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| << | < | > | >> |Pagina 11Federico Il provino di Amici è cominciato e una signora bionda, che era seduta dietro il tavolo, mi ha chiesto come mi chiamavo. Ho deglutito e mi sono passato la mano sulla fronte. «Federico. Federico Guerini.» La signora ha inforcato un paio di occhiali dalla montatura larga e io ho sistemato l'asta del microfono un po' meglio, perché era bassa. Appena ho trovato la giusta misura, lei si è messa a fissarmi, attraverso le spesse lenti. Ogni tanto buttava un occhio a un fascicolo di fogli. «Leggo dalla scheda che sei un enfant prodige.» «Sì.» «E che scuola fai?» «Lo scientifico.» «Cosa ti è successo al labbro?» «Niente, sono caduto.» E lei: «Accidenti. Ascolta, come mai vuoi fare l'audizione?». «Mi ha costretto un'insegnante» le ho risposto mentre continuavo a regolare l'asta del microfono. Vicino alla signora c'era la ragazza senza trucco che mi aveva accolto all'ingresso. Poi c'era un tizio con la barba tagliata strana, un ciuffo a punta sul mento, come un Klingon di Star Trek. «Bene. Sei pronto a mostrarci quello che sai fare?» Le ho risposto: «Abbastanza». «Se ti va» ha detto lei, «possiamo parlare ancora un po'. Vuoi dell'acqua?» Si è alzata per andare a prendere una bottiglia che stava su un tavolino basso. Me l'ha passata, prima di sedersi su un pouf di plastica giallo. «Grazie, è che sono un po' agitato.» Ho bevuto un sorso. Ho appoggiato la bottiglia per terra e mi sono infilato la maglietta nei pantaloni. La signora mi ha sorriso e ha fatto un passo verso di me. Allora ha messo meglio l'asta del microfono. Ha detto: «Così è a posto» ed è tornata a sedersi. Lì mi è cresciuta l'ansia. Mi ha scocciato parecchio il modo in cui ha sistemato quello stupido affare, come se non fossi in grado di farlo da solo. Sono rimasto incerto un momento e poi: «In realtà ballare non mi piace per niente». «Ah no?» Ho scosso la testa. «Allora ti hanno proprio obbligato a venire qui...» «Sembrerebbe.» «Be', già che ci siamo potresti dirci cosa ti piace. Quali sono le tue passioni?» «Mi piace il cinema.» È rimasta zitta. Le ho detto che stavo scrivendo una sceneggiatura. «Una sceneggiatura» ha ripetuto. «E di cosa parla il tuo film?» «Della vita di un vampiro.» Mi sono arrotolato una ciocca di capelli fra le dita. «Ecco, più che un vampiro è la storia di un attore. Un attore che faceva il vampiro. Si chiama Bela Lugosi.» Ci siamo fissati. Sembrava uno di quei momenti in cui la prof di matematica ti guarda storto. Poi si è tolta gli occhiali e se li è messi nel taschino della camicia. Ha detto: «Ci sarà un motivo se questa insegnante ti ha costretto a venire qui, no, Federico?». «Lei pensa che ho del talento.» Ho fatto un gesto con la mano come a dire che non era vero. La signora mi guardava confusa, un sorriso leggero le storceva la bocca. «Non so quasi niente di danza classica» ho detto io. «L'unica cosa che sono riuscito a portare è il ballo che ho preparato per uno spettacolo.» E lei: «Non indietreggiare, avvicinati al microfono». Ho fatto un passo. La telecamera si è girata con un movimento lento, e per un attimo ho pensato che quel marchingegno mi avrebbe inghiottito. Invece si è accesa una lucina rossa, proprio sopra l'obiettivo. Ho pensato che dovevo essere forte, e ho sorriso. «Girati di profilo» ha detto lei muovendo l'indice nell'aria. «Ok.» «Hai portato il cd con la musica?» Ho afferrato lo zaino che stava buttato vicino alle mie gambe e ci ho rovistato dentro per qualche secondo. «Eccolo» l'ho passato al ragazzo dietro la telecamera. E lei: «Leggo dalla scheda che hai scelto un ballo un po' particolare... vero?». Ci ho pensato un momento e ho detto: «Sì». «Il ballo dell'ippocampo» ha letto dal foglio, con voce incerta. «Spiegami di che si tratta.» Visto che sono rimasto zitto, mi ha invitato a guardare nella telecamera. Si è messa a sbirciare dentro un monitor attaccato al pavimento e ha fatto un'espressione curiosa. Non riuscivo a capire se era convinta o disgustata. «Cosa c'è?» ho chiesto. Si è chinata e ha girato il monitor verso di me, e solo a quel punto ho capito che stava guardando una registrazione. «Vedi?» ha detto mettendomi sotto gli occhi un video di me che ballavo. Poi è scoppiata a ridere: «È una cosa divertente». Le ho domandato come faceva ad averlo. «Ce lo ha dato la tua insegnante. Per aiutarti.» Ho lasciato che continuasse a guardare nel monitor.
Poi sono tornato dietro l'asta del microfono e ho tossicchiato.
Sara Il commissario ha osservato prima il suo assistente e poi me. Ha detto: «Proviamo a fare un resoconto di quello che è successo» e si è acceso una sigaretta. Ho notato che l'assistente era piuttosto agitato. «Per favore, rispondi alle nostre domande. Abbiamo bisogno di informazioni. È per il bene del tuo amico.» «Ti chiami Sara?» ha chiesto il commissario scrutando la mia carta di identità. «Vedo anche che sei nata nelle Marche, ad Ascoli Piceno.» E io: «Devo andare in bagno. Mi viene da vomitare». Ha alzato gli occhi dal documento. «Aspetta» mi ha detto a quel punto, «la vuoi una sigaretta?» L'assistente si è allontanato. «Vado a prendere un bicchiere d'acqua per la ragazza.» «Per me un caffè» ha detto il commissario, e mi ha domandato: «Che fai nella vita? Vai a scuola?». Non riuscivo proprio a parlare. Mi sono girata verso la finestra perché mi venisse un po' d'aria in faccia, ma era chiusa. «Faccio lo scien... scientifico» ho balbettato. «Sei una ragazza in gamba» ha detto lui. «Ti piace studiare?» «No.» «E cosa ti piace fare? Quali sono le tue passioni?» «Come?» Non capivo. Soffocavo. E lui: «Vorrei sapere cosa fai nel tempo libero...». Gli ho risposto: «Ho un cavallo». «Anche mio figlio vorrebbe un bel cavallo, ma non è una cosa da niente. Servono soldi e impegno» ha detto il commissario. «Ah.» «Ascolta, mi puoi dare qualche informazione in più sul tuo amico? Mi puoi dire perché siete venuti a Roma?» Avevo la bocca secca, ho provato a deglutire. Mi sono guardata una mano e ho visto che tremava. Ho detto una cavolata: «Non so niente di lui. Non è un mio amico». Il commissario è rimasto un secondo in silenzio e poi: «Non la vuoi proprio 'sta sigaretta?». «Come?» «Sigaretta...» «Non fumo» gli ho risposto, anche se la voglia di fare qualche tiro ce l'avevo. «È una cosa brutta quella che ti è successa» ha bisbigliato subito dopo. «Uno nella vita è convinto che le cose capitano sempre agli altri. Si sente forte, e pensa di essere immortale...» «Non è il mio caso» gli ho detto. Mi sono stretta le braccia intorno alla pancia. «In che senso?» Ho detto che non era vero che le cose capitano sempre agli altri. «Anzi, le cose brutte non capitano mai agli altri. Capitano sempre a me.» «Di che parli?» ha chiesto. L'assistente è tornato col caffè. «Attenzione, scotta.» «Di che parli?» ha insistito il commissario, e si è messo a girare il cucchiaino nel bicchiere. «Che vuol dire che le cose brutte capitano sempre a te?» Mi sono stretta ancora di più le braccia attorno alla pancia. Ho inspirato un po' d'aria, ho tossito. Sul tavolo, proprio accanto alla mano del commissario, c'era un pacchetto di MS. Ho allungato il braccio e ne ho presa una. «Ce l'hai l'accendino?» L'assistente si è rovistato nelle tasche e ha tirato fuori un affare colorato. Sono riuscita a malapena a fare un tiro, perché avevo la gola in fiamme. Ho schiacciato la sigaretta in un posacenere di vetro e, sollevandomi piano, mi sono alzata. Mi sono sforzata di raggiungere la finestra. Non appena ho appoggiato la fronte al vetro ho iniziato a sentirmi meglio e sono rimasta a guardare il cielo azzurro. «A che pensi? Perché non rispondi?» mi ha chiesto il commissario. «Penso... penso a Mariah Carey!» ho urlato. «È successo tutto per colpa di quella stupida cantante!» | << | < | > | >> |Pagina 193Sara «Oh, svegliati, sono le sette!» Ero andata a chiamare Anna, che aveva passato la notte sulla sedia girevole del club. «Non possiamo nemmeno fare il caffè in questo cazzo di buco» mi sono lamentata. Ho sbirciato il pavimento tutt'attorno alla sedia e al divano e c'erano una miriade di escrementi, scie di piscio, pedate e strofinacci accatastati che avrebbero dovuto servirci per asciugarci la faccia. Puzzava di marcio. «Occhio a non pestare Morgana!» ha strillato Anna. «Ma dove l'hai presa questa bestiaccia?» «L'ho trovata al fiume, era ferita.» Ho scavalcato la papera, ho spalancato la porta del vagone e un raggio di sole mi ha colpita in faccia. Era una giornata bella, con tantissimo sole. Anna ha detto che la papera si chiamava Morgana proprio come la fata, anzi la strega amica del mago Merlino, e io ho pensato che questa storia della partenza per Bologna la stava facendo diventare matta. «Io sono pronta.» Si è messa lo zaino sulle spalle. «Qui chiudiamo, così Morgana se ne sta al calduccio per tutto il giorno.» Non ho risposto. Mi sono concentrata sul rumore che faceva il fiume. Era più forte del solito, perché due giorni prima aveva piovuto e adesso c'era più acqua. I tricotteri volavano sopra le felci. Ci siamo incamminate verso scuola. Lungo il ciglione Anna saltellava, apparentemente tranquilla. Io invece non stavo nella pelle al pensiero che la sera saremmo stati in viaggio per Roma. Quando siamo arrivate davanti al cancello della scuola, ho visto che Ivan stava intrattenendo il Cracco e altri due ragazzini con ridicoli giochi di illusionismo. Aveva tirato fuori l'accendino dalla tasca e se l'era nascosto dentro il pugno. Poi ha cominciato a farlo roteare di qua e di là, tenendolo tra il pollice e l'indice, finché non è riuscito a illudere quei tre mongopatici che la scritta "Bic" fosse sparita. Siccome mi aveva vista, ogni tanto si girava verso di me e mi diceva: «Che te ne pare, Mula? Sono un prestigiatore nato, vero?». Io lo sapevo che per fare quel trucchetto bastava tenere l'accendino sempre nello stesso verso, e fingere un movimento di un certo tipo, così gli ho risposto che era un gioco vecchio come il cucco. Lui allora si è fermato e si è messo a fissarmi. La prima cosa che ho notato guardandolo sono state le sue occhiaie, che sotto lo sguardo verde sembravano ancora più scure. Su di lui però erano un particolare affascinante. Indossava una maglietta bianca e un paio di Levi's neri. Mi ha detto: «Mula, io posso farti scomparire, se voglio». «Perché non fai scomparire il compito di matematica?» Poi ho preso Anna per la mano trascinandola verso l'ingresso. Lei si è voltata verso Ivan. Ha chiesto: «Dopo mi insegni come si fa?». Ho gridato: «Dagli cinque euro, ti insegnerà anche a spacciare». E lui: «Sei divertente come un orgasmo ciofeca, Mula. Comunque sicuro che ti insegno, negretta. Ehi, aspettate un momento...». Con l'accendino ha dato fuoco a un lembo della maglietta del Cracco, la solita t-shirt dei Muse, e lui non se n'è accorto.
Quando un filo scuro si è allargato nell'aria a partire
dalla maglietta, Ivan ha urlato: «Volete del fumo?».
Io e Anna abbiamo aspettato che la campanella suonasse davanti alla fotocopiatrice. «Allora non gli hai ancora detto niente?» mi ha chiesto lei. «Che succede quando scopre che Mariah Carey non viene a Roma?» Ho fatto un respiro profondo, ho deglutito. E lei: «Perché non glielo hai detto?». «Che ore sono?» «Le sette e cinquanta, ma che c'entra?» «C'entra. Il motivo a quest'ora starà brucando nella pista.» «Vuoi dire Usa? Hai paura che quel figlio di Sultana le faccia del male?» «Yes.» «Sì, ma quando hai intenzione di dirglielo?» «Non lo so. È ancora presto.» «Come è ancora presto?! Alle dieci di stasera partiamo!» E, mentre la campanella suonava, ho risposto: «Appunto. Glielo dico solo quando siamo in viaggio». «Sara, un'altra cosa...» «Dimmi, sbrigati.»
«Ma che cos'è esattamente un orgasmo ciofeca?»
Federico A ricreazione Ivan mi ha raggiunto nel cortile della scuola. Gli ho chiesto: «Come va?». «Tutto a posto.» «Sei agitato per stasera?» Ha alzato le spalle. «Nemmeno per il cavolo.» «Tu hai preparato la roba da portarti? Ti va di prendere qualche birra al super?» Ho fatto no con la testa. «Ma se due giorni fa l'hai bevuta pure tu! Adesso sei diventato astemio?» E io: «Non c'entra niente, durante il viaggio ti voglio lucido». Ha acceso la sigaretta che teneva infilata tra le labbra. Dopo il primo tiro, ha detto: «Cavalluccio, tu l'hai bevuta la birra a casa mia. Sei in debito con me». «Stai scherzando o dici sul serio?» «Devi comprarne almeno una, così siamo pari. Devi anche ridarmi i cinquanta centesimi dell'altra volta. Ti ricordi?» «Non ci posso credere, Ivan.» E lui: «Devi imparare le regole dell'uguaglianza. Io do qualcosa a te, tu dai qualcosa a me». «A te il carcere ti ha lesionato il cervello» ho fatto. In quel momento ho visto che sotto agli occhi gli erano spuntate due grosse occhiaie color melanzana. Sorrideva. «È una cosa fondamentale, l'uguaglianza. Una cosa che starà scritta sicuramente anche nel tuo libro di Trust». «Si chiama Proust.» Passargli una mano sui capelli lì davanti a tutti mi sembrava rischioso, ma l'ho fatto lo stesso. Aveva la fronte calda, leggermente sudata. «Smettila di toccarmi» ha detto lui. «Hai le orbite attorno agli occhi. Che hai combinato stanotte dopo che sono andato a casa?» «Pensavo che non te ne fregasse niente di quello che faccio quando non ci sei.» «Ma che dici?» Siamo rimasti a guardarci, mentre lui continuava a fumare ed era piuttosto serio, concentrato. «È vero, sono rimasto sveglio fino all'alba a fare delle cose.» «Che genere di cose?» ho chiesto. «Niente di particolare. Ho letto un po'.» «Come, hai letto? Non pensavo che leggessi.» «Un libro su Leonardo Da Vinci. Una figata. L'ho trovato in camera di papà.» «Ma va'. Non ci credo.» «Ma perché non credi mai a quello che ti dico?» mi ha rimproverato. «Meno male che sostieni di fidarti di me, e tutte quelle stronzate da film d'amore.» «E cosa dice di così interessante Leonardo Da Vinci?» gli ho domandato. «Be', ad esempio un sacco di cose sul corpo umano.» «Solo?» «Macché, ha scritto anche un trattato sugli uccelli, perché voleva scoprire il segreto del volo.» «Se vuoi continuare a parlare con me, devi dirmi che cosa hai combinato stanotte!» Allora lui ha fatto un ultimo tiro e ha buttato la cicca per terra. «Che senso hanno questi attacchi di gelosia?» ha chiesto, lì, con un'espressione da cane rognoso. «Non è gelosia.» «Non è mai niente, per te. Non è gelosia, non è attrazione. Non è questo, non è quello.» Sono rimasto zitto un secondo e poi: «Mi sono stufato, adesso me ne torno in classe». «Possibile che non capisci che non ho fatto niente, che sono rimasto davvero a casa?» «Con Alberto?» «Be'» ha confessato, «se proprio lo vuoi sapere sono stato a fare un gioco.» Siccome devo aver assunto un'espressione sorpresa, lui ha sventolato una mano davanti agli occhi, come per scacciare una mosca. «Lo sapevo che mi avresti preso per il culo» mi ha detto e io ci ho anche provato, a non scoppiare a ridere. Però non ce l'ho fatta. «Perfetto, allora non ti racconto niente. Ridi, ridi.» «Eh no» e sono tornato serio, «adesso mi dici. In che senso un gioco?» Ivan mi ha guardato e adesso aveva le guance rosse. Ha tirato su col naso e poi: «Fingevo di essere un agente segreto. Ero in camera mia, sul letto. Immaginavo che il letto era un tombino e che dovevo salvare qualcuno». «Oh, cavolo.» Ho allargato gli occhi e ho inspirato per non scoppiare a ridere un'altra volta. Ivan a quel punto ha abbassato la testa, abbastanza offeso, e mi ha spiegato che a volte faceva quel gioco per rilassarsi, anche quando stava al Casale. «Che vuoi? Ti sembra una stupidaggine? Vuoi prendermi in giro per questo?» «Smettila» ho risposto io. «È divertente, è una cosa che mi piace.» È rimasto zitto. «Magari una volta potresti giocarci insieme a me.» «D'accordo, facciamo la guerra» ho detto io.
«Facciamo la Guerra dei trent'anni» ha detto lui.
Sara Quel pomeriggio sono andata al club delle persone particolari, ho preso la papera Morgana e l'ho messa sul tavolo. Dovevo fare le prove del mio discorso. Il discorso per Ivan. La papera si affacciava al bordo del tavolo. Ogni tanto starnazzava e faceva un po' di cacca. «Senti, Ivan, ho bisogno di parlarti un momento» ho recitato guardandola, con l'indice sollevato. «Volevo confessarti che... mmm... in realtà ti ho detto una cavolata su Mariah perché volevo passare del tempo con te...» Niente. Doveva venirmi in mente qualcos'altro. Ho riflettuto. Sono uscita un secondo fuori. Mi sono sfregata le mani, mi sono grattata la testa. Da là fuori vedevo la papera che racimolava delle briciole sul tavolo. Sono rientrata. «Ivan, non immagini che cosa è successo!» ho urlato di fretta a Morgana. Ho spalancato le braccia: «Mariah è entrata in coma! Stava facendo body building e buuum, qualcuno deve averle mollato un cazzotto in faccia. L'ho letto su internet». Non gli potevo dire nemmeno questo. Ho cominciato a pensare che era impossibile dirglielo, ormai ci ero dentro. Scoprendolo, non so quando né come, si sarebbe incazzato da morire, ma io non potevo fare niente. Mi sono seduta sul divanetto. Dopo un po' ho preso Morgana e l'ho portata vicino all'argine del Fluvione.
Sono andata a chiamare Anna.
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