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| << | < | > | >> |IndiceINTRODUZIONE UNA LUNGA PREPARAZIONE 7 I IDEE PERICOLOSE E ALTRI ANTEFATTI 23 1. L'Essay del 1844 23 2. I cirripedi e il marchio della variabilità 26 3. Un'accelerazione non voluta 29 4. Prende avvio il cantiere dell'Origine delle specie 31 5. La prima grande discussione scientifica internazionale 35 II VARIAZIONE E SELEZIONE: IL NOCCIOLO DELLA TEORIA DARWINIANA 39 1. Perché Darwin scrisse L'origine delle specie alla rovescia? 40 2. Una prorompente diversità 43 3. La "specie": una mera convenzione 47 4. La grande battaglia della vita 52 5. "Legati da una trama di relazioni complesse": l'evoluzione è ecologia 57 6. Un sottotitolo fuorviante 60 7. Il lento scrutinio della natura: la selezione naturale 64 8. La contingenza della selezione 68 9. Una radicale separazione tra natura e teleologia 70 10. L'egoismo imperfetto della selezione 73 11. Il principio di divergenza 80 12. Irregolarità o pienezza della natura? 88 III LA CINTURA DIFENSIVA 91 1. L'altro lato del lungo ragionamento 92 2. I segreti sfuggenti dell'ereditarietà 97 3. Il guazzabuglio della sterilità e della fertilità 101 4. L'assenza di prove non è la prova di un'assenza 102 IV IL COMPLESSO DELLE PROVE EMPIRICHE 109 1. La discendenza con modificazione vista nella profondità del tempo 110 2. La discendenza con modificazione vista nel grande scenario geografico 114 3. Isolamento e migrazione: il grande fiume della vita 117 4. Evoluzione e sviluppo: i meravigliosi "fatti dell'embriologia" 121 5. Unità di tipo e condizioni di esistenza 125 6. "Evoluzione", un termine scomodo 131 V DALL'ORIGINE DELLE SPECIE A OGGI: IL PLURALISMO DARWINIANO 139 1. La selezione: principale, ma non unica, causa dell'evoluzione 139 2. La classificazione genealogica e il "principio di Darwin" 142 3. Il problema degli stadi incipienti 147 4. Perfezionamento graduale: le prima soluzione darwiniana alla "maggiore difficoltà di tutta la mia teoria" 149 5. Cooptazione funzionale: la seconda soluzione darwiniana alla "maggiore difficoltà di tutta la mia teoria" 153 6. Non tutto è adattamento: la terza soluzione darwiniana alla "maggiore difficoltà di tutta la mia teoria" 158 7. Il pluralismo di Darwin e le sue predizioni rischiose 162 8. Due significative omissioni 167 9. L'antico fraintendimento degli "anelli mancanti" 170 10. Più tempo, più tempo per l'evoluzione 176 11. Il posto di Dio ne L'origine delle specie 179 12. "Non sono fatto per seguire ciecamente la guida degli altri" 186 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 189 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Il successo duraturo di un libro può dipendere anche dall'efficacia dei limiti estremi che lo cingono. L'origine delle specie di Charles R. Darwin (d'ora in poi OdS) presenta un incipit e una chiusa memorabili. Quest'ultima esordisce con una celebre frase di commento che è diventata il logo rivoluzionario del volume: "Vi è qualcosa di grandioso in questa visione della vita" (p. 554). La genesi di questi due passi, inizio e fine del capolavoro darwiniano, descrive al meglio la sofferta costruzione intellettuale, durata più di vent'anni, dell'opera maggiore del naturalista inglese. L'introduzione inizia con alcune note personali, di cui Darwin si scusa e il cui scopo è "dimostrare che non sono stato troppo precipitoso nella decisione". In effetti, come vedremo, i venti anni di attesa attestano la lunga ponderazione dell'opera darwiniana: Durante il mio periodo d'imbarco sulla regia nave Beagle, in qualità di naturalista, fui molto colpito da alcuni fatti relativi alla distribuzione degli esseri viventi nell'America meridionale, e ai rapporti geologici fra gli abitanti attuali e quelli estinti di quel continente. Come si vedrà negli ultimi capitoli di questo libro, tali fatti sembravano portare un po' di luce sull'origine delle specie, questo mistero dei misteri, come è stato chiamato da uno dei nostri migliori filosofi. (p. 77) Quasi cinquecento pagine dopo, ecco la celeberrima chiusa di OdS: Vi è qualcosa di grandioso in questa visione della vita, con le sue diverse forze, originariamente impresse dal Creatore in poche forme, o in una forma sola; e nel fatto che, mentre il nostro pianeta ha continuato a ruotare secondo l'immutabile legge della gravità, da un così semplice inizio innumerevoli forme, bellissime e meravigliose, si sono evolute e continuano a evolversi. (p. 554) In che cosa consiste esattamente la "grandiosità" (there is grandeur in this view of life) a cui fa riferimento Darwin? E soprattutto, come può un processo cieco, senza fini e senza preveggenze, un lento meccanismo statistico e demografico, costruire la maestosità della visione della vita darwiniana, con le sue endless forms most beautiful and most wonderful? Che cosa ha da insegnarci ancora oggi la risposta che Darwin diede a queste domande? La chiusa di OdS ha una storia peculiare, perché negli scritti privati di Darwin la vediamo ricomparire a più riprese, in versioni leggermente diverse ma con un marchio inconfondibile, a molti anni di distanza l'una dall'altra, come se quel celebre commiato, da consumato attore che lascia il palcoscenico dopo averci raccontato la sua visione, fosse stato lungamente studiato e soppesato parola per parola. Noi sappiamo che Darwin stava lavorando alla sua "view of life" dai tempi dei Taccuini della Trasmutazione, ovvero da più di vent'anni prima del 1859, due decenni di segretezza e reticenze interrotti bruscamente dall'annuncio che un altro naturalista, Alfred R. Wallace, era giunto dopo di lui alle medesime conclusioni (Darwin, 1842-1858; Quammen, 2006). Il periodo di stesura dei Taccuini va dal 1836 al 1844 e corrisponde alla fase di massima diversificazione iniziale degli interessi di Darwin (Darwin, 1836-1844). È appena tornato dal viaggio di circumnavigazione del globo durato cinque anni a bordo del Beagle e la sua curiosità enciclopedica spazia fra campi disparati che da lì a qualche decennio diventeranno dominio di competenze settoriali. Il Red Notebook viene inaugurato da Darwin già a bordo del Beagle nella primavera del 1836 e compilato in viaggio nell'Atlantico, sulla via del ritorno. Le prime osservazioni del Taccuino Rosso fanno intravedere quale sarà lo scenario maestoso dentro il quale nasce la teoria dell'evoluzione: le trasformazioni incessanti della superficie instabile del pianeta e la geologia imparata dal maestro Adam Sedgwick e dai Principles of Geology di Charles Lyell come modello di scienza rigorosa (p. 72 dell'originale), perché capace di applicare i suoi schemi semplici al mondo intero (p. 18). Darwin sente il bisogno di mettere ordine alle osservazioni da buon induttivista "baconiano", come si definirà non senza qualche depistaggio nell' Autobiografia iniziata nel maggio del 1876 (Darwin, 1958). Trasferitosi a Londra dopo il viaggio, inizia la sua carriera accademica come geologo e comincia a raccogliere i commenti dei maggiori esperti britannici a cui aveva affidato, distribuiti per competenza, i suoi preziosi reperti. In pochi mesi nei cinque Taccuini successivi (da A a E), con una scrittura diaristica da appunti di laboratorio, vediamo così innalzarsi l'intera architettura teorica darwiniana: la discendenza con modificazioni da antenati comuni (visibile nel tempo, attraverso i fossili, e nello spazio, attraverso la biogeografia); la moltiplicazione e l'estinzione delle specie (con una prima fase "saltazionista" che verrà poi negata in virtù dell'adesione all'uniformitarismo di Lyell, tradotto nel gradualismo evolutivo); la lotta per l'esistenza (ispiratagli dalla lettura di Thomas Malthus nel settembre del 1838); la selezione naturale (così definita poi nello Sketch del 1842); l'analogia con la selezione artificiale. | << | < | > | >> |Pagina 10Darwin sta entrando in quello che ancora oggi è il cuore della spiegazione evoluzionistica e uno dei grandi temi della filosofia della biologia. Si interroga cioè su come tenere insieme il continuo e il discreto, in altri termini la trasmutazione di una specie nell'altra senza soluzioni di continuità ma anche l'evidente distinzione fra specie diverse, sia nello spazio (con variazioni geografiche continue, e tuttavia specie distinte) sia nel tempo (con specie estinte, specie discendenti simili e non sempre gradi intermedi di transizione fra l'una e l'altra). Ne risulterà una rivoluzione intellettuale e metodologica, che non corrisponde soltanto e semplicemente alla confutazione della teoria fissista delle creazioni speciali (già messa in dubbio da più parti) ma all'esordio del pensiero popolazionale unito alla visione ramificata della storia naturale (ciò che oggi definiamo "tree thinking").Le basi sono gettate per il ponte successivo, quello fra la visione ramificata della natura, già familiare agli anatomisti dell'epoca, e la sua idea di trasmutazione. Inizia il Taccuino B, rileggendo Zoonomia, l'opera proto-evoluzionistica del prorompente nonno Erasmus, la cui arditezza teorica era già stata definita da Coleridge "darwineggiare". Unisce con formidabile intuizione sintetica i dati riguardanti il tempo e quelli riguardanti lo spazio, in un unico schema: "Gli esseri organizzati rappresentano un albero, irregolarmente ramificato, giacché alcuni rami sono di gran lunga più ramificati di altri. Di qui i generi. Tante gemme terminali muoiono, quante ne sono generate di nuove" (Taccuino B, p. 21). Alla pagina 36 del B – divenuta ormai celebre icona dei Taccuini – scrive d'un tratto "I think" e disegna l'albero della vita. È il suo primo diagramma evoluzionistico, uno spartiacque teorico: la parentela universale di tutti i viventi, uniti da un albero genealogico fittamente ramificato (Eldredge, 2006). Con l'idea di "moltiplicazione delle specie" Darwin intuisce in sostanza che l'intero sistema, essenzialista e creazionista, di classificazione binomiale proposto nel Systema Naturae di Carlo Linneo (la cui decima edizione era uscita nel 1758) corrispondeva in realtà a un ordine di vicinanza e di comparsa nella storia naturale. Pensa di avere fra le mani addirittura un "nuovo sistema della Storia Naturale" (p. 47), perché in grado di sintetizzare in un colpo solo concetti come speciazione, moltiplicazione delle specie, discendenza comune, estinzione. In effetti, c'è qualcosa di "grandioso", ma non basta. Sembra insoddisfatto, sa che gli manca ancora il meccanismo esplicativo centrale. È un momento cruciale, perché ha intuito e descritto a se stesso il grande schema ad albero della discendenza comune (l'evidenza primaria della sua teoria), ma non gli basta e si mette alla ricerca di un processo causale sottostante. Vuole la linfa che alimenta quell'albero. A p. 227 dialoga con se stesso: adesso devo concentrarmi sulle "cause del cambiamento". Il linguaggio cambia: compaiono sempre più frequentemente termini – come "leggi", "cause", "teoria" – connessi all'esigenza di trovare una spiegazione generale di quanto finora osservato, dalla quale poi dedurre nuove interpretazioni e predizioni. | << | < | > | >> |Pagina 12Si sente il Newton della biologia: l'affermazione secondo cui "tutti i mammiferi derivano da un'unica stirpe e furono quindi distribuiti con i mezzi che possiamo riconoscere" ha lo stesso valore epistemologico della forza di gravità nello "spiegare il movimento di tutti i corpi con un'unica legge" (p. 196), e ciò in virtù di un metodo induttivo che da casi particolari porta a generalizzazioni fondate, dalle quali acquisiamo ulteriori conoscenze su nuovi fenomeni prima incompresi. In OdS tornerà più volte l'analogia con la legge di gravitazione universale.Il fatto è che adesso ha una buona descrizione alternativa della storia naturale: la propagazione ramificata di specie "cugine" nel grande albero (o corallo) della vita. Si tratta di "qualcosa che potrebbe rivoltare l'intera metafisica", perché significa che l'uomo e gli animali, "compagni, fratelli in dolore, malattia, morte e sofferenza e fame", condividono un antenato comune (p. 232). Nel processo di indagine darwiniano appare in tutta la sua importanza il rapporto fra l'accumulo tortuoso delle "scoperte" che il naturalista fa e la sua relazione consapevole con esse. Non basta, insomma, scoprire qualcosa: occorre anche esserne coscienti e rendersi conto di avere fra le mani una spiegazione alternativa rispetto a quelle contenute nella "conoscenza di sfondo". Ora gli manca il motore della diversificazione, la legge del cambiamento. Quella che comincia a chiamare quasi affettuosamente "my theory" (alle pp. 219 e 224 del Taccuino B) e che potrebbe avere una conseguenza piuttosto pericolosa: scoprire che la specie pensante forse non è il fine ultimo della storia naturale. Del resto, "gli animali — quelli che abbiamo reso nostri schiavi — non ci piace considerarli nostri eguali. I padroni di schiavi non vorrebbero forse attribuire l'uomo negro a un altro genere?" (p. 231; per capire quanto sia stata importante, nella formazione delle idee di Darwin, la sua opposizione allo schiavismo, si veda Desmond, Moore, 2009). Eppure, "animali con affetti, imitazione, paura, dolore, dispiacere per i morti, rispetto". E conclude: "potremmo essere tutti legati in un'unica rete". Come vedremo, per Darwin l'evoluzione è una trama ecologica di relazioni complesse. | << | < | > | >> |Pagina 16Ora dunque ha una "teoria su cui lavorare" (Autobiografia, ed. it. cit. p.). Mentre rimugina su questioni metodologiche, trova la pietra angolare della sua concezione il 28 settembre 1838, leggendo la sesta edizione del 1826 del "Saggio sul principio di popolazione" di Thomas Malthus (uscito la prima volta nel 1798) e gli articoli del botanico svizzero Augustin Pyrame de Candolle sulle severe dinamiche popolazionali in fasi di scarsità di risorse e sulla guerra fra specie rivali. Già da solo aveva ipotizzato che vi potesse essere un controllo "naturale" del numero di organismi, ma è l'economia politica di Malthus a mostrargli – sulla scorta di un'intuizione che era già stata di Benjamin Franklin – che le popolazioni biologiche lasciate a se stesse tenderebbero a proliferare indefinitamente in modo accelerato e che soltanto la scarsità di risorse disponibili e di mezzi di sussistenza le mantiene entro dimensioni equilibrate in virtù di una lotta per la sopravvivenza che tempra i sopravvissuti. Non minore influenza sembra avere avuto, in quelle settimane, la lettura de La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, con la sua interpretazione della concorrenza individuale come motore del cambiamento in un regime di laissez faire: il vantaggio del singolo, se lasciato opportunamente esprimere nella libera iniziativa, diventa vantaggio per la nazione.Ancora una volta, alternandosi tra i taccuini scientifici e quelli che diremmo oggi "filosofici" (ovvero concernenti le "ricerche metafisiche" dei Taccuini M e N), come in tutte le accelerazioni cruciali della sua creatività scientifica usa una metafora, un'analogia, un ponte fra idee, che tornerà anche al centro di OdS: Si potrebbe dire che esiste una forza come di centomila cunei che cerca di spingere ogni genere di struttura adattata nelle lacune dell'economia della Natura, o piuttosto di formare lacune spingendo fuori i più deboli. La causa finale di tutta questa azione dei cunei deve essere quella di vagliare la struttura appropriata e adattarla al cambiamento. (Taccuino D, p. 135) Ha colto il meccanismo esplicativo che gli mancava, l'origine degli adattamenti, anche se la chiamerà "selezione naturale" soltanto nel 1842. I freni malthusiani in natura sono la competizione, la predazione, la riproduzione differenziale, le estinzioni: tramite essi, la "mano invisibile" della selezione favorisce i portatori di varianti che offrono un vantaggio contingente nella lotta per la sopravvivenza. Con il Taccuino E il romanzo di formazione scientifica del giovane Darwin trova un suo primo, provvisorio compimento. Viene redatto durante quell'autunno, fino al luglio del 1839, rimuginando sull'idea di settembre, che è riassunta in tre principi: 1) I nipoti come i nonni; 2) tendenza a piccoli cambiamenti, specialmente in caso di cambiamenti fisici; 3) grande fecondità rispetto al sostegno [assicurato] dai genitori. (p. 58) Ereditarietà, variazione, eccesso di fecondità, competizione, selezione: sono le basi della sua spiegazione, il nocciolo del programma di ricerca darwiniano. Concentra le sue attenzioni sulla variazione e sull'ereditarietà: ha colto che la selezione agisce sulle differenze, in qualche modo tramandabili, tra organismi in competizione all'interno di una popolazione. Paragona la lunghezza del tempo geologico a ciò di cui sono capaci gli allevatori in pochi anni: un altro dei suoi ponti, fra selezione artificiale e selezione naturale, è lanciato. | << | < | > | >> |Pagina 139Il programma di ricerca darwiniano ha ricevuto, nel secolo e mezzo che ci separa dalla pubblicazione di OdS, conferme sperimentali provenienti da tutte le scienze della vita ed è oggi la pietra angolare del pensiero biologico. OdS è stato a pieno titolo "uno dei principali artefici della trasformazione del pensiero occidentale" (Browne, 2006, ed. it. cit. p. 153). Il libro ha superato la prova del tempo come raramente accade per altri saggi scientifici. Il nocciolo esplicativo darwiniano – per quanto aggiornato, rivisto ed esteso – può essere considerato un'acquisizione scientifica corroborata oltre ogni ragionevole dubbio. Ciò è avvenuto anche se, come abbiamo visto nel terzo capitolo, Darwin non aveva le idee chiare sulle cause della variazione e sui meccanismi dell'ereditarietà, l'altro lato del suo lungo ragionamento che si ricomporrà solamente negli anni trenta del Novecento con la genetica di popolazioni.
Le evidenze a favore non sono oggi più soltanto di tipo
paleontologico-storico e anatomico-comparativo, ma anche di tipo molecolare e
sperimentale. L'evoluzione si vede nei fossili, lungo i milioni di anni, e nelle
migliaia di generazioni di batteri osservabili in un mese in laboratorio.
Naturalmente, come ogni programma di ricerca scientifico in espansione,
ha dovuto affrontare riforme profonde a causa del vastissimo e radicale
arricchimento della sua base empirica, in particolare nei campi della genetica,
della biologia dello sviluppo e dell'ecologia. A tal proposito è importante
notare che, rispetto ad alcuni "indurimenti" teorici a senso unico degli
epigoni novecenteschi, l'originale formulazione della teoria darwiniana in
OdS presenta un particolare pluralismo esplicativo su base probabilistica
che si rivela oggi di forte attualità.
1. La selezione: principale, ma non unica, causa dell'evoluzione Darwin non usa mai argomenti di esclusività, nemmeno per la selezione naturale, preferendo affidare le sue spiegazioni a una miscela di schemi plurali e valutando poi caso per caso la frequenza relativa di un modello esplicativo rispetto a un altro. È una metodologia di notevole modernità, oggi divenuta prevalente dopo ripetuti tentativi di cristallizzare la teoria evoluzionistica attorno a pochi principi forti. L'introduzione di OdS si conclude con un'affermazione particolarmente sentita (dato che è ripetuta più volte anche nella corrispondenza privata) e per certi aspetti sorprendente, secondo la quale: "la selezione naturale è stata il più importante, ma non l'esclusivo mezzo della modificazione" (p. 81) (the most important, but not the exclusive, means of modification). Nella sesta e ultima edizione del 1872, appena terminata la sintesi finale della sua teoria nelle conclusioni, Darwin aggiunge una dura risposta a quei critici che lo avevano accusato di sottovalutare il ruolo di variazioni che in natura sopravvivono indipendentemente dalla selezione naturale. Così ripete a dodici anni di distanza la non esclusività della selezione:
Sembra che io abbia in precedenza sottovalutato la frequenza e il valore di
queste ultime forme di variazione, come conducenti a permanenti modificazioni
della struttura indipendentemente dalla selezione naturale. Ma poiché le mie
conclusioni sono state di recente molto travisate, e si è affermato che io
attribuisco la modificazione delle specie esclusivamente alla selezione
naturale, mi si permetterà di far notare che nella prima edizione di quest'opera
e successivamente ho posto nella posizione più evidente – cioè alla fine
dell'introduzione – le seguenti parole: "Sono convinto che la selezione naturale
è stata il più importante, ma non l'esclusivo mezzo della modificazione". Ciò
non ha valso. Grande è il potere di un'interpretazione pertinacemente erronea
(steady misrepresentation);
ma la storia della scienza dimostra che fortunatamente tale forza non persiste a
lungo.
(p. 545)
Darwin insistette molto sulla priorità causale ma anche sulla non esclusività della selezione naturale, non soltanto per ragioni di prudenza metodologica ma anche perché la spiegazione evoluzionistica a suo avviso richiedeva schemi plurali, ciascuno con una propria importanza e frequenza relativa. Le ragioni della non esclusività della selezione naturale sono state lungamente sottostimate, ma oggi appaiono centrali sia per capire l'impianto darwiniano sia per interpretare la biologia evoluzionistica contemporanea. In quella non esclusività (posta circolarmente in OdS nell'introduzione e nella conclusione) si condensa infatti il nucleo bipartito del programma di ricerca darwiniano: selezione naturale e discendenza comune. In alcuni casi, come quello della sterilità dei primi incroci e degli ibridi tra due specie distinte, abbiamo visto che Darwin semplicemente rinuncia alla selezione naturale come causa, perché non ci sono i presupposti del suo funzionamento (un vantaggio diretto individuale o indiretto per la comunità). Quei caratteri sono sorti come effetti collaterali casuali di modificazioni avvenute altrove, nei sistemi riproduttivi. In altre circostanze Darwin sembra però incline ad ammettere che esistano veri e propri "principi indipendenti dalla selezione naturale" (p. 354), cioè modalità alternative di fissazione dei tratti. Le "altre cause" alle quali sta pensando sono principalmente tre (Sober, 2011, pp. 19-21). In primo luogo, come abbiamo visto, in talune circostanze può valere per Darwin il meccanismo dell'uso e del disuso, con ereditarietà successiva (in alcuni casi lamarckiana, in altri per selezione naturale): "il non uso delle parti ne determina la riduzione, e il risultato è ereditario" (p. 522). In secondo luogo, è assai frequente il mantenimento, nei discendenti, di tratti ancestrali non più adattativi o persino disadattativi, come una sorta di inerzia evolutiva o "influenza ancestrale", riscontrabile per esempio in strutture rudimentali rimaste come vestigia del passato (nella specie umana, le ossa "caudali" in fondo alla colonna vertebrale e molti altri) (p. 521). Anche la migrazione, per esempio su un'isola, può generare strutture non adattative, perché tratti un tempo utili smettono di esserlo e non vengono rapidamente dismessi: i semi uncinati di alcune piante insulari (senza più la pelliccia di alcun quadrupede per trasportarli) o "le ali rudimentali sotto le elitre saldate di molti coleotteri insulari" (p. 466). In terzo luogo — ed è forse la causa alternativa più importante del cambiamento per Darwin dopo la selezione naturale — gli organismi sono pieni di strutture inutili frutto della correlazione con caratteri adattativi, i quali hanno trascinato con sé effetti collaterali neutrali rispetto alla selezione o talvolta persino deleteri. La selezione dunque non è l'unica causa di evoluzione, il che significa peraltro che non è onnipotente: tollera non soltanto altri meccanismi causali, ma anche la presenza di frequenti caratteri non adattativi, di inerzie, di ridondanze. Già nel capitolo secondo Darwin definiva le "variazioni disordinate" nei generi polimorfici, in particolare nei brachiopodi, come "né utili né dannose alle specie" (p. 116) e dunque bellamente ignorate dalla selezione naturale. Le correlazioni strutturali mostrano anche un altro fatto rilevante, che abbiamo già sottolineato: per Darwin gli esseri viventi non sono collezioni di tratti distinti, divisibili in unità separate come lo sono le molecole in atomi. L'azione graduale della selezione naturale su una parte dell'organismo si ripercuote sulle altre, producendo effetti sistemici che alterano l'organizzazione complessiva dell'organismo. A volte in OdS troviamo passi in cui a questi processi non selettivi viene assegnata una tale importanza da mettere in dubbio persino l'idea che la selezione sia la principale causa del cambiamento. In realtà, la priorità esplicativa della selezione si basa sull'impianto teorico prevalentemente funzionalista di Darwin: i meccanismi selettivi sono quelli che spiegano con maggiore frequenza l'evoluzione di un tratto nelle popolazioni biologiche (dunque è il pattern con maggiore frequenza riscontrata, osservazione valida ancora oggi); la selezione è anche più potente e pervasiva, rispetto alle altre cause, nel fissare i tratti adattativi principali degli organismi (negli organi di senso, di movimento e di comunicazione, nelle strategie predatorie e antipredatorie, e così via); infine, i meccanismi non selettivi come l'influenza ancestrale spiegano più che altro il mantenimento di certi caratteri e non il loro effettivo cambiamento (che è il precipuo explanandum evoluzionistico). | << | < | > | >> |Pagina 1586. Non tutto è adattamento: la terza soluzione darwiniana alla "maggiore difficoltà di tutta la mia teoria"In questa modificazione per altre funzioni, anche del tutto differenti, torna sotto altra forma la dicotomia fondamentale fra "unità di tipo" interne e "condizioni di esistenza" esterne. La selezione naturale non agisce dal nulla, ma a partire dal materiale esistente. Anche se a prevalere è sempre il principio di utilità funzionale (p. 257), parti dell'organismo selezionate per una certa funzione ancestrale vengono "riadattate" o cooptate per funzioni nuove, eventualmente incrementando la loro complessità strutturale. Fin qui la continuità funzionale è salva, perché è plausibile che la funzione ancestrale continui a essere soddisfatta anche quando la nuova funzione sta subentrando, e poi prevalendo, in virtù di nuove pressioni selettive. L'ipotesi di Darwin è quindi che sia fondamentale considerare la "probabilità di conversione da una funzione in un'altra" (p. 244), un argomento della massima importanza che si accorge di non aver trattato con sufficiente ampiezza nelle edizioni precedenti di OdS (p. 298). Rispondendo in definitiva a Mivart, né il 5% né il 100% di un'ala si è evoluto "per" volare (come spesso sentiamo invece dire nei racconti divulgativi sull'evoluzione), e meno che meno la struttura alare è comparsa all'improvviso pronta all'uso. È stata piuttosto convertita più volte attraverso ingegnosi e contingenti riusi, dalla termoregolazione al bilanciamento della corsa, al volo planato, e da questo al volo battuto. La funzione adattativa può però anche essere andata persa recentemente, come è successo per tutti gli uccelli inetti al volo e per le loro ali atrofizzate, dagli struzzi al cormorano nero delle Galápagos, ai pinguini. Il quadro delle risposte alle obiezioni sembra completo, ma Darwin ha in serbo una terza possibilità, che è emblematica del suo pluralismo esplicativo. È a questo punto del capitolo sesto (e poi nel settimo) che subentra un terzo possibile scenario esplicativo, più sorprendente perché non prevede in questo caso il soddisfacimento continuo di una funzione adattativa. Di nuovo Darwin ricorre all'albero della vita e ai discendenti collaterali per inferire proprietà degli antenati comuni diretti. Capita infatti di pensare, scrive, che le suture del cranio siano un ottimo adattamento per il parto nei mammiferi (favorendo esse la flessibilità in uscita), e che si siano evolute come tali. Scopriamo però che le suture sono presenti anche in rettili e uccelli, i quali devono soltanto uscire da un uovo rotto. Dunque un tratto, che ci sembrava adattativo, è presente in molte specie che non ne fanno alcun uso. Come spiegarlo? Ci rendiamo conto — prosegue Darwin — che quella caratteristica deve essersi prima formata per ragioni legate alle "leggi della crescita" (laws of growth) e solo in seguito è stata "ingaggiata" nei mammiferi come adattamento secondario per il parto: Le suture nel cranio dei giovani mammiferi sono state prospettate come un bell'adattamento per facilitare il parto, e senza dubbio esse l'agevolano, o possono essere indispensabili per quest'atto; ma poiché le suture si riscontrano anche nel cranio di giovani uccelli e rettili, che hanno soltanto da uscire da un uovo rotto, possiamo inferire che questa struttura è sorta dalle leggi della crescita ed è stata utilizzata per il parto negli animali superiori. (p. 255) Le suture quindi vengono prima dei mammiferi e noi lo sappiamo perché le troviamo anche nei rettili e negli uccelli attuali, cioè anche negli altri discendenti di quell'antico antenato comune che evidentemente doveva già possedere le suture. Anche qui la discendenza comune permette di fare ipotesi legate al carattere adattativo o meno di una struttura. Darwin contempla pertanto la possibilità che anche la comparsa di un certo tratto possa frequentemente essere non adattativa, bensì dipendere da vincoli strutturali, da effetti collaterali, dalle correlazioni di crescita e da tutte quelle "variazioni che non sono né utili né nocive" (e proprio per questo attestano la discendenza comune tra le specie). Anche il mimetismo degli insetti sarà cominciato da una "accidentale somiglianza con qualche oggetto comune" (p. 298). La capacità di torsione delle piante rampicanti, alla quale si legano poi la capacità di avvolgimento e la sensibilità al contatto (con gradazioni e combinazioni diverse di pianta in pianta), potrebbe essersi evoluta "ingaggiando" a scopi di arrampicata il movimento di rotazione dei giovani steli, che di per sé è frutto di un vincolo fisico e non ha alcuna utilità: Possiamo capire che se gli steli di queste piante fossero stati flessibili, e se fosse stato loro utile, nelle condizioni a cui sono esposti, di salire più in alto, l'abitudine di compiere movimenti rotatori piccoli e irregolari sarebbe aumentata e sarebbe diventata utile per opera della selezione naturale, fino a trasformare queste piante in specie perfettamente rampicanti. (p. 296) La conferma è data dal fatto che il prerequisito della rotazione (come anche la sensibilità delle foglie e dei piccioli) si ritrova allo stato nascente anche in piante che non sono poi divenute rampicanti. Il nutrito elenco delle sorgenti di strutture non adattative, in seguito convertite a usi funzionali, include in Darwin: variazioni spontanee, tendenza alla reversione, effetti delle "complesse leggi della crescita", correlazioni, compensazioni, variazioni omologhe, pressione esercitata da una parte su un'altra, selezione sessuale di caratteri utili a un sesso ma condivisi anche dall'altro sesso benché inutili (p. 255). Si tratta di un vero e proprio repertorio di strutture non fissatesi per selezione naturale, disponibile per la cooptazione: Ma le strutture così indirettamente acquisite, benché a tutta prima non vantaggiose a una specie, possono in seguito essere utilizzate dai suoi discendenti modificati, in nuove condizioni di vita e con nuove abitudini acquisite. (p. 255) Ciò non significa che tali strutture siano state "create semplicemente per bellezza, per il diletto dell'uomo o del Creatore (quest'ultimo punto, però, è al di là del campo della discussione scientifica) o per puro amore di varietà" (p. 257), il che sarebbe "assolutamente fatale alla mia teoria", nota Darwin. Tuttavia, non deve nemmeno valere una determinazione funzionale stretta per ogni singolo carattere. Nello stesso capitolo sesto troviamo altri esempi di tratti che sono adattativi in alcune specie, ma si trovano anche disconnessi dalla loro presunta funzione in altre specie (la testa calva dell'avvoltoio e del tacchino maschio). Gli uncini di piante come la palma potrebbero aver avuto uno slittamento funzionale dalla difesa dai quadrupedi (funzione primaria) all'arrampicata (funzione secondaria). La verifica dell'ipotesi di cooptazione funzionale sta per Darwin nelle parentele con altre specie e nella distribuzione geografica: Una palma rampicante dell'arcipelago malese si arrampica sugli alberi più alti con l'aiuto di uncini mirabilmente costruiti e disposti all'estremità dei rami, e senza dubbio questo meccanismo è della più alta utilità per la pianta; ma poiché osserviamo uncini pressoché simili in molti alberi che non sono rampicanti e che, come vi è ragione di credere in base alla distribuzione delle specie spinose nell'Africa e nell'America meridionale, servono come difesa dai quadrupedi, così gli aculei nella palma possono originariamente essersi sviluppati per questo scopo, e successivamente essersi perfezionati ed essere stati utilizzati dalla pianta, allorché essa subì ulteriori modificazioni e divenne rampicante. (p. 255) Ma non sempre deve esserci una funzione attiva. Il bambù rampicante della Malesia possiede grappoli di uncini molto utili per attaccarsi ai rami degli alberi. Dovremmo concludere che li ha sviluppati per tale funzione. Tuttavia esistono uncini simili in altre piante che non sono rampicanti. La risposta di Darwin è la stessa delle suture del cranio, cioè leggi di sviluppo. Dunque gli uncini non si sono evoluti per facilitare l'arrampicata, ma c'erano già prima? Trattandosi di un gruppo di specie molto più strettamente imparentate rispetto a mammiferi, rettili e uccelli, è possibile che qui Darwin sottovaluti una seconda ipotesi più semplice, che proprio una valutazione filogenetica in termini di discendenza comune potrebbe suggerire. Se le piante con gli uncini residui ma non rampicanti fossero più recenti delle altre e con un solo antenato comune, vorrebbe dire che gli uncini si sono sì evoluti per l'arrampicata, ma poi alcune specie hanno perso secondariamente la funzione originaria pur trattenendo ancora il tratto (come le ali vestigiali dei pinguini di cui sopra). La funzione ha preceduto il tratto inizialmente, ma poi in alcune specie è andata persa. Dunque la cooptazione funzionale di un tratto inizialmente non adattativo e la perdita secondaria sono due ipotesi alternative per spiegare l'esistenza di specie che conservano strutture prive di funzione. Il grado di probabilità di un'ipotesi rispetto all'altra è spesso dato dall'analisi filogenetica delle parentele tra le specie, da cui si inferisce un ordine cronologico di comparsa e scomparsa di tratti e funzioni connesse. L'analisi darwiniana, in ogni caso, non prevede in alcun modo che la funzione debba sempre precedere, necessariamente, il tratto. A volte le modificazioni sono il risultato diretto di meccanismi non funzionali (leggi della variazione o dello sviluppo, vincoli fisici e strutturali) e poi vengono sovente ingaggiate "per il bene della specie in nuove condizioni di vita" (p. 263). È anche possibile che una struttura inizi a variare per prima, a causa per esempio di correlazioni con altre parti, e che le abitudini dell'animale cambino di conseguenza, e non viceversa come ci aspetteremmo secondo un rigido funzionalismo: un "graduale cambiamento di struttura" può condurre a "mutate abitudini istintive" (p. 331). | << | < | > | >> |Pagina 174Quanto alla presunta "comparsa subitanea" di esseri viventi pluricellulari negli strati inferiori del Cambriano, l'ipotesi è la stessa:Se la teoria è vera, è indiscutibile che prima del deposito degli strati inferiori del Cambriano siano passati lunghi periodi, della durata corrispondente o anche molto superiore all'intervallo fra il Cambriano e l'epoca presente; e che durante questi lunghi periodi il mondo formicolasse di esseri viventi. (p. 396) Forse (ammettendo però che non è una risposta soddisfacente) non si trovano resti precambriani perché non si sono fossilizzati, a causa di assenza di parti molli o a causa di grandi cambiamenti geografici (pp. 398-399). Fatto sta che "il problema è attualmente insolubile e può essere un valido argomento contro le opinioni qui esposte" (p. 398). Le conoscenze attuali ci dicono che l'ipotesi nello specifico non era corretta, anche se è plausibile che l'esplosione cambriana sia stata preceduta da esperimenti più antichi di diversificazione. Inoltre, è un'intuizione formidabile quella secondo cui prima del Cambriano vi sarebbero stati lunghi periodi di precedente evoluzione (per la precisione, oggi sappiamo che dal primo organismo fossile conosciuto ai primi pluricellulari cambriani passano tre miliardi di anni). Anche qui volle però rischiare fino in fondo e giunse a predire che, nel caso in cui si fosse eventualmente scoperto che l'imperfezione della documentazione fossile pre-cambriana non esisteva, l'intera sua teoria sarebbe stata confutata: Chiunque si rifiuti di ammettere l'imperfezione dei documenti geologici dovrà respingere tutta la mia teoria. Perché costui si domanderà invano dove sono le infinite forme di transizione che in passato devono aver collegato le specie strettamente affini o rappresentative che si sono trovate nei livelli successivi della stessa grande formazione. (p. 426). In realtà, anche in questo caso (come per le innumerevoli e lievi variazioni necessarie per arrivare a un organo complesso) si sbagliava due volte: in primo luogo perché i dati paleontologici, nonostante i capricci della fossilizzazione, non erano affatto come le poche pagine strappate da un libro, ma stavano raccontando la verità (oggi sappiamo che le transizioni rapide di faune, le speciazioni "punteggiate" e le estinzioni di massa catastrofiche non sono affatto illusioni, ma si stagliano nella storia della natura come imponenti fenomeni reali); in secondo luogo, si sbaglia perché la continuità di azione della selezione naturale, da una parte, e l'esistenza di alcune tipologie di speciazione rapida e di estinzioni trasversali, dall'altra, non sono in contraddizione e non richiedono di "respingere tutta la sua teoria", bensì di rivederla e di integrarla con nuovi fattori. Il fatto è che Darwin non poteva conoscere i meccanismi genetici della speciazione, nonostante avesse scelto come titolo proprio "l'origine delle specie". Questa ignoranza circa le modalità di nascita effettiva di una nuova forma vivente a livello genotipico lo portò a considerare come inconciliabili la comparsa rapida di una specie, intesa come entità discreta, e la lenta azione continuativa della selezione naturale. In realtà i due processi possono convivere e anzi spesso si integrano. La concezione nominalistica di specie lo porta invece a sottovalutare quella connessione tra isolamento geografico e isolamento riproduttivo che pure aveva intravisto nei Taccuini (suggerita poi anche dal naturalista Moritz Wagner, citato nel capitolo quarto) e che oggi sappiamo essere alla base della nozione biologica di specie (cioè la specie intesa come un insieme di popolazioni riproduttivamente chiuso, un ramoscello separato dagli altri da una barriera riproduttiva, pur con molte eccezioni). Se l'evoluzione non è una scala di progresso lineare, con la specie più "avanzata" che sostituisce le più "arcaiche", bensì un albero fittamente ramificato, con specie cugine che convivono in ogni epoca, allora è proprio la metafora dell'"anello mancante" a essere fuorviante. Chi ne denuncia l'assenza come una confutazione della teoria mostra di non aver compreso, già ai tempi di Darwin e fino a oggi (con argomenti invariati), il succo della spiegazione evoluzionistica. Nella storia naturale non esistono tanto anelli mancanti, quanto ramoscelli mancanti, e le transizioni avvengono attraverso un mosaico di specie, ciascuna con propri adattamenti. Non esistono forme odierne "direttamente intermedie fra un cavallo e un tapiro", spiega Darwin, ma "forme intermedie fra ciascuna specie e un comune ma sconosciuto progenitore; e il progenitore generalmente avrà differito in qualche aspetto da tutti i suoi discendenti modificati" (p. 372). L'evoluzione è un albero. Ecco perché è difficile trovare una fatidica specie singola che rappresenti precisamente la "forma di transizione" o il sicuro antenato comune di un gruppo di specie discendenti. Ciò che possiamo fare è raffinare sempre di più la ricostruzione degli alberi di discendenza. | << | < | > | >> |Pagina 17610. Più tempo, più tempo per l'evoluzioneMa la predizione più rischiosa di tutte fu senz'altro quella relativa all'età della Terra, perché dovette sfidare la maggiore autorità delle scienze dure britanniche, il matematico e fisico scozzese William Thomson, poi noto come Lord Kelvin. I calcoli del tempo trascorso dalla formazione del pianeta e dalla sua solidificazione fino a oggi portavano infatti i fisici dell'epoca a cifre incompatibili con i lunghissimi eoni geologici previsti dall'uniformitarismo di Lyell, e di riflesso dal continuismo gradualista di Darwin. Si tratta, ammette il naturalista inglese nella quinta edizione, di una "formidabile obiezione" (p. 396). Valutando i ritmi di raffreddamento per irradiazione del calore nello spazio esterno, la Terra non poteva essere più vecchia di 400 milioni di anni (da 20 a 400 milioni) e probabilmente non aveva più di cento milioni di anni d'età (da 98 a 200 milioni). Tutto ciò era incompatibile, secondo Lord Kelvin, con un processo lento di discendenza con modificazioni per opera della selezione naturale. Nel 1866 sentenziò quindi — con tutto il suo peso di fisico, ma anche influenzato dall'antievoluzionismo del presbiterianesimo scozzese — che la teoria doveva essere rigettata, e con essa l'uniformitarismo gradualista di Lyell. Storicamente i rapporti tra la teoria darwiniana e i fisici non furono mai molto cordiali. Che si potesse definire "scienza" un miscuglio anomalo di dati osservativi, di analogie e di inferenze, privo di certe dimostrazioni matematiche, non li convinceva affatto. Questo sguardo sospettoso perdura tuttora anacronisticamente in alcuni esponenti delle scienze fisico-matematiche, nonostante la mole impressionante di prove sperimentali che il programma evoluzionistico ha accumulato, ben superiore a quella di molte teorie fisiche che non hanno retto l'urto del tempo. Anche John Herschel, il padre del "mistero dei misteri" da cui siamo partiti in questo libro, si espresse alla fine contro ogni teoria della trasmutazione e bollò la selezione naturale come "teoria della confusione", ma del resto lui credeva in una suprema intelligenza divina nascosta nelle leggi della natura e nella presunta semplicità di un cosmo razionale. Il naturalista inglese fu comprensibilmente indigesto anche per questa categoria di scienziati innamorati dell'ordine e allergici al caso. Darwin accusò il colpo infertogli da Thomson (lo ammette anche nel capitolo conclusivo di OdS) e cercò di sottrarsi all'"odioso spettro" con ipotesi ad hoc un po' malferme, sostenendo che forse le specie per evolversi non avevano avuto bisogno di così tanto tempo come supposto. Nella sesta edizione sembra persino disposto a fare un'eccezione all'uniformitarismo: È tuttavia probabile, come insiste nel dire Sir William Thompson, che in un periodo molto antico il mondo fosse esposto nelle sue condizioni fisiche a cambiamenti più rapidi e violenti (more rapid and violent changes) di quelli attuali; e tali cambiamenti avrebbero operato nel senso di produrre modificazioni corrispondentemente più rapide negli organismi allora esistenti. (p. 396) Nel capitolo quarto, aggiunge nella terza edizione una nota difensiva dove asserisce che "la sola durata di tempo di per sé non fa nulla, né pro né contro la selezione naturale" (p. 169), perché non ci sono leggi innate di cambiamento ma solo un variare di circostanze: il tempo serve "soltanto" per dare possibilità alle variazioni vantaggiose di emergere. Tuttavia, è lo sfondamento del tempo profondo a livello geologico, per centinaia di milioni di anni, ciò di cui ha bisogno. A p. 229 azzarda persino un'ipotesi sulle antiche frammentazioni e ricomposizioni dei continenti, che possono aver affiancato oggi territori abitati da specie separate da lunghissimo tempo (un'altra ragione per la mancanza di forme intermedie). E poi le misure dei fisici hanno scarti troppo ampi, segno che i dati sono ancora incerti. Fece anche qualche timido tentativo di proporre calcoli alternativi di tipo geologico, basandosi sui valori medi di sedimentazione o sull'erosione annuale di alcune scogliere, senza troppo successo: anche le sue misurazioni erano troppo generiche. Alla fine concluse che la durata reale del tempo, per quanto a suo avviso immensa, era una questione irrisolta e che occorrevano dati migliori. Del resto, la difficoltà di percezione del tempo profondo di Lyell è a suo avviso una delle principali cause del ritardo con cui naturalisti e geologi si sono accorti della mutabilità delle specie: "siamo sempre lenti ad ammettere grandi cambiamenti di cui non vediamo i gradi" (p. 546). Nell'ultimo capitolo, nella sesta edizione, la risposta a quella che resta "probabilmente una delle più gravi obiezioni fin qui sollevate" prende questa forma: ... posso soltanto dire, in primo luogo, che non conosciamo con quale ritmo, misurato in anni, le specie cambiano, e in secondo luogo che molti filosofi non sono ancora disposti ad ammettere che noi conosciamo abbastanza della costituzione dell'universo e dell'intero nostro globo per giudicare con certezza della sua età. (p. 532) Tuttavia, con la sua solita precisione e con ardita onestà intellettuale, ammise che un potente sfondamento all'indietro dell'età della Terra (varie volte superiore ai cento milioni di anni scarsi calcolati da Thomson) era indispensabile per tenere in piedi la sua specifica teoria, che altrimenti sarebbe stata da abbandonare. Né 60 milioni né 140 milioni di anni (secondo due ipotesi correnti) erano sufficienti per giustificare le trasformazioni degli esseri viventi dal Cambriano a oggi (p. 396). La selezione opera lentamente e gradualmente, dentro uno scenario geologico antichissimo, perché le variazioni individuali sono piccole, si accumulano a ritmi bassi e i posti nell'economia della natura si liberano con difficoltà. L'evoluzione dunque ha bisogno di centinaia di milioni di anni, anche se "sfortunatamente non abbiamo alcun modo per determinare in anni la lunghezza del periodo necessario a modificare una specie" (p. 377). Capire poi che cosa significa "un milione di anni" è quasi tanto difficile quanto "afferrare l'idea di eternità" (p. 376 e poi p. 546). Giustificazioni a parte, delle due l'una: o aveva ragione Kelvin o aveva ragione lui. Ne va della salvezza della sua intera teoria e lo scrive con durezza: Chi legge la grande opera di Sir Charles Lyell sui Principi di Geologia (1830), che lo storico futuro riconoscerà aver prodotto una rivoluzione nelle scienze naturali, e tuttavia non ammette quanto ampio è stato il periodo di tempo trascorso può chiudere senz'altro questo volume. (p. 373)
Si portò questo cruccio nella tomba, ma la predizione si rivelerà corretta,
perché agli albori del nuovo secolo la scoperta della radioattività permetterà
ai fisici di correggersi, come sempre nella scienza, e di capire che la presenza
di una sorgente interna di calore doveva far retrodatare di molto l'arco di vita
del pianeta. Così la Terra riconquistò non milioni, ma miliardi di
anni di età e lo scenario maestoso del "tempo profondo" spalancò i suoi spazi di
possibilità per l'evoluzione darwiniana. Quasi fosse una premonizione,
nella chiusa di OdS la velata contrapposizione polemica tra l'appassionante
evoluzione delle infinite e meravigliose forme di vita, da una parte, e la
noiosa ripetizione delle orbite dei pianeti sempre uguali a se stesse,
dall'altra, è apparsa a molti evidente. Oggi che con l'evoluzione dell'universo
e della materia devono fare i conti persino i cosmologi e i fisici delle
particelle, gli epigoni di Darwin possono assaporare una succosa rivincita.
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