Copertina
Autore Ruggero Pierantoni
Titolo Salto di scala
SottotitoloGrandezze, misure, biografie delle immagini
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2012, Nuova Cultura 279 , pag. 320, ill., cop.fle., dim. 14x22x2,5 cm , Isbn 978-88-339-2336-9
LettoreCristina Lupo, 2012
Classe critica d'arte , sensi
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Indice


        Salto di scala

 13  1. Un righello di plastica
 16  2. Le misure sono parole?
 21  3. Cinque braccia, buone, di profondità
 26  4. Topologia della balena
 32  5. La luce blu del Sinai
 36  6. Vitruvio a Salamina
 41  7. Canti o immagini: chi viene prima?
 47  8. Come sollevare l'orlo di un chitone
 53  9. Il «colpo del macellaio» di Aristogitone
 S9 10. Sul bronzo, ma non per l'eternità
 67 11. Morte e trasfigurazione di Abramo Lincoln
 71 12. Canova al lavoro
 78 13. Di un ritratto in cerca di una patria
 88 14. I pericolosi attraversamenti del Potomac
 92 15. Il ritratto che si è fatto da sé: un obelisco cieco
 96 16. Menelao ed Elena nella reggia
103 17. Una statua di un Commendatore
110 18. Aspasia sulle impalcature del Partenone
117 19. Un visitatore inatteso
125 20. Degli inizi e delle fini: in musica e altrove
131 21. Lilliput sulla tastiera
136 22. Brunelleschi ordina di spostare l'organo
143 23. La magica perfezione del flauto
148 24. Un «mostruoso girino» attraversa la retina di Virginia Woolf
153 25. Sussurri e grida a Palazzo Te
160 26. L'incubo ellittico dell'architetto Gropius
166 27. Nel buio delle malgovernate campagne
172 28. Anamorfosi e politica
177 29. Diego Rivera tra Montezuma e Stalin
184 30. Vulcani come unità di misura
190 31. Un limite quasi estremo: l'orizzonte
194 32. L'omicidio di Trockij
201 33. Un drago delicatamente convesso
209 34. Dio nei cieli, l'abate Suger in terra di Francia
215 35. Un francobollo sulla porta di una stalla
224 36. I Colossi di Memnone in Dakota
231 37. La Venere di Mila visita William Rimmer
237 38. Gesto e rango della Fede
240 39. Polifemo dalla caverna alla cornice
247 40. Al fondo di Malebolge
250 41. Lo scudo-bersaglio di Achille
257 42. Fuga di un libertino, fotogramma per fotogramma
263 43. Girotondo nella prigione

269     Note bibliografiche
309     Elenco delle illustrazioni
313     Indice dei nomi


 

 

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Pagina 13

1.

Un righello di plastica

Anchialo è alto 19 millimetri. Lui, un compagno e un araldo sono stati inviati da Ulisse «[...] a informarsi / che gente su quella terra vivesse, mangiando pane; / [...] / E una fanciulla incontrarono davanti alla rocca, venuta per acqua, / la figlia gagliarda d'Antifàte Lestrigone» (Odissea, X 100-06). La figlia d'Antifàte Lestrigone è alta 26 millimetri. Abbiamo poggiato un righello di plastica trasparente sulla riproduzione di un affresco romano che intende mostrare alcuni episodi del libro X dell'Odissea. Cominciamo da qui, anno dopo anno, questa odissea misurativa:

                            Anchialo    Figlia del re lestrigone

Maurizio Borda, 1958          20 mm         26 mm
Eleanor Leach, 1988           19 mm         26 mm
Angela Donati, 1998           15 mm         20 mm
Fulvia Rossi, 2006            18 mm         24 mm
Maria Luisa Catoni, 2008       8 mm         11 mm

È banale che la statura di Anchialo e quella della principessa lestrigone dipendano dal processo di riproduzione a stampa e che i rapporti tra le due figure resistano indenni al variare delle singole dimensioni. Il rapporto tra le due stature resta ancorato al valore di circa 0,75, ma un rapporto tra due lunghezze non è una lunghezza, è soltanto un numero, cioè una parola. Quanto è «alto», per davvero, Anchialo? Chiediamolo a chi sa il mestiere.

«DAI FONDAMENTI DI UNA CASA IN VIA GRAZIOSA. L'ANNO 1853». Questo leggiamo, adesso, nel cartellino applicato alla semplice cornice dorata che protegge ciò che resta di quell'affresco di età repubblicana romana.

Nell'autunno del 1848, durante alcuni scavi in via Graziosa, a Roma, sul colle Esquilino, vennero alla luce, a circa 5 metri di profondità, i «resti di un muro dipinto con scene dall'Odissea [...] i riquadri erano alti 1,5 metri e si estendevano [...] per una lunghezza presumibile di 15 metri». Non possiamo ricostruire a quale altezza dal pavimento gli affreschi fossero sistemati. Quindi, ci manca un dato essenziale: l'angolo di osservazione resterà ignoto e così le condizioni locali di illuminazione. Ogni consolatoria ricostruzione virtuale di come i pannelli apparissero agli abitanti della casa sarà estremamente ipotetica: meglio così. Nel pannello adiacente a quello con Anchialo, il secondo, appare un'alta figura maschile in controluce. Questa, forse, è ancora più «facile» da misurare. L'immagine di Anchialo era contaminata dalla terza dimensione apparendo mossa, di spalle, dinamica, lievemente fuori verticale e il posizionamento del righello poteva non essere univoco e obbligato, mentre la figura del secondo pannello appare abbastanza bidimensionale ed è sufficiente abbassare una linea quasi perfettamente verticale che passi per la sommità del capo e per la sottile caviglia del piede destro e leggere i millimetri dell'intervallo. Il sospetto di una terza dimensione ci fa già desiderare di lasciare Anchialo a cavarsela da solo con la gigantessa. Ma vedrete, gli rimarremo fedeli sino alla fine di questo libro: gli amici non si abbandonano nel momento del bisogno (ill. 1).

Si comincia a sospettare che l'aver appoggiato un righello di plastica, anche se trasparente, su una figura stampata sulla pagina di un libro sia stata una cattiva idea, come aprire un abbandonato, insignificante vaso di Pandora. Purtroppo, la lingua poco ci aiuta o, forse, stende davanti a noi una cortina fumogena d'inganni. Diciamo, comunemente, che l'affresco è «alto» 1764 millimetri, che la figlia di Antifàte è «alta» 260 millimetri, che non conosciamo l'«altezza» da terra dell'affresco, che la lestrigone sta più in «alto» di Anchialo, che non sappiamo a che «altezza» stessero gli occhi che abitualmente vedevano l'affresco nella domesticità della casa, che la casa di Antifàte dove siede la moglie sta più «in alto» dei greci, agitati, più «in basso». In un catalogo, una figura mostra la «statua di Afrodite Sosandra [...] marmo greco, [...] altezza 197 cm, larghezza 75 cm, spessore 6o cm». La forma stereometrica della statua, cui, per fortuna, manca un braccio, ha permesso questa acribia misurativa. Ma già solo alla figura successiva, «Symplegma (gruppo di un satiro con una ninfa)», dobbiamo accontentarci di un laconico «marmo italico; altezza 90 cm» (ill. 2). Mentre la squadrata Sosandra godeva persino di uno spessore, questo meraviglioso intreccio di corpi deve accontentarsi di un'«altezza». E a Sperlonga, dinanzi al gruppo con l'accecamento di Polifemo dove potremmo mettere il righello di plastica? O, il che è lo stesso, fissare la base telemetrica del laser a interferenza?

È possibile che il testo tecnicamente più completo sul Fregio sia, al momento, quello di Ralph Biering, Die Odysseefresken vom Esquilin. In esso si fa notare anche un elemento singolare: le figure delle persone - uomini, donne, giganti - sono tutte piuttosto «alte», nel senso che sono allungate, longilinee e straordinariamente articolate, il che ha fatto loro attribuire il curioso aggettivo di «insettoidi». Poche righe fa, nello sfiorare il cluster nominale delle parole connesse con la radice «alt» non potemmo non ricordare che in tedesco la frase «er ist so alt wie ich» non vuol dire «egli ha la mia stessa statura», ma «egli ha la mia stessa età» e questo ci ammonisce a guardare con più attenzione le mani della maga mentre, come una croupière, getta con noncuranza il righello sulla figuretta «insettoide» di Anchialo: lo spazio è già stato contaminato dal tempo. I guai sono abbondantemente cominciati.


Sommario 1. Si individua, secondo Circe perfettamente «a caso», una figura dipinta in un affresco romano, il cosiddetto Fregio dell'«Odissea», e si tenta di misurarla gettandole addosso un righello di plastica trasparente. Ma questo sembra rendere tutto più opaco.

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Pagina 26

4.

Topologia della balena


Ma il riconoscimento della figura, dell'oggetto, della scena passa per troppe tappe e controlli e chiavi per essere rigorosamente privo di ambiguità. Di sicuro, la scritta definisce un alto livello di certificazione ma, a sua volta, essa è affidata a troppe variabili: proprio la «nazionalità» di Anchialo resta dubbia. Un greco normalmente colto non sarebbe incorso in piccole imprecisioni ortografiche: la «città» di Tarsi non ha un corrispettivo geografico preciso e indica, in termini assai generali, una «regione occidentale sulle rive del Mediterraneo», la stranissima piattaforma circolare dove stanno i compagni di Ulisse, benché illustrata a sua volta da una scritta molto precisa, non rivela la sua vera natura - mezzo da sbarco, ponte di collegamento, zattera per trasporto del bestiame? Ma l'alone di incertezza che si accompagna alle singole «figure», a volte, le ricopre addirittura con un velo di illeggibilità. Prima di procedere con alcuni esempi tratti dal mito di Giona è opportuno ricordare che nella procedura estremamente banale e ingannevolmente priva di incertezze della misura, la scelta degli «estremi» da cui, in ultima istanza, essa finirà per dipendere deriverà molto strettamente da cosa noi abbiamo inteso come «oggetto misurabile» e da dove esso «inizia» e «finisce». Ma torniamo a Giona. E un po' imprudentemente ci si potrebbe subito porre la domanda: «Se dovessi "misurare" Giona direttamente sulla pagina del Salterio includerei l'aureola, o no?» Io sono costretto ad appoggiare il righello su una pagina di un libro dove l'immagine è stata riprodotta. Si tratta della Storia della pittura bizantina di Viktor Lazarev, pubblicata dall'editore Einaudi nel 1967, e l'illustrazione è la 94. Giona, da un piede alla sommità del cranio, è «alto» 45 millimetri. Se devo includere l'aureola arrivo a 48-49 millimetri. Già un piccolo problema, ma il prossimo è decisamente più grosso. Giona stesso, sollevato da due o tre marinai che lo stanno buttando a mare, è «lungo» 33 millimetri; 34 con l'aureola. Sulla barca Giona è divenuto decisamente più piccolo. Perché è più lontano dell'altro Giona in piedi sulla riva? Ovviamente no. La barca in «primo piano», che ha la vela arrotolata all'albero, è molto più piccola della barca «più lontana» a vela spiegata, mentre i marinai hanno le identiche dimensioni, nonostante la «lontananza». Sta diventando sin troppo evidente che non solo le dimensioni - e poi, quali? - delle figure umane e degli oggetti sono il prodotto di una serie di intersezioni così complicate e così caotiche da scoraggiare ogni tentativo di «misurazione» lineare. Il caso di Giona ci permette di continuare l'analisi basandoci su una più accurata conoscenza delle convenzioni linguistiche seguite attorno all'880 d.C. Il Salterio di Parigi illustra solo due episodi importanti del libro di Giona: il suo lancio fuori bordo da parte dei marinai per salvarsi dalla persistente tempesta che inseguiva la nave, anche se «il Grande Pesce» non è ben visibile, mentre il successivo episodio «a oriente di Ninive» sotto la pergola d'edera non è rappresentato. Una veloce scorsa alle varie modalità con le quali Giona viene buttato a mare individua alcune soluzioni: gettato a prua, a poppa, di fianco; la vela è ammainata oppure no; i marinai sono due o tre ecc. A sua volta, Giona entra subito nel «Pesce», oppure la creatura è lì ad attenderlo poco lontano. In certe soluzioni assai spoglie e povere di elementi come in alcuni dipinti delle catacombe tutto è ridotto quasi a zero e le variazioni sul tema, anche quelle dimensionali, sono pochissime. La densità di segni della piccola pagina del Salterio impone, invece, un reciproco sovrapporsi di «aree di rispetto» tra la vela, la città sulla costa, la grande figura del profeta, la seconda nave e altro. Ci si rende subito conto che ciascuna immagine «isolata», come appunto la vela oppure la stessa aureola o l'albero della nave, è associata a un'area, anche se non chiaramente indicata ma intrinsecamente connessa che, al momento della sovrapposizione con altre aree, tende a eliminarle o ridurle o solo infrangerle. Il risultato di queste interferenze reciproche porta a una complicata negoziazione dimensionale tra oggetti singoli (ill. 5).

L'azione iniziale di «misurazione» ha generato una sorta di reazione a catena, soprattutto per due ragioni, tra loro molto diverse. La prima aveva a che fare con la procedura «in sé», ossia la sovrapposizione di un righello graduato in millimetri su una riproduzione tipografica di un dettaglio di un affresco e la lettura, per differenza, tra il valore segnato sulla scala coincidente con la sommità del capo di una figura umana abbastanza ben definita graficamente e la base del piede. La seconda aveva invece a che fare proprio con l'immagine sottoposta a «misura». Quindi, la lettura «per differenza» sarebbe stata esattamente eseguita nello stesso modo se, per esempio, avessimo poggiato il righello sulla prua di una nave che appare «lì vicino». Magari il valore numerico avrebbe potuto essere, per caso, assolutamente identico, ma l'oggetto misurato sarebbe stato completamente diverso. È meglio concentrarsi su «cosa si intenda misurare». Eleanor Leach, nelle parti del suo libro dedicate al Fregio, insiste per molte pagine su un argomento non immediatamente trasparente. Chi ha dipinto le immagini, sia che le abbia copiate, magari cambiandone la scala dimensionale per adattarla alla casa dove vennero ritrovate, o le abbia copiate esattamente della stessa misura o addirittura, ma è quasi del tutto improbabile, le abbia create ex novo, ha avuto uno scopo preciso: produrre un'immagine che fosse «facilmente comprensibile» a un osservatore a lui contemporaneo. Chi avesse guardato anche solo distrattamente il ciclo pittorico doveva poter cogliere alcuni elementi immediatamente in modo corretto: le distanze reciproche fra figure umane e oggetti, come le navi, oppure i rapporti spaziali reciproci con le caratteristiche geologiche, quasi geografiche. I promontori, gli archi naturali, la forma della baia, la tipologia degli alberi e la loro collocazione sono stati dipinti in modo da essere velocemente compresi. Questa complicità, collaborazione, colloquio, tra l'autore dell'affresco e l'occasionale o sistematico utente non nasce dal nulla, naturalmente. L'immediata comprensione spaziale viene facilitata da una forte coerenza derivante dall'illuminazione «naturale» che definisce con grande chiarezza le orientazioni delle varie superfici e la loro natura rispetto alla sorgente di luce. Non solo le orientazioni geometriche, ma anche la risposta «fisica» delle superfici alla luce ambientale sono state attentamente realizzate. Naturalmente, un'analisi impietosa, ma anche molto stupida, dei dettagli non tarderebbe a rivelare un grande numero di «errori» ecologici con distribuzione «scorretta» delle ombre, dei riflessi, dei reciproci illuminamenti di superfici «vicine» pittoricamente ma «lontane» nello spazio rappresentato. Ma nel complesso, il ciclo così come ci è giunto è dominato da una estrema coerenza naturalistica. Esiste tutta una rete di rapporti tra l'autore dell'affresco e l'osservatore che consistono in una comune conoscenza di testi letterari, di modi di dire, di episodi, scene, paesaggi che entrambi hanno veduto e che entrambi hanno ben compreso: ciascuno a livello della propria esperienza. Non è opportuno dilungarsi qui su questo punto; Eleanor Leach vi dedica centinaia di pagine fittissime che, appunto, fanno ricorso sistematico a testi letterari condivisi, testi visivi, modi di comportarsi in spazi urbani, extraurbani o semplicemente mitici. Il collante tra l'autore del dipinto e il suo fruitore è proprio quella parola che domina il titolo del libro: The Rhetoric of Space.

Naturalmente, la pagina miniata del Salterio sembra assai remota dal Fregio, anche se una rete non troppo sotterranea di rapporti lega tra loro molto strettamente i due oggetti; ma questa rete, reale o fittizia che sia, resta il problema fondamentale. Le immagini con la storia di Giona o quelle di Davide si riferiscono a un testo che intendono «illustrare», ma lo fanno con modalità molto diverse rispetto a quelle usate nell'affresco di via Graziosa: non esiste una grande coerenza luministica, i rapporti dimensionali tra oggetti e corpi umani sono poco stabili, il posizionamento delle singole persone od oggetti è «incerto», la stessa natura dello spazio in cui «appaiono» le immagini singole è assai indefinita, le figure umane sono rigide se le paragoniamo a quelle più «flessibili» del Fregio, la distanza reciproca tra le figure, ma soprattutto quella tra le figure e noi sono quasi illeggibili. E, come ulteriore elemento differenziale, il flusso narrativo, il «tempo» non è immediatamente definito. Per esempio, pur individuando delle chiare smagliature narrative tra testo omerico e testo pittorico, Eleanor Leach riconosce che la sequenza - orizzontale - degli eventi dipinti corrisponde molto fedelmente alla sequenza poetica. E, anzi, dopo l'episodio di Circe le circostanze narrative si stringono ancora più coerentemente nel testo illustrato.

Nel caso del Salterio di Parigi le due navi, quella con la vela ammainata e quella con la vela completamente distesa, dovrebbero corrispondere, la prima, al momento in cui Giona si appresta a partire dopo aver pagato il passaggio, la seconda, dopo la tempesta, al momento del lancio in mare del profeta. Se così fosse, il «tempo» scorrerebbe ortogonalmente alla superficie della pagina miniata orientata, per cui ciò che è davanti è avvenuto prima, ciò che è dietro è avvenuto dopo. E non nella più intuitiva direzione laterale. Coerentemente con le convenzioni spaziali adottate, la nave più «alta» è anche la più «lontana». Quella più «bassa» è, o dovrebbe essere, la più «vicina». Misurare la distanza poppa-prua di entrambe non avrebbe nessuna base logica, non può esistere un intervallo di tempo tra due punti dello stesso oggetto, a meno di non stare osservando un oggetto che si sta avvitando nel futuro o svitando dal passato come nella Macchina del tempo di Wells. Ma resta un sospetto, un dubbio sommerso: se gli accadimenti vicini nel tempo sono più «vicini» nel senso retorico del termine, le figure, gli oggetti e persone in essi coinvolti non dovrebbero essere più grandi, e quelli «futuri» più piccoli? Insomma, il davanti-dietro corrisponde al prima-dopo? E gli eventi del futuro possono essere rappresentati con «immagini più piccole» non perché sono più lontani nello spazio ma solo e soltanto nel tempo? Nello studio sul «piano rappresentativo» della tradizione della «rinascita macedone», Bezalel Narkiss aveva ipotizzato un punto profondamente locato nello spessore del muro, oltre la pagina, da cui si irradierebbe lo spazio visuale. Perché non pensare che questo punto profondamente insediato nella materia stessa dell'immagine non sia anche l'origine del tempo: ossia l'adesso?

Ma torniamo a un argomento meno scivoloso anche se meno seducente. I «termini espediti delle cose» nell'espressione di Leonardo possono essere tradotti in linguaggio a noi più vicino come «limiti ottici». È inesorabile che una grande densità di significato venga persa nella traduzione e non debba neppure essere recuperata, pena la totale perdita di significato sia nel testo di partenza che in quello di arrivo. Ma a livello della primordiale azione di misura da cui siamo partiti, resta una sovrapposizione di una lineetta nera incisa in un materiale trasparente a un qualche elemento grafico definibile appartenente, invece, all'immagine. Per esempio, la caviglia del piede della figura in controluce, oppure la punta di una delle lance. In assenza di questi elementi di riferimento anche la più pignola delle «misure» diverrebbe impossibile. Il termine piuttosto tecnico introdotto proprio adesso, «limite ottico», può essere ben compreso pensando all'aureola che circonda la testa di Giona. La «piccola aura» che sta attorno al viso dei santi ha origini e conclusioni molteplici. Ma una delle sue storie più convincenti è di essere stata, in origine, null'altro che la proiezione circolare di una sfera su un piano.

In ogni caso, l'oggetto pittorico su cui andiamo a commettere il peccato di misura è sempre un «limite ottico». Un cilindro opaco visto lateralmente appare definito da due segmenti verticali. Un parallelepipedo opaco visto lateralmente appare definito, ancora una volta, da due segmenti verticali. Ma nel primo caso, non esiste nulla da toccare con le dita, nel secondo, possiamo sentire con il polpastrello la precisa discontinuità meccanica tra due facce contigue cui diamo il nome di spigolo. Il mondo delle immagini bidimensionali è costituito quasi esclusivamente da «limiti ottici». Ma noi, bravamente indifferenti a questo piccolo dettaglio, eseguiamo con agilità accurate, e misteriche, misure meccaniche. Che consistono, per la gran parte, nel sovrapporre una sottile riga nera ad alcuni «limiti ottici»: il profilo di un seno, la forma sinuosa di un serpente, il nitido risplendere dorato nell'aria della Palla della Dogana davanti alla cupola della Salute. Leonardo, nello scrivere il Trattato, si accanisce contro i «termini espediti delle cose» intuendone perfettamente la natura occasionale e ottica, e li libera da una loro ormai antica vocazione obbiettiva o solo nominalistica e linguistica, ma, nello stesso istante, li utilizza come attrezzo scientifico per misurare ogni cosa, incluso il paradigma centrale di tutto: il corpo umano. La congerie di dati che accompagnano il cosiddetto Uomo vitruviano deriva più da misure ottiche su limiti grafici ottici che da misure reali su corpi reali.


Sommario 4. La rappresentazione di corpi umani, ma anche di attributi come le aureole, porta con sé il problema di individuare i luoghi «estremi» della misura. Poiché queste operazioni vengono condotte su immagini bidimensionali, i limiti di misura sono dati sostanzialmente dai «limiti ottici».

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Pagina 117

19.

Un visitatore inatteso


A questo punto, quasi nel baricentro del presente libro, scegliamo il fregio continuo delle Panatenaiche e la sequenza discontinua delle metope per introdurre la variabile tempo.

Quando lo sguardo ansioso di Anchialo si levò a valutare la statura della principessa dei Lestrigoni, con questo atto ci ha messo in movimento lungo la parete dipinta, spinti sia dalla nostra volontà di muoverci in relazione alle immagini fermate, sia dalla necessità interiore, intellettuale, di mettere a confronto tra loro alcune immagini presenti simultaneamente sul muro ma non simultaneamente nel nostro occhio.

Quella che possiamo cominciare a intuire non è più una forma di misurazione della dimensione metrica, spaziale del manufatto materiale, ma una valutazione, forse solo psicologica, della sua durata. Qualcosa che sia sant'Agostino che Bergson e quindi anche Michelangelo e Umberto Boccioni avrebbero immediatamente compreso. Questa «apertura» al tempo, deliberatamente posticipata rispetto all' incipit di questo studio, potrebbe forse apparire più utile se si riassumesse la situazione dicendo che la retina ha preso un'«istantanea». Tanto più ampio fu l'angolo percorso dalla pupilla nell'esplorare l'oggetto esterno tanto più lunga sarà stata la durata dell'immagine. Non sembra che il cervello ami molto essere sovraccaricato di informazioni, diciamo, dinamiche, ossia di immagini che si modificano nel tempo. Preferisce lavorare su delle «diapositive» di differenti locazioni spaziali che si traducono, nell'atto della loro percezione, in una sequenza temporale. Astutamente, la natura ha fatto sì che i punti nello spazio esterno e gli eventi cerebrali fossero legati tra loro da una relazione semplice, lineare, banale come la vita. È legittimo utilizzare anche qui la stessa strategia narrativa seguita in precedenza per celebrare e ammirare le fatiche, i trionfi e le passioni degli archeologi e delle archeologhe. Se la dedizione di quasi una vita alla misurazione millimetrica di immensi monumenti e, letteralmente, di migliaia di pezzi di marmo non poteva non suscitare emozione e ammirazione, gli stessi sentimenti si dovrebbero provare nei confronti di Alfred Lukjanovič Yarbus, nato a Mosca nel 1914, autore di un libro fondamentale, uscito nel 1967 in edizione americana con il titolo Eye Movements and Vision.

Ciò che dal 1941 al 1962 Yarbus si propose di misurare - e misurò - furono i movimenti dell'occhio, impegnato, come abbiamo descritto poco fa, nella visione di oggetti semplici o complessi: scritti, dipinti, più raramente sculture. L'idea era elementare. Durante i suoi movimenti l'occhio ruota nell'orbita. Se si riuscisse a fissare sulla cornea un piccolissimo specchietto, un raggio di luce da esso riflesso si dovrebbe muovere nello spazio a seconda della posizione dell'occhio. Il movimento di questo raggio può venir registrato e, di conseguenza, la posizione angolare dell'occhio può essere indirettamente ma precisamente misurata (ill. 17-18).

Ci sono voluti vent'anni di lavoro per ottenere i dati di cui si darà conto molto sinteticamente tra poco. Ma per avere un'idea dell'eroismo, sia del ricercatore che dei suoi collaboratori, qualche piccolo particolare va annotato. La cornea doveva essere anestetizzata, le palpebre inferiori e superiori dovevano essere divaricate e tenute «spalancate» allo scopo di non interferire con il movimento della «coppa a ventosa» che veniva applicata alla cornea. La testa, costretta in un casco metallico, era tenuta immobile, il corpo di conseguenza era bloccato da una sorta di complicata impalcatura su cui erano poste due telecamere, sorgenti di luce collimata e tutta l'elettrologia, non ancora elettronica, necessaria alla bisogna. Le fotografie e i disegni che illustrano l'apparato fanno pensare a strumenti di tortura ed è impossibile non sentire un brivido correre giù per la schiena. L'autore stesso, in più occasioni, si è sottoposto agli esperimenti e ha registrato sulla sua pelle - è proprio il caso di dirlo - i dati scientifici sui quali costruire il libro. È ora il momento di riferire alcuni elementi che possono inserirsi nella presente narrazione e che sono strettamente connessi con le dimensioni, in questo caso, di un quadro molto popolare in Russia: si tratta di Ritorno inatteso (noto anche come Non l'aspettavano) dipinto da Ilja Efimovič Repin nel 1884. Il quadro non è grandissimo: 160,5 x 167,5 centimetri. È molto difficile immaginare che Yarbus o uno dei suoi collaboratori abbiano effettuato le misure direttamente alla Galleria Tretjakov, dove il quadro era ed è tuttora custodito, e nel testo non ci sono informazioni sulle condizioni di osservazione. Dobbiamo dedurre che Yarbus abbia provveduto a farne una fotografia di formato 1:1 oppure abbia adottato qualche opportuno e controllato cambio di scala. Le figure 111 e seguenti del suo libro mostrano alcuni dei dati che ci interessano e che, sostanzialmente, sono i tracciati del pennello di luce che, riflesso dal microspecchio vincolato alla cornea del soggetto e mosso dalla rotazione dell'occhio, è stato condotto dapprima su una pellicola fotografica, poi sui sensori di una telecamera. Lo studio di questi tracciati ci permette di sapere dove e per quanto tempo il soggetto ha guardato. Un primo approccio è quello dell'esplorazione «libera». Il soggetto non riceve istruzioni particolari, tranne quella di «guardare il quadro». In un periodo di 35 secondi di osservazione «libera» si sono avuti 246 momenti di fissazione, ossia di istantanea immobilità che si sono distribuiti in diverse aree del quadro. Ogni fissazione «dura», in media, 7 secondi. Per comprendere meglio la tessitura temporale degli sguardi e il «metodo inquisitivo» dell'esplorazione stessa si può passare a uno stadio successivo, «cognitivamente superiore», dell'osservazione. Qui, Yarbus è più perentorio: «Che età hanno le persone che compaiono nel quadro?», «Cosa stavano facendo le persone presenti nel quadro prima che "l'inatteso" comparisse?», «Da quanto tempo "l'inatteso" era assente?» Naturalmente, qui non possiamo indugiare oltre. Quello che in sintesi si può dire è che la strategia analitica del quadro muta radicalmente con il diverso «mandato esplorativo». Per esempio, alla richiesta: «Che età hanno le persone che compaiono nel quadro?» Si vede molto chiaramente che i punti di fissazione si concentrano soprattutto sui volti. La domanda, diabolica: «Da quanto tempo "l'inatteso" era assente?» mostra un'intensa tessitura di andirivieni fra i volti dei tre «protagonisti» di questo čechoviano «atto unico». A questo punto il valore, puro e semplice, della distanza in centimetri sulla tela del viso dell'inatteso da quello della donna vicino al tavolo (sua moglie?), che è di 500 millimetri, messo a confronto con quello che separa gli occhi dell'inatteso dagli occhi stupefatti del ragazzino (suo figlio?) all'estrema destra del quadro, circa 1227 millimetri, risulta molto meno della metà. Ma è troppo evidente che qui quello che conta è l'intensità della relazione, la vera e propria «biografia» dell'inatteso e non una manciata di millimetri che scorrono sotto la plastica del righello di Circe. Il tempo, tenuto a bada sino ad ora come elemento di inutile disturbo in una misura di distanze, o di metri cubi o di lunghezze d'onda, si sta riprendendo, e molto brutalmente, il suo posto inesorabile come vero e proprio misuratore della nostra vita. Ed è il momento, finalmente, di chiederci: «Già, da quanto tempo l'inatteso era assente dalla sua casa, dalla sua famiglia e, perché, dove era stato? Perché appare all'improvviso, "inatteso", appunto?» Queste domande ci spingono a lasciare Yarbus e le sue tormentose macchine e a concentrarci maggiormente sull'oggetto osservato, il quadro e il suo autore e i «suoi tempi» (ill. 19-21).

Solo nel 1903, al momento di essere eletto membro dell'Accademia Russa delle Belle Arti condividendo con i colleghi ottimi stipendi, begli alloggi e molti privilegi, Repin cessa di portare avanti la sua guerra «mercuriale» nel dibattito Russia contro Occidente, popolo contro privilegiati, soggetti duri e scorbutici contro piacevoli immagini consolatorie. Durante la domenica di sangue, il 9 gennaio 1905, quando la polizia zarista massacra studenti, operai, contadini nella piazza antistante l'Accademia, lui è in Finlandia. Al suo ritorno, sicuramente atteso, il suo pennello intesserà solo deliziose e seducenti favole per i pochi fortunati. Il suo sguardo, dalla Francia, si era spostato sul palcoscenico della sua terra amata. Ma, adesso, anche insanguinata.

Il quadro di Repin, utilizzato come «stimolo visivo» da Yarbus, era stato dipinto nel 1884, in un momento storico molto preciso e molto turbolento. Nel 1878 Vera Zasulič aveva ferito gravemente il generale Trepov, governatore di Pietroburgo; nello stesso anno il generale Mezenstev, capo della polizia politica, era stato ucciso per strada; pochi giorni dopo il suo successore era scampato per miracolo alla stessa sorte; nel 1879 era stato assassinato il principe Dimitrj Kropotkin, governatore di Charkov; il treno imperiale era stato obiettivo di una serie di attentati dinamitardi; il Palazzo d'Inverno era stato squassato da un'enorme esplosione (la famiglia imperiale era arrivata per puro caso tardi a cena); uno «studente» per un pelo non aveva ucciso l'imperatore, ma già il 13 marzo 1881 una bomba aveva eliminato Alessandro II. Sir Donald Mackenzie Wallace, direttore della sezione Estero del «Times» dal 1891 al 1899, ricorda che tra il 1° luglio 1881 e il 1° gennaio 1888 la polizia dello zar Alessandro III condusse 1500 indagini su crimini politici, che le persone «punite» furono 3046, di cui 20 furono condannate a morte mentre 1500 vennero esiliate nelle zone della Russia europea. A quei tempi si partiva, ma non si sapeva quando e come si sarebbe tornati. E d'altronde, il 22 dicembre 1849 alle 8 di mattina Fédor Michajlovič Dostoevskij era sicuro che sarebbe stato fucilato entro pochi minuti. Se quattro anni dopo fosse tornato da Omsk, sarebbe stato probabilmente «inatteso». Ma al suo ritorno a Pietroburgo da Semipalatinsk, appena un po' più di dieci anni dopo, nel 1859, trovava, ad aspettarlo, il fratello. Era, finalmente, «atteso». Quando, a Parigi, nel 1861 Ivan Turgenev lesse Le memorie di una casa morta, non poté non trovarvi anche la straordinaria ricostruzione di una rappresentazione teatrale che i deportati, il 4 gennaio di un anno imprecisato, avevano organizzato nella loro camerata lunga 22 metri e larga 15, tagliata in due da uno scenario dipinto da qualcuno che «nulla aveva da invidiare a Karl Brjullov», il pittore degli Ultimi giorni di Pompei. Curiosa, davvero, questa rappresentazione! Il personaggio di Kedril è una sorta di Leporello, servo fedele e infedele, astuto e balordo, rozzo e sottile. Il suo padrone sa che tra breve verranno i diavoli a portarselo via, oppure a intascare una «cambiale» ancora scoperta. Tutto avviene attorno a una gallina che, a poco a poco, sparisce nello stomaco di Kedril-Leporello. Alla fine, da una finestra, indossando lenzuoli bianchi e portando sul capo delle candele, i diavoli si avventano sul «padrone». Le assonanze con il Don Giovanni di Mozart - Da Ponte sono quasi dei perfetti ricoprimenti testuali:

«Leporello (fra sé): Non vo' più veder l'amico; / Pian pianin m'asconderò (si nasconde sotto una tavola)» (Da Ponte).

«Ma Kedril trema come una lepre: egli si caccia sotto la tavola: nonostante il suo spavento, però, non si dimentica di agguantare, prima, la bottiglia» (Dostoevskij).

Alla fine i deportati, svanito nel buio e nel sonno incombente lo spettacolo, tornano al loro giaciglio: «io non sono qui per sempre, ma solo per qualche anno!, penso, e torno a chinare la testa sul guanciale», scrive l'autore. Fuori, ci sono 30 gradi sotto zero e assolutamente nulla e nessuno per molte decine di migliaia di verste (una versta = 1066,8 metri).

Perché abbiamo seguito, sommariamente, la rappresentazione? Le ragioni sono molte. Una delle più interessanti consiste in una lunga tirata, diciamo socio-culturale, che Aleksandr Petrovič Goriancikov, superfittizio autore delle Memorie di una casa morta, fa precedere all'evocazione-ricostruzione della rappresentazione. Vi si sostiene che sarebbe opportuno che tante competenze drammaturgiche, tante astuzie ingenue ma decisive nella scienza scenografica, tanta sottile abilità interpretativa e tanti testi da troppo tempo relegati al mondo della gente semplice, povera e contadina trovassero la via onorevole di un grande teatro di città. Parole, queste, quasi identiche a quelle utilizzate attorno al 1888 da Konstantin Sergeevič Stanislavskij nel documento fondatore della sua «Società di Arte e di Letteratura» e soprattutto nei documenti che segnano la nascita del suo, ben più famoso e universalmente acclamato, «Teatro d'Arte di Mosca accessibile a tutti». E qui incontriamo un altro personaggio «fittizio», un certo Arkadio Nikolaevič Torzov, direttore della Scuola di recitazione, autore, intorno al 1938, di «diari» dal bel titolo Il lavoro dell'attore su se stesso. Il «metodo» ci riporta nel laboratorio di fisiologia della visione dove Alfred Lukjanovič Yarbus sta chiedendo a qualche suo soggetto: «Coraggio! Tutta la seduta non dovrebbe durare più di 35 secondi. Via!» Oppure, ma molto più capziosamente: «Senti, da' un'occhiata a questo quadro e dimmi da quanto tempo secondo te era assente da casa l'uomo in piedi, scuro, sulla sinistra». Ecco invece il regista o, meglio, il direttore della Scuola di recitazione dire: «Fissate un oggetto qualunque! Siamo in scena, a sipario aperto». È lunedì 13 dicembre, non osiamo chiedere di che anno. Sulle prime, gli allievi fissano stupefatti e con occhi sbarrati un asciugamano. Si protendono troppo: «No!... Così non va... meno, molto meno... ». Gli allievi cominciano a sospettare che «fissare qualcosa» sia, tutto sommato, un atto normale, della vita comune. Più la tensione diminuisce, meglio «si comincia a vedere». Nel frattempo, il soggetto dell'esperimento fisiologico «fissa» il volto dell'inatteso e, finalmente, lo «vede». Ma il fittizio Torzov ha, anche lui, un animo scientifico e utilizza, anche lui, degli apparati non banali e tecnologicamente astuti: delle lampade a raggio variabile. Giovedì 16 dicembre spiegherà il «cerchio di attenzione». All'inizio, nel buio completo della scena, una lampada lancia un sottile pennello di luce su un tavolino rotondo il cui piano è coperto «di ninnoli e oggetti vari». Chi sta dentro il cerchio di luce si sente protetto, proprio come «a casa sua». Il cerchio di luce viene ampliato e poi ridotto progressivamente, gli attori vengono invitati a guardare dentro il cerchio illuminato, osservare, riportare interiormente ciò che hanno veduto e, naturalmente, atteggiarsi in funzione di ciò che hanno veduto. Uno Yarbus interiorizzato, senza specchietti, senza telecamere. Ecco, adesso, un momento altamente «teatrale», un vero coup: «contemporaneamente si accendono dei fasci sottili di luce che percorrono tutta la scena e tutta la platea, [...] rappresentano l'attenzione dell'attore [...] di nuovo guizzano qua e là i fasci sottili [...] avete capito adesso l'importanza che ha per un attore guardare e vedere in scena?» Questa parte della lezione ci allontana dalla nostra, più modesta e puramente tangenziale indagine, e per il momento può essere sufficiente notare come l'immagine riprodotta nel libro di Yarbus coincida, in definitiva, con la proiezione di un certo numero di raggi sottili su oggetti che ci circondano. Se nella pagina tipografica dove l'area «fissata» dalla fovea appare come un cerchietto nero, si procedesse a invertire la condizione di stampa, avremmo dei piccoli cerchi bianchi entro cui troverebbero posto il volto dell'uomo, lo sguardo ammirato e stupefatto del ragazzino e quello enigmatico della bella e giovane donna che, ancora seduta al pianoforte, si è voltata incuriosita all'ingresso dell'uomo che viene a interrompere e probabilmente a infrangere una giornata come tante altre. Che «nulla sarà più come prima», lo capiamo anche noi che in quella stanza non siamo mai entrati. Il «cerchio massimo di attenzione» finirà per abbracciare tutto il palcoscenico, tutta la superficie del «nostro quadro», come «dice» Torzov. Quando la poltrona, il tavolo e il pianoforte, dove l'alunno-modello si siederà per suonare «l'unica romanza che conosce: Il demone», saranno stati tutti «veduti», il quadro finirà? Il quadro di Ilja Repin quanto «dura»? La rappresentazione di cui racconta Dostoevskij durò due o tre ore e dobbiamo considerare che venne suonata anche la Kamarinskaja di Glinka. Ma forse il problema non è proprio questo. Abbiamo visto che, in un certo modo, si può stabilire una transizione tra le coordinate spaziali e quelle temporali approfittando di una sostanzialmente proporzionale linearità tra le dimensioni metriche e quelle temporali. Ma quello che va perduto nella traduzione, in questa traduzione tra spazio e tempo e non più tra spazio e spazio, è proprio la sequenza. Anche sotto la richiesta un po' audace dello «scienziato», la tessitura degli sguardi «successivi» finiva, con il passare del tempo, per ricoprire tutta la superficie del dipinto con una rete di spostamenti, di pause improvvise, di salti «logici». Quello che è difficile e quasi impossibile o forse solo «illegittimo» cercare di misurare è la sequenza temporale delle successive stazioni di osservazione. Non abbiamo una chiara indicazione di un «inizio» e di una «fine». In definitiva, Goethe stesso non ci dice da dove inizia la sua passeggiata. Sappiamo solo che egli camminò attorno ai templi (o a un tempio) a Paestum, venerdì 23 marzo 1787, esattamente dieci anni prima di assistere, nella sua Weimar, al Don Giovanni. Dove - e non quando - «inizia e termina» il Don Giovanni?

«Leporello: Notte e giorno faticar / Per chi nulla sa gradir».

«Zerlina: Questo è il fin di chi fa mal! / E de' perfidi la morte / Alla vita è sempre ugual!»


Sommario 19. Esattamente come aveva intuito Gotthold Ephraim Lessing nel 1766, è proprio il teatro il crogiuolo, l'avatar, da dove tempo e spazio hanno origine e: «Sipario!» Ma Leporello ci consola, portandoci per l'ultima (?) volta «un'altra cena».

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Pagina 148

24.

Un «mostruoso girino» attraversa la retina di Virginia Woolf


L'assenza del salto di scala dimensionale, necessaria per la seduzione fisica, si accompagna, nella musica, a un'ulteriore forma di «mania», la condivisione del ritmo tra suonatori e pubblico ma, ancora più intensamente, tra i suonatori stessi impegnati nella stessa esecuzione. L'uxoricida della Sonata a Kreutzer non sopporta la musica per una sorta di «sfasamento sistematico», diremmo qui, un salto di scala temporale tra il compositore e lui: «Beethoven sapeva benissimo perché si trovasse in quel certo stato d'animo [...] e quindi, per lui, quello stato d'animo aveva un significato, mentre per me non ne ha nessuno». E, più tormentosamente: «La musica, di punto in bianco, immediatamente, mi trasporta in quello stato d'animo in cui si trovava colui che l'ha composta [...] ma io non ho idea di perché lo faccia». Al medesimo tempo, invece, «una estrema e pericolosissima vicinanza tra uomo e donna» si stabilisce nelle occasioni del far musica «insieme». Ciò che porta alla follia omicida Pozdnyšev, in realtà, non è la «vicinanza» «in cui solo uno sciocco marito geloso può trovare qualcosa di sconveniente», ma la «sincronia» tra i due, da cui lui, violinista, si sente escluso. Quando in Anna Karenina, durante la corsa a ostacoli, Vronskij cade rovinosamente su Frou-Frou, la sua cavalla adorata, il marito di Anna non può trattenere la sua gelosia e la scena nella carrozza corrisponde, senza il sangue stupidamente versato da Pozdnyš, alla scena dell'uxoricidio. È stato, questa volta, Aleksjej Aleksandrovič a essere escluso dalla «sincronia» stabilitasi tra Anna e Vronskij durante la corsa: un rapporto sessuale a distanza e, quindi, tanto più tormentoso da pensare. Ma tutto l'episodio è regolato da una forma di sfasamento, diciamo più precisamente da un «ritardo». Già Vronskij «che vedeva le lancette sul quadrante, ma non poteva capire che ora fosse [...] solo dopo essersi allontanato di sette verste ritornò tanto in sé [...] per capire che erano le cinque e mezzo e che era in ritardo». La vittima innocente e finale di questa serie di «discronie» è, naturalmente, Frou-Frou. Vronskij commette un errore rompendo la perfetta sincronia, «musicale», con la sua cavalla e involontariamente la fa morire. Alla periferia di queste «sincronie» e «discronie» anche la giornata, socialmente sincronizzata con decine di impegni di ogni tipo, di Aleksjej Aleksandrovič, essa stessa una sorta di «corsa a ostacoli», s'ingombra di ritardi, visite di dottori con allarmanti diagnosi, timori di scandali. Un'analoga rete malefica di sfasamenti, di ritardi, di ubriacature, di stanchezze umane porta alla morte del povero cavallo Principe, l'unica ricchezza dei D'Urberville. Lo stupore senza parole che Frou-Frou prova nel momento in cui comprende di dover morire per colpa di Vronskij è quasi identico allo stato d'animo di Principe: «Il povero animale si guardò attorno dubbioso, come se volesse interrogare la notte, la lanterna, le due figure, quasi incredulo che a quell'ora [...] fosse obbligato a uscire per lavorare». Le due creature soffrono per gli sfasamenti umani, ma le due donne, Anna che si ucciderà e l'uccisa, lo fanno per gli sfasamenti dei maschi rispetto a se medesimi e alle società che hanno creato: e che non dominano più.

Virginia Woolf, a questi termini melodrammatici e arcaici, non ci sta. Davanti all'immagine del professor von X, autore del testo L'inferiorità mentale, morale e fisica del sesso femminile, pensa che «sua moglie era probabilmente innamorata di un ufficiale di cavalleria. E l'ufficiale era slanciato ed elegante e portava una pelliccia di astrakan». Non ci sta proprio, perché nel luglio del 1927 assiste, in un cinema londinese, alla trasposizione cinematografica di Anna Karenina dove «la donna caduta» era interpretata da Greta Garbo. Si trattava, per essere esatti, di una pellicola diretta da Edmund Goulding dal titolo Love. Greta Garbo era, e non era, Anna. Virginia Woolf: «il film va avanti, la signora in velluto nero cade nelle braccia di un gentiluomo in uniforme ed essi si baciano con enorme succulenza (enormous succulence), grande determinazione e infiniti contorcimenti su un sofà collocato in una biblioteca assai ben fornita». Se la questione si fosse fermata qui, il fatto che le immagini si stessero muovendo davanti agli occhi della Woolf sarebbe restato un piccolo episodio di cronaca privata, ma Virginia non ha paura di nulla e prosegue imperterrita. E d'altronde di cosa poteva aver paura un essere umano che, solo tre anni dopo, si sarebbe destato uomo e donna a un tempo, in un castello del XVI secolo e poi, fulmineo/a precipitando tra ghiacci e abbracci femminili e maschili, avrebbe risalito il Tamigi, riconoscendo da bordo e salutandoli con la mano Mr. Pope e i suoi amici? Suo marito, marinaio, la lascerà spesso sola. Essa lo raggiungerà, più tardi, portando alcuni sassi nelle tasche. Un essere umano così inerme e inespugnabile non poteva accontentarsi di una «biblioteca ben fornita» in bianco e nero, perfettamente piatta e con libri il cui dorso è autorevolmente suggerito da una serie di bei rettangoli ordinati alti circa due metri. Cosa c'entra la storia di una donna scritta in lingua russa più di cinquant'anni prima da un uomo ormai remotissimo con queste immagini in movimento? E il ragionamento, dapprima irritato e ostile, continua con un salto di scala e di significato imprevisti. Ancora una volta, un ricordo legato al cinematografo. Virginia Woolf ricostruisce dentro di sé uno strano episodio accaduto qualche tempo prima. Stava assistendo al Gabinetto del dottor Caligari quando, improvvisamente, gli spettatori furono terrorizzati dall'irruzione, sullo schermo, di «un'ombra, un mostruoso fluttuante e vibrante girino d'ombre che apparve a tutti come la paura stessa. Non come la frase: "Io ho paura" [...] La rabbia, l'ira potrebbe essere anche solo un verme infuriato che attraversi, nero, lo schermo bianco in irosi zig zag». Non esita un istante, Virginia Woolf, a comprendere che il cinema non ha nulla a che vedere con storie scritte e stampate, con sintassi e con grammatiche, con «biblioteche ben fornite» e con una signora che indossa «un abito di velluto nero [...] che scopriva le sue spalle ben tornite, come d'avorio antico», e che il suo futuro non potrà essere che nell'animare forme astratte, girini irosi, fulminei segni scardinati dal linguaggio, anche acustico. Il demiurgo di questa nuova techne non avrà che da «stendere le mani sulle città popolose, sulle strade colme di gente, afferrare al loro passaggio forme, colori e scagliarli contro lo schermo vuoto e bianco. Le forme, dopo la breve prigionia della seconda dimensione, di nuovo libere, si spargeranno ancora una volta nello spazio e, di nuovo disgiunte tra loro, voleranno via». Era, lei, Virginia, nel suo saggio sul Cinema del 1926.

Questa era Virginia Woolf e non dobbiamo stupirci se mostra un così sovrano senso della storia delle idee e se il suo modo di scrivere è così misteriosamente, orficamente, definitivo. Ma leggere quello che scrive, nello stesso anno, George Eastman, il fondatore della Eastman Company, nel volume di Supplemento XXVII-XXVIII della tredicesima edizione dell' Encyclopaedia Britannica, suscita forse ancora maggiore ammirazione. Si tratta della voce Motion Picture. L'imprenditore fa notare che «nel cinema assoluto» la «storia è un anatema [...] Il film non deve essere fotografato, ma creato». Il vero materiale, diciamo pure ancora narrativo, è affidato alle variazioni di ritmo, ai salti di velocità, agli spostamenti di masse diversamente contrastati dal punto di vista luministico: «Le cose stanno così non perché un tempo appartenevano al mondo del visibile, del fotografabile e, infine, del proiettabile, ma semplicemente perché erano state pensate proprio così». I rapporti di Greta Garbo, quando non si abbandonava in biblioteche ben fornite, con gli uomini e, soprattutto, con le donne che l'affiancavano nella professione sono stati analizzati da molti e in più occasioni e si è individuato, tra gli altri, un curioso dettaglio. La Garbo negli Stati Uniti gira 24 film, 21 dei quali con lo stesso operatore - diremmo adesso cameraman -, William Daniels; in 23 film su 24 collabora con lo stesso scenografo, Cedric Gibbons; in 21 film su 24 a vestirla è lo stilista Adrian. Questa inossidabile fedeltà non si riflette nella scelta dei registi che saranno cambiati e dimenticati con estrema facilità. È proprio William Daniels che, in una delle rarissime interviste in cui si parla della Garbo, dice: «mi sono sempre sforzato, con la mia camera, di entrare in lei attraverso i suoi occhi e cercare di capire cosa stesse là dentro» (ill. 24).

Il vincitore, l'atleta o Anna Karenina o la regina Cristina, abbacinati dalla loro stessa luce vittoriosa, neppure sanno che tu sei là, nel tuo buio. L'immagine non vede chi la vede. Ancora più abissale, proprio una mise en abyme, sarà la stessa Anna che vede se stessa, al buio, il brillare dei propri occhi e sussurrerà appagata: «Ormai è tardi, troppo tardi». Davanti a uno schermo, molto probabilmente assai più piccolo di quello indagato da Virginia Woolf, adesso stanno Thomas Mann e il suo alias Hans Castorp. Nell'episodio del quinto capitolo della Montagna incantata, debitamente intitolato Danza macabra, i due cugini, con oltraggiosa bontà, portano al cinematografo una malata terminale: Frau Stöhr. Solo la sua imbarazzante e plebea stupidità le permetterà di godere del miserabile spettacolo d'ombre: «Frau Stöhr, che assisteva anch'essa allo spettacolo, [...] pareva completamente immersa in devota ammirazione; il suo viso rosso e rozzo era addirittura contratto dal piacere». Sullo schermo si alternano «scene veloci di splendore e di nudità, di concupiscenza tirannica, di crudeltà, di bramosie, di piaceri». Alla fine, «una giovane marocchina, con un vestito di seta a righe, sovraccarica di collane, bracciali e anelli, col petto rigoglioso seminudo venne d'improvviso avvicinata alla vista, tanto da apparire a grandezza naturale. Aveva le narici larghe [...] faceva cenni di saluto al pubblico. Gli spettatori fissavano imbarazzati il viso dell'ombra seducente che pareva vedere e non vedeva nulla [...] Poi il fantasma scomparve. Sullo schermo immerso in una chiarità accecante, venne proiettata la parola "Fine"».

Ovviamente, Thomas Mann si sta riferendo a una sua esperienza personale al Bioskop-Theater di Vaduz, risalente al tempo di una visita alla moglie nel 1911. L'espressione «grandezza naturale» sembra ovvia ma, se la si analizza, le cose si confondono parecchio e ci forniscono uno scenario molto straniante che è il segnale improvviso che qualcosa di irreparabile, di irreversibile è definitivamente avvenuto. L'immagine del massacro ordinato da Sardanapalo ricorda curiosamente il frammento cinematografico che suscita il «disgusto» di Thomas Mann. Le figure del dipinto sono di poco più grandi delle dimensioni naturali. E sicuramente lo schermo del Bioskop-Theater non raggiungeva i 4,95 X 3,95 metri. Thomas Mann e Frau Stöhr sono seduti forse a 10-15 metri di distanza dallo schermo contro cui si proietta l'imbarazzante - ma solo per i Mann - spettacolo. È impossibile, al Louvre, porsi a più di 10-12 metri di distanza dal dipinto, è necessario osservarlo molto più da vicino. Virginia Woolf, e lo possiamo quasi calcolare con esattezza, siede tra i 18 e i 26 metri di distanza sia da Caligari che da Anna Karenina. Mann, lui, vede benissimo i «bicipiti d'un carnefice» esattamente come possiamo farlo noi. Viene addirittura il sospetto che il cast sia lo stesso. Alla fine, la fanciulla marocchina saluta il pubblico «con una mano, le cui unghie erano più chiare della carne». Poiché un'unghia difficilmente supera i 10 millimetri, se la si proietta sullo schermo alla distanza di circa 15 metri, essa a sua volta si riproietta sulla retina in un «cerchietto» di 0,025 millimetri. Che è meno di un decimo della fovea, esattamente la grandezza per la quale la nostra risoluzione ottica raggiunge il massimo. Le unghie della bellissima perforata dal pugnale del guerriero che ha appena lasciato il suo posto sulle scalinate dell'Apadana sono adeguatamente più lunghe e adatte alla sua oreficeria: 13 millimetri. Delacroix aveva l'occhio lungo ed era consapevole della giusta distanza focale.


Sommario 24. Anche Thomas Mann deve venire a patti con il cinema, ma deve accontentarsi di una versione in bianco e nero del «Sardanapalo», completa di bicipiti, scimitarre, Bosfori e seni ansanti, che però svaniscono appena si spegne la luce.

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Pagina 190

31.

Un limite quasi estremo: l'orizzonte


Un problema che sta emergendo e che è stato solo sfiorato è la questione di come e di quale grandezza vada rappresentato qualcosa che si trovi «all'infinito». L'espressione è inevitabilmente imprecisa e rammenta il simbolo di «infinito», appunto, che si trova da sempre sulla ghiera rotante per la messa a fuoco delle antiche macchine fotografiche e che i suprematisti russi tanto adoravano. In termini puramente teorici si dovrebbe trattare di un punto situato sull'orizzonte, non più basso né più alto di esso, proprio un punto «appartenente alla retta che chiamiamo orizzonte». Non è il caso di sottilizzare, ma l'orizzonte migliore possibile è quello marino. Come scrive dei pittori «da fondovalle» Giuseppe Garimoldi nel suo Il ricamo dell'orizzonte, «i pittori rimangono a guardare dal basso: si direbbe che il loro punto di vista sia il "sottinsù" e quando rappresentano il mondo dei glaciers, ancora fervido di leggende, lo fanno per sentito dire». Più avanti anche loro diverranno montanari, alpinisti, arrampicatori, ma non dobbiamo seguirli in corda doppia e pigramente aderiamo alle parole di Roberto Longhi che si lamentava: «Nulla fu più esiziale per la pittura che salire oltre la linea dei castagni [...] la pittura di alta montagna fomentata da una retorica che poteva serbar qualche pregio in letteratura, alla pittura finì per togliere il riparo dell'orizzonte». Piuttosto, ci aiuta molto di più cercare di capire che cosa stia escogitando e armeggiando Leonardo da Vinci in riva a una quietissima superficie di acque in riposo. Alla sua intelligenza non sfugge che il mondo non è una bella scacchiera piatta e infinita e che «il vero orizzonte ha da essere il termine della sfera dell'acqua». Se utilizza l'artificio grafico della scacchiera è solo per ordinare le proporzioni reciproche degli oggetti a lui prossimi. La progressiva scomparsa di un battello oltre l'orizzonte è prova banale e sufficiente che occorre pensare «curvo» e non «piano». L'esperimento consiste semplicemente nel fissare una candela accesa molto corta su una tavola galleggiante tenendo l'occhio a pelo dell'acqua. Quindi allontanare progressivamente la tavoletta galleggiante sino a che la luce della candela scompare. La distanza alla quale la luce è scomparsa dà il raggio dell'orizzonte locale che è «un mezzo miglio o circa». Se si porta l'occhio alla sua «universale altezza», diciamo pure 1700 millimetri da terra, il raggio dell'orizzonte locale sale subito a «sette miglia». Non interrompiamoci per il momento, ma non dimentichiamo che città del Messico è al centro di una depressione, insomma una scodella, il cui bordo, proprio a circa 70-80 chilometri dal centro, è quello che contiene i vulcani e che almeno sino al 1909 nei mesi invernali li mostrava innevati e quindi molto ben delineati. Si tratta di una situazione non molto dissimile da quella che Leonardo descrive nel «lito del mare di Egitto», dove egli tiene in considerazione il progressivo alzarsi del livello della «pianura» lungo cui il Nilo sta progressivamente discendendo verso il mare per «tre mila miglia di pianura» e localizza «l'orizzonte etiopico dove ogni cosa si fa bianca; e così tale orizzonte si perde di sua notizia» (Trattato della Pittura, parte VIII, precetto 927: «Qual sia il vero sito dell'orizzonte»). La particolare posizione di città del Messico la fa apparire circondata da un orizzonte più vicino, più prossimo di quello di chi si affacci sul mare. I vulcani e gli altri oggetti riconoscibili sono distribuiti lungo una linea approssimativamente circolare che dà l'impressione di essere l'orizzonte, ma che in realtà decorre a una distanza piuttosto limitata dall'occhio. È in un qualche modo, ma certamente non in conseguenza né di calcoli né di altre operazioni matematico-proiettive, che le dimensioni sulla retina del Popocatépetl visto a occhio nudo, 0,50 millimetri, non sono poi molto diverse da quelle del sipario, 0,62 millimetri, o dell'affresco, 0,66 millimetri, o del paravento, 0,714 millimetri. Le altre due immagini, quella sulla tela e quella sulla stampa, sono decisamente più grandi, 3,4 e 2,2 millimetri. Ma in questi due ultimi casi, le convenzioni rappresentative sono molto diverse: una pittorica d'imitazione semicubista nella tela dove i vulcani devono apparire un po' come objets trouvés, e una pittorico-cartografica nella stampa dove gli stessi assumono significato di simbolo cartografico più che pittorico. Questa intricata matassa non verrà di certo sciolta da una considerazione un po' enigmatica di Leonardo che lascia apparire un aspetto cognitivo-percettivo il cui peso nella determinazione delle dimensioni di un'immagine bidimensionale è quasi impossibile da computare. Il testo del «precetto» 471 indaga proprio il punto centrale di tutta questa analisi. Leonardo considera un oggetto e la sua immagine «dipinta» e suppone che l'angolo sotteso all'occhio sia dall'oggetto sia dall'immagine dipinta dello stesso oggetto siano eguali. Sotto queste condizioni egli sostiene, però, che l'immagine dipinta «non pare tanto remota quanto quella della remozione naturale». Insomma, se sia l'oggetto fisico sia la sua immagine sono visti dall'occhio sotto lo stesso angolo, l'immagine dipinta apparirà più vicina dell'oggetto: «Diciamo: io dipingo sulla parete a-b una cosa che abbia a parere distante un miglio, e dipoi io gliene metto allato una che ha la vera distanza di un miglio, le quali due cose sono in modo ordinate che la parete a-c taglia le piramidi con egual grandezza; nientedimeno mai con due occhi [il corsivo è mio] parranno di egual distanza». Leonardo non scrive quale delle due immagini, quella dipinta e quella «ecologica», ci apparirà più grande. Ma in un «precetto» successivo, il 481, afferma senza esitazione che «di due cose di pari grandezza sarà maggiore la dipinta che quella di rilievo». Ma qui si sentono echi della complicata e forse non indolore questione della supremazia della Pittura sulla Scultura e torniamo a città del Messico, in compagnia di un urbanista che vede molto lontano.

L'urbanista o, meglio, lo storico dell'urbanistica Leonardo Benevolo, nel suo piccolo ma inesauribile libro dedicato alla Cattura dell'infinito, prende in considerazione l'immensa scala praticamente regionale del complesso cerimoniale di Angkor con i suoi laghi rettangolari di 8,3 x 2,5 chilometri e osserva molto acutamente «l'uso dell'acqua per rendere percepibili le vedute lontane dei templi-montagna nelle direzioni del sole basso, est e ovest». Se rammentiamo che l'antica Tenochtitlán — quella evocata minuziosamente e archeologicamente corretta dal pennello paziente e saputo di Diego Rivera — era al centro di un bacino di acque ferme, la visione di Angkor diviene più chiara. Benevolo approfitta delle dimensioni estreme di città del Messico per discutere una sorta di collasso delle regole prospettiche abituali di fronte a dimensioni così estese. La loro «forzatura» porta simultaneamente a due risultati: «l'esaltazione iperbolica del comando, ma anche la concentrazione delle energie disponibili». Ma al di là della prosa sempre molto tesa e alta dell'autore, nel breve libro hanno un'importanza estrema le illustrazioni, in particolare la figura 41 che riporta la planimetria dell'attuale città del Messico con sovrapposta la pianta della città azteca, cioè quella precedente al collasso del 1521. Ci si accorge che la città attuale, dai sobborghi settentrionali agli estremi limiti meridionali, copre più di 50 chilometri. I messicani di oggi, il Popocatépetl ce l'hanno ormai in casa, anche se per via dello smog lo vedono molto raramente (ill. 32-33).


Sommario 31. La corona di vulcani che attorniano città del Messico stabilisce il locale « orizzonte visivo» e, allo stesso momento, fornisce ai disegnatori il «sipario» oltre cui nulla di rappresentabile si propone.

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