostro Paese, ma so anche che non verrà risolto colpendo chi ha deciso di non sposarsi o addirittura non può farlo perché le leggi non lo permettono. La pensa diversamente Marco Borgione del Partito Democratico, assessore alla Salute, Famiglia e Politiche Sociali del Comune di Torino che ha definito i criteri per le graduatorie per l'assegnazione delle case popolari. Borgione, occhialetti leggeri e barba folta, non ha esplicitamente richiesto una tassa sul celibato ma pare che ci abbia pensato, visto che nella sua delibera ha chiesto che "vengano privilegiate, oltre alle coppie che hanno a carico un minore, nuclei per cui è previsto un punteggio in più in graduatoria, anche le giovani coppie che possono avere figli". Poi l'assessore ha voluto chiarire meglio il concetto specificando che "non è una questione di fertilità. So benissimo che anche le coppie formate da gay o lesbiche sono fertili, così come chi non ha figli può adottarli. Ma per svecchiare la popolazione di quella zona (Mirafiori) è necessario riservare un punteggio più alto alle coppie che possono avere figli, cioè alle coppie eterosessuali". Mi chiedo che cosa sia il "punteggio più alto" se non una tassa indiretta sui celibi i quali possono anche essere fertili, come recita il linguaggio clinico dell'assessore, ma non essendo sposati, e in più magari nemmeno eterosessuali, per loro non è prevista alcuna inclusione fra quei cittadini che si ritengono capaci di aumentare le statistiche demografiche.
Il ragionamento non fa una grinza. Se per legge ti impedisco di contrarre
matrimonio, ti condanno all'eterno celibato e poi ti escludo dal
novero di chi può figliare, e cioè le coppie unite in matrimonio. Oh,
lo so, anche le coppie gay possono avere figli per inseminazione, adozione,
utero in affitto, ma io vi frego precludendovi quel passo essenziale che si
chiama famiglia. Detto così, legalmente regge. Fa un po'
schifo, ma regge. Se questo è il ragionamento della sinistra progressista,
allora è un miracolo che dall'altra non stiano già accumulando le
fascine per erigere i roghi.
Un divorzio L'omofobia ha molti linguaggi e sulle pagine dei giornali può arrivare anche a modificare un fatto. Il lettore abituale che si fida di quel che trova stampato difficilmente riesce ad accorgersene prendendo per buono anche il titolo, che esprime più l'ideologia della testata che il resoconto onesto di quel che è avvenuto. Il "Giornale" mette in pagina con un certo rilievo: "La sentenza di un magistrato smonta le riforme del socialista Zapatero": Nell'articolo si sostiene che un giudice di Murcia, Fernando Ferrin Calamita, avrebbe tolto la custodia delle due figlie a una coppia, dato che la madre delle bambine è lesbica e motivando la decisione con il fatto che "l'ambiente omosessuale aumenta sensibilmente i rischi che anche i minori lo diventino". Che il giudice Calamita non apprezzi la legge che è tenuto ad applicare è lampante, ma anche con questa premessa la storia è manipolata. Intanto sarebbe stato bene avvertire che si trattava di una causa di divorzio. Se si fosse partiti con il dire che il marito aveva sorpreso la moglie mentre "consumava un atto sessuale con un'altra donna", ciò avrebbe aiutato a capire in quale contesto si svolgeva il fatto. La frase del giudice, quindi, va inserita all'interno di una causa di divorzio e se al posto di un'altra donna ci fosse stato un uomo, il marito avrebbe avuto motivo di pretendere la custodia della prole. Il "Giornale" ha tutto il diritto di apprezzare la scelta del giudice e la sua opinione sull'omosessualità per altro contrarie alla legislazione vigente in quel Paese, ma è falso titolare – e confermare nell'articolo – che il magistrato avrebbe così "smontato la riforma di Zapatero". Calamita ha emesso un giudizio in una causa di divorzio, stabilendo quale dei due coniugi fosse più adatto a crescere le figlie e mi pare scorretto affermare "È lesbica, le tolgono le due figlie", che corrisponde semmai a un wishful thinking del quotidiano milanese. In Spagna un giudice non può smontare un bel niente perché, come si sa, le leggi vengono votate in Parlamento e non possono essere abrogate da un tribunale. Senza contare che il primo a riconoscere diritti e doveri uguali fra i cittadini etero e omo, era stato il governo di centro-destra guidato da José Maria Aznar. Il presidente del governo José Luis Rodriguez Zapatero ha completato la riforma introducendo matrimonio e adozione. La maggioranza dei cittadini spagnoli ha imparato a ragionare con la propria testa, senza lasciarsi più influenzare da nessun Uffizio. Se Calamita è considerato un giudice retrogrado, noi stiamo molto peggio. Da noi retrograde sono ancora le leggi. | << | < | > | >> |Pagina 264Una legge da rivedereUn giudice di pace ha deciso che un immigrato clandestino, dichiaratosi omosessuale, può essere ugualmente espulso anche se nel suo Paese d'origine questo comporta la prigione. È la prima volta che un ufficiale giudicante si esprime in tal senso, visto che finora la prassi concedeva un permesso di soggiorno straordinario in attesa di un possibile visto. Il giudice non gli ha creduto e non gli ha concesso di ricorrere a quella norma contenuta nel comma 1 dell'articolo 19 del Testo Unico sull'Immigrazione che tutela i diritti di cittadini stranieri che per motivi politici, religiosi, sessuali e altri, andrebbero incontro a gravi persecuzioni nel Paese di provenienza. Il ragionamento del giudice potrebbe anche aver centrato il problema pensando che l'avvocato di Ahmad Khnig, questo il nome dell'immigrato marocchino, potrebbe aver scelto questa linea di difesa contando sul fatto che è difficile dimostrare il contrario. Il quarantenne Ahmad era in Italia da un paio d'anni e non aveva regolarizzato la propria posizione. Il giudice ha anche notato che l'uomo, prima di lasciare il Marocco, aveva vissuto per almeno vent'anni la sua sessualità da adulto e che quindi richiamarsi alle leggi che ne condannano la pratica non era una argomentazione sufficiente, visto che in prigione non ci era mai stato. Il sospetto che si trattasse di una scusa aveva un qualche fondamento, ma anche la possibilità che fosse sincero non era da escludere.
Per evitare che il fatto si ripeta e annulli gli effetti positivi di una
buona legge, occorre modificarla, mettendo in grado chi decide di immigrare in
Italia di conoscere le regole di ingresso. Se si è omosessuale e si arriva da un
Paese dove l'omosessualità è perseguita dovrebbe
essere necessario dichiararlo subito.
Un buon inizio
Giulio Papa, 30 anni, dipendente della Regione Friuli Venezia Giulia,
da sei anni lavora nella sede di Bruxelles. Avendo deciso di sposarsi, ha
chiesto e ottenuto dalla Regione il congedo matrimoniale. La notizia
sta nel fatto che il partner di Giulio è di sesso maschile. I due uomini
si sono incontrati in Belgio, dove il matrimonio gay è legge dello Stato, e la
Regione italiana ha riconosciuto ed equiparato la propria decisione alla
legislazione belga. È la prima volta che un'amministrazione pubblica compie
questo gesto. Gli assessori dell'allora presidente
Riccardo Illy l'hanno giudicata coraggiosa e illuminata, mentre l'opposizione
l'ha bollata come oscena. È vero che è solo un congedo matrimoniale, ma è pur
sempre un segnale apprezzabile in un Paese come il nostro capace solo di
sfornare progetti di legge penosi, ridicoli e
offensivi come i Dico o i Cus. Buon viaggio, caro Giulio, con l'augurio che il
tuo cognome compia il miracolo e che il tuo omonimo, molto più famoso di te, si
interessi più della sua Chiesa che dei fatti nostri.
28 generali coraggiosi Don't ask, don't tell, non chiedere, non dire. È così che è conosciuto il provvedimento voluto nel 1993 dall'allora presidente americano Bill Clinton e risultato di un compromesso contro l'esclusione dei gay nell'esercito degli Stati Uniti. Ai soldati omosessuali non veniva chiesto quale fosse la loro inclinazione sessuale, ma in cambio nessuno di loro doveva affermare apertamente di esserlo. Non una soluzione ma un passo avanti. Dopo più di tre lustri le cose stanno (forse) per cambiare. Ventotto ex generali e ammiragli coraggiosi hanno deciso che anche quest'ultimo infingimento andava bandito e hanno richiesto con una lettera aperta al Congresso degli Stati Uniti di cancellare la discriminazione. Il ragionamento dal quale sono partiti è semplice e onesto.
"Gay e lesbiche servono con onore il loro Paese"; hanno scritto gli
altoufficiali, "e noi, che abbiamo dedicato la nostra vita a difendere il
diritto dei nostri cittadini a credere in quello che ritengono giusto, abbiamo
il dovere di considerarli uguali agli altri". Uno di loro, il generale John
Shalikasvili, capo di Stato Maggiore al tempo in cui la legge
venne emanata, ha firmato un commento per il "New York Times" sostenendo che
"una nuova generazione di americani nell'esercito ha dimostrato che gay e
lesbiche possono essere accettati dai loro colleghi".
Il segretario alla Difesa Robert Gates ha replicato che rispetterà la volontà
dei legislatori. Bisogna vedere adesso in quale conto il Congresso terrà la
lettera dei ventotto, quale effetto quelle firme avranno sulla coscienza dei
deputati. È stato calcolato, anche se non so bene come sia stato possibile farlo
in modo accurato vista la legge del "Non dire, non chiedere", che nell'esercito
Usa ci sono quasi settantamila
gay e lesbiche che servono nelle zone di guerra, al Pentagono o nelle
basi militari sparse per il mondo. Il progresso da quelle parti va avanti anche
se non mancano nostalgici, come il generale Peter Pace, anch'egli ex capo di
Stato Maggiore, secondo il quale "l'omosessualità è immorale e paragonabile
all'adulterio"; meritandosi una dura reprimenda del segretario alla Difesa
Gates.
Da Oscar Wilde ad Alan Duncan Poco più di cento anni fa la Gran Bretagna condannava ai lavori forzati Oscar Wilde per sodomia. Se la regina Vittoria potesse guardare il suo regno sotto Elisabetta stenterebbe a riconoscerlo. Non solo gli omosessuali non vanno più in galera, ma la giurisprudenza britannica è cambiata fino al punto di introdurre le cosiddette partnerships, versione inglese dei Pacs che senza tante peripezie verbali possiamo assimilare ai matrimoni civili. La legge che li ha istituiti è il "Civil Partnership Act" del 2005 varato sotto il governo laburista di Tony Blair. Tra i primissimi ad approfittarne è stato Elton John, che, come scrissero i giornali, "si è unito" al suo compagno, il regista David Furnish. Celebre la cerimonia affollata di invitati prestigiosi che hanno applaudito gli sposi al taglio della torta nuziale alta due metri. Il partito Tory, invece di gridare allo scandalo come sarebbe successo dalle nostre parti, applaudì. Tra coloro che brindarono c'era anche il deputato conservatore Alan Duncan, che dopo qualche anno annunciò di volersi unire ufficialmente con il suo partner James Dunseath. Come ha reagito il giovane e agguerrito David Cameron? "Spero di partecipare alla cerimonia", dichiarò il capo dell'opposizione conservatrice di Sua Maestà la Regina. "Sono molto contento per Alan e James a cui auguro tanta felicità". Magnifica la dichiarazione di Duncan ai giornali: "Non potreste mai trovare due persone più convenzionali di noi due", frase che contiene ed esalta il bisogno di normalità che hanno gli omosessuali. Una condizione finora negata dalla omofobica rappresentazione dei gay che li vuole 'diversi' in una scala che va dalla sublime eccentricità fino alla più disperata sofferenza. Mentre invece siamo esattamente come tutti gli altri, con gli stessi desideri, amori, e perché no, dolori. Ai tempi infelici di Wilde, erano gli inglesi che venivano in Italia in cerca del "libero amore" che in Inghilterra "non osava dire il suo nome" condannato dalla morale vittoriana. Non che Sicilia o Capri fossero l'Eldorado, ma con l'aiuto complice del clima e del temperamento dei locali, l'Italia di quegli anni risultava meno bacchettona. La realtà si è ora capovolta e tocca a noi fare le valigie. | << | < | > | >> |Pagina 272AmoreProstituti Prostituti, ovvero marchette, elevati letterariamente alla condizione di "ragazzi di vita" secondo il titolo del famoso romanzo di Pier Paolo Pasolini uscito a metà degli anni Cinquanta. Ma ragazzi di vita o no, sempre marchettari sono. Giovani che vendono il proprio corpo con le relative prestazioni richieste. Un tempo, quando si scriveva di prostituzione, la curiosità e la fantasia dei cronisti era rivolta e si fermava a quella femminile. La frontiera cadde ed entrarono sulla scena giovanotti ambiziosi, spesso senza scrupoli. Dopo alcuni decenni la novità è diventata una banalità. Ogni tanto qualche reportage, ma di realmente nuovo c'era poco da raccontare. Nell'epoca pasoliniana i ragazzi di vita erano raccontati come poveri diavoli eterosessuali in cerca di qualche guadagno ma senza "alcuna reale partecipazione"; come chiosavano immancabilmente i cronisti di strada. Anzi, riferivano e virgolettavano le considerazioni delle marchette con gusto compiaciuto: "A me fa pure schifo, ma cosa vuole, i soldi sono i soldi". Non mancavano quasi mai storie lacrimevoli di fidanzate ignare e di mogli casalinghe, se non di figli gravemente ammalati e senza cure che obbligavano il poveretto a far cose che ripugnavano alla sua coscienza e alla sua natura "perché, sa, io sono normale, cosa crede?". Una piccola rivoluzione copernicana è avvenuta grazie alle dichiarazioni, forse sempliciotte ma franche, di due marchettari intervistati per la "Stampa" da Flavia Amabile. Yuri e Nicola, quindici anni l'uno, diciannove l'altro, fanno la vita di tutti i prostituti: cespugli e boschetti, ombre che si muovono con destrezza, contrattazione con i clienti sul prezzo e sulle prestazioni. Alla giornalista che chiede loro per quanto tempo pensano di vivere così, rispondono: "Paghiamo un appartamento all'Esquilino, abbiamo telefonini, vestiti alla moda, e 6-700 euro da mandare a casa ogni mese ai parenti". In famiglia lo sanno? incalza la giornalista. "No, nessuno sa da dove arrivano i soldi, né che ci amiamo".
Ecco la vera novità. Yuri e Nicola sono, sì, due prostituti che vanno a
battere dietro ricompensa tutte le sere, ma "si amano". Non accampano
scuse, non fingono di avere ingenue fidanzatine che li attendono a casa,
né mogli fedeli o prole febbricitante. Non simulano una virilità eterosessuale
coatta, non protestano disgusto per quel che fanno. Si amano.
Tutti noi abbiamo da imparare qualcosa da quella dichiarazione semplice e
schietta. Anche quella frase aiuterà a cambiare il nostro futuro.
Io amo una donna Sulla "Bild"; quotidiano tedesco da quattro milioni di copie, la notizia è uscita in prima pagina a caratteri cubitali: "Ich liebe eine Frau", io amo una donna. Lo ha dichiarato una ministra democristiana (Cdu) parlando della sua compagna. Come sono diverse le democristiane tedesche da quelle italiane! Qui nessuna donna politica lesbica, democristiana o no, oserebbe mai fare una simile dichiarazione. Qui la presunta difesa della privacy governa e detta legge. Non così per Karin Wolff, democristiana dell'Assia, e per Marina Fuhrmann, medico osteopata. Una storia che non avrebbe nulla di eccezionale se non c'entrasse la politica che l'ha trasformata da un atto banale a gesto di coraggio.
In Italia molte donne del Palazzo, dell'imprenditoria, della letteratura,
della musica e del cinema tacciono o mentono. "Stiamo insieme
da vent'anni ma non siamo omosessuali! Il nostro è solo un rapporto
affettivo", ripete da anni una di loro, scrittrice molto nota e che tutti
sanno essere lesbica ma guai a dirglielo. In linea di principio sono
contrario all'
outing,
ma la decenza ha un limite. Chissà se la storia di
Karin e Marina insegnerà loro qualcosa.
Fuga d'amore Due donne si innamorano e decidono di vivere insieme: avviene a Ostuni, squisita cittadina in provincia di Brindisi. Una storia uguale a molte altre, tranne che per un particolare che rende la vicenda originale. Le due donne, rispettivamente di anni 58 la prima e di 28 la seconda, erano, prima che fra loro nascesse l'amore, monache in un convento. La più anziana, madre superiora barese, la più giovane, novizia torinese. Luogo e condizione fanno la differenza. Che due suore abbiano cambiato direzione all'amore per Cristo, come avevano forse ingenuamente promesso al momento di prendere i voti, che lascino dimora claustrale e abito talare per vivere pienamente la propria vita, mi restituisce un po' di speranza per il nostro Paese. Invece di struggersi con sguardi e tentazioni negate, invece di sentirsi in colpa per un peccato che tale è solo per la religione che avevano deciso di seguire fino al punto più alto, hanno preso una decisione fenomenale che ha capovolto le loro esistenze trasformando due donne infelici e frustrate in una coppia gay alla quale il futuro potrà persino sorridere. La storia è venuta alla luce per un motivo fortuito, e cioè un contrasto familiare legato a una questione economica e approdata in tribunale. Il fratello della donna più anziana è entrato in lite per la proprietà di un appartamento al centro di Ostuni e al giudice, forse per far valere maggiormente le proprie ragioni, ha descritto in termini denigratori il comportamento della sorella. "Io e la nostra anziana madre" ha detto, "che l'avevamo sempre vista con l'abito monacale, ce la siamo ritrovata in minigonna, con i capelli tagliati alla moda e tinti di rosso". Mi auguro che il magistrato non abbia tenuto conto di queste affermazioni che riguardano la donna e lei soltanto.
Mi piace immaginare le due mentre decidono di fare il grande passo, lasciare
il convento raggianti di felicità, e poi la scelta di ricostruire la loro vita
in comune. Mi viene da lodare persino il no comment
della Chiesa di fronte alla loro scelta. Che sarà stata oggetto di delusione e
di condanna morale, ma niente di più. Nessuna fatwa, nessuna messa al bando,
nessuna persecuzione. Auguri a voi due, gentili signore. La vita fuori da quelle
mura protettive forse non sarà facile, ma di sicuro sarà solo vostra. La
fortuna, si sa, aiuta gli audaci. E voi, di audacia, ne avete avuta molta.
Ragazzi che si baciano Decido di andare al cinema, mi accorgo che il film inizia dopo un'ora e che ho tempo per fare due passi. Il centro è gremito di gente e mi incammino lungo via Lagrange finché mi ritrovo a una decina di metri dell'hotel Concorde, non lontano dalla stazione di Porta Nuova. La strada è semideserta quando scorgo davanti a me due sagome che si abbracciano, tanto strette l'una all'altra da non capire se si tratti di un uomo e una donna o di due uomini. Quando mi avvicino mi accorgo che sono due ragazzi molto giovani che si baciano appassionatamente e si accarezzano con la tenerezza degli innamorati. Uno dei due ha gli occhi pieni di lacrime, sussurra all'altro qualche parola tenera e ne riceve in cambio una carezza sulla guancia.
Mi fermo e non riesco a trattenermi dal dirgli bravi, siete due ragazzi
coraggiosi. Sono così commosso che quasi balbetto. Sorrido a
entrambi che mi appaiono per quel che sono: due inconsapevoli eroi,
semplici e naturali in un ambiente ostile. Sono i giovani di oggi che
apriranno la strada del futuro. Quando glielo dico, mi guardano stupiti e mi
ringraziano. Al giovane più triste, che ha ancora gli occhi
umidi di lacrime, aggiungo che vicino al suo ragazzo non ha nulla da
temere e quindi mi allontano dopo esserci salutati come vecchi amici. Sono
felice, vado al cinema ma negli occhi conservo la loro immagine. E mi piace che
tra di loro non ci siano più lacrime ma gioia ritrovata.
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