|
|
| << | < | > | >> |Indice3 Premessa I. Darwin, prima che fosse Darwin 9 Nella stanza di Paley 12 Come mangiarsi le prove di una teoria 16 Sboccia l'albero della vita 18 Predizioni rischiose 20 Molluschi senza dio 23 Il «delitto» si compie 26 L'ipotesi del «disegno» diventa improvvisamente superflua 30 Una rivoluzione non ancora metabolizzata 32 La rinascita fondamentalista della teologia naturale 35 Un gelido venticello interreligioso II. Neocreazionisti all'arrembaggio 39 Teorie e spaventapasseri 42 Attenti al cuneo (della verità) 47 Le presunte prove empiriche 52 Quello che hanno da dirci i fringuelli di Darwin III. Una irriducibile oscurità 60 La complessità cade in una trappola per topi 67 La mistica della complessità 70 Curiosi anacronismi 73 La quarta legge della termodinamica dovrà attendere 77 Una perfettamente illogica inferenza del disegno 82 Volereste su un aereo progettato da Dembski? IV. Gli ultimi campioni del postmodernismo 89 Il neocreazionismo è molto politically correct 91 Tutto è scienza, quindi niente è scienza 93 Una riabilitazione non richiesta 97 La «dichiarazione di guerra» di Dawkins e la proposta di pace di Pigliucci 101 Scricchiola il doppio magistero 103 Personale atto di devozione al dio degli spaghetti 106 Un nuovo paradigma in attesa di conferma? V. La scienza dell'imperfezione 112 Dalla strategia del cuneo alla strategia della sponda 117 Il disegno e il progresso 120 Chi ha bisogno delle cause finali? 126 La blasfemia del disegno intelligente 128 La differenza del laico 133 Epilogo |
| << | < | > | >> |Pagina 26L'ipotesi del «disegno» diventa improvvisamente superfluaQuesta è l'idea risolutiva che cercava dal 1837, un principio causale in grado di spiegare la realtà dell'evoluzione, ma sa che assomiglia sempre piú a un «delitto da confessare» per la buona società dell'epoca. Il motivo è semplice: si tratta di un meccanismo automatico, di tipo demografico e statistico, completamente naturale, che non richiede alcuna causa finale, alcun progetto, alcuna mente superiore all'opera, che non prevede il futuro, ma che ha il pregevole difetto di spiegare l'evoluzione di tutte le specie, compresa la nostra. Con la teoria della selezione naturale qualsiasi «disegno» insito nella natura diventa per la prima volta un'ipotesi superflua sul piano strettamente scientifico, non soltanto filosofico. La cecità cumulativa del processo selettivo, una volta corroborata sul piano empirico, è la dimostrazione scientifica ultimativa che era mancata a David Hume nella sua pur efficacissima critica alla teologia naturale. Nei taccuini metafisici Darwin si mostra fortemente debitore verso Hume, ma anche consapevole di aver trovato la ragione scientifica per poter essere «contro ogni piano provvidenziale». Meglio allora continuare a tenerla nel cassetto, anche perché nel frattempo, mentre nel 1844 Darwin compila l' Essay - una versione piú estesa dello Sketch da affidare alla moglie per un'eventuale pubblicazione postuma in caso di prematura scomparsa - la pubblicazione delle Vestiges of the Natural History of Creation di Robert Chambers viene letteralmente presa d'assalto dagli oppositori per il solo fatto di aver parlato di evoluzione, pur in un contesto creazionista. Darwin si intimorisce e sa che deve raccogliere molte altre prove. Temporeggia lungamente con una monografia sui cirripedi e con gli studi sull'allevamento. Ma i motivi di segretezza non diminuiscono con gli anni. Nel 1851 perde la figlia secondogenita, di dieci anni, l'amata Annie. È una svolta nella biografia di Darwin, che comincia a manifestare esplicitamente la perdita di qualsiasi fede in un Onnipotente capace di permettere simili sofferenze. La teodicea darwiniana si estende ben presto alla natura, le cui opere non certo benigne vengono associate nel 1856 all'azione perversa di un «cappellano del diavolo». Il rifiuto del creazionismo e di qualsiasi «disegno intelligente» assume toni molto netti: «sarebbe davvero una gran strana coincidenza se tutti questi dati in concordanza con la mia teoria fossero stati creati appositamente da Dio». E poco oltre nello Sketch del 1842 assume toni quasi di scherno descrivendo tutti i «distinti atti di volontà del Creatore» che sarebbero necessari. Nel frattempo la base empirica della teoria dell'evoluzione si allarga e di pari passo aumentano le predizioni confermate. Già nel 1842 e poi nel 1844 Darwin osserva che l'evoluzione è resa evidente dall'«unità di tipo» esibita dagli organismi, cioè dalle strutture omologhe, per esempio negli arti, che accomunano organismi imparentati. Ciò avviene perché le forme originarie subiscono modificazioni nel tempo a causa delle differenti «condizioni di esistenza» in cui sono immerse le specie, ma conservano tracce della loro origine comune. Le architetture animali non sono quindi «archetipi» senza storia, ma conformazioni piú antiche soggette poi all'azione della selezione naturale. Può anche succedere l'inverso, cioè che animali non strettamente imparentati, come un uccello e un pipistrello, finiscano per assomigliarsi molto a causa di pressioni selettive simili, che producono strutture «analoghe» come le loro ali. In questo caso la somiglianza non è la prova di una discendenza comune ravvicinata, ma di adattamenti convergenti. Darwin vede l'origine comune delle specie anche negli stadi incipienti dello sviluppo. Gli embrioni di specie imparentate mostrano forti somiglianze strutturali iniziali, che richiamano il loro antenato comune: per esempio i pesci nel caso dei mammiferi. Altre prove ancora di evoluzione sono gli organi vestigiali, che lo affascinarono fin da subito, cioè strutture arcaiche inutilizzate ma non ancora dismesse, evidenza schiacciante di una discendenza comune. Si rende conto anche degli elementi di plasticità e di ridondanza che caratterizzano il vivente e che saranno decisivi per superare le ultime obiezioni dei creazionisti. Nello Sketch scrive: «Si può prevedere che organi che si sono evoluti per un certo uso possano essere rivolti ad altro scopo, ma possano anche diventare semplicemente inutili e continuare a esistere solo per tendenza ereditaria». Inoltre possono esistere «parti create per nessun uso nel tempo passato e presente». Nel 1856 si accinge a redigere, finalmente, il trattato che ha in mente da diciotto anni, che avrebbe dovuto recare il titolo di «Natural Selection», ma che nessuno sa per quanto a lungo ancora avrebbe tenuto segreto. Gli eventi precipitano due anni dopo, quando gli arrivano dall'arcipelago malese il manoscritto e la lettera del naturalista Alfred Russel Wallace, piú giovane di quattordici anni, giunto a conclusioni molto simili grazie alle minuziose osservazioni sulla divergenza delle specie a causa della competizione per le risorse. È obbligato a inserire estratti del suo Essay del 1844 in una pubblicazione congiunta con Wallace alla Linnaean Society nel 1858. Un anno dopo, il 24 novembre del 1859, andrà alle stampe in tutta fretta L'origine delle specie, finirà per sempre l'epoca del Darwin segreto e si spalancherà al genere umano la possibilità di una concezione completamente laica del vivente. Mentre rimarrà a scrivere, a progettare esperimenti e a passeggiare nella sua Down House, schivo e prudente fino alla morte sopraggiunta nel 1882, il suo nome farà il giro del mondo e sarà oggetto di innumerevoli controversie. Nello Sketch del 1842, che documenta con certezza la sua priorità sull'idea di selezione rispetto a Wallace, dopo aver citato come splendido esempio di evoluzione la discendenza comune delle specie di rinoceronte asiatiche ed essersi posto per l'ennesima volta la domanda su come possa darsi ragione di questi infiniti dettagli di diversità un creazionista, con tono quasi aulico aveva concluso: «I miei modelli cessano di essere espressioni metaforiche e diventano fatti intelligibili. Noi non guardiamo piú un animale come un selvaggio guarda una nave o una grande opera d'arte, cioè come un qualcosa di interamente al di fuori della sua comprensione; ma proviamo molto piú interesse nell'esaminarlo». Potrà sembrare strano, ma un secolo e mezzo dopo questa scoperta alcuni preferiscono continuare a guardare gli animali come il selvaggio di Darwin guarda una nave all'orizzonte: come il prodotto di una mente irraggiungibile, tanto lontana da non meritare alcuna curiosità scientifica ulteriore. Abbandonare il mondo di Paley per entrare in quello di Darwin non è cosí facile. Cerchiamo di capire perché. | << | < | > | >> |Pagina 77Una perfettamente illogica inferenza del disegnoNell'opera del nostro matematico dell'ID lo schema di fondo è un raffinamento dell'impianto di Behe: dove vi è bassa probabilità, ma accompagnata da un pattern riconoscibile, dovremmo inferire la presenza di un disegno intelligente, non meglio specificato, come causa del processo. Se diamo per buona una simile definizione, i problemi fioriscono come rose in primavera. Lo schema di inferenza produce falsi negativi: sembra che non vi sia un progetto, e invece c'è. Per esempio, una stringa apparentemente casuale di segni potrebbe risultare incomprensibile perché non ne conosciamo il codice di decifrazione o il linguaggio, e tuttavia essere frutto della deliberazione di un agente intelligente che ha deciso di simulare la casualità per non farsi scoprire. In questo caso, non vediamo alcun pattern riconoscibile, eppure c'è un progetto. L'inferenza di Dembski produce anche falsi positivi. Alcune sequenze particolarmente improbabili di eventi (chi non ha mai incontrato un amico alla stessa ora dello stesso giorno nella stessa strada, ad alcuni anni di distanza?) finirebbero per essere assegnate a progetti - nella convinzione che ogni volta che riconosco uno schema improbabile significa che «qualcuno» ha sistemato intenzionalmente le cose affinché quello schema si verificasse davvero - quando in realtà è soltanto una coincidenza a cui noi soggettivamente attribuiamo un «senso» in base alle nostre conoscenze di sfondo. Vincere tre volte di seguito alla lotteria con numeri che finiscono per due implicherebbe un disegno? Senza contare tutti i casi di pattern illusori, in cui vi è uno schema riconoscibile e improbabile, ma nessun disegno se non nella nostra fantasia. Un profilo di montagna che assomiglia a una donna che dorme è una concatenazione di improbabilità, una forma complessa, frutto di una normale illusione prospettica. A queste categorie di falsi positivi possiamo poi aggiungere tutti i casi in cui, anche senza entrare nel mondo del vivente, strutture fisiche dinamiche producono comportamenti ordinati: un uragano ha una forma riconoscibile generata da processi di autorganizzazione che emergono in sistemi aperti lontani dall'equilibrio. Non è necessario ricorrere ad alcun disegno, interno o esterno che sia, per spiegare il fenomeno. Fin qui, potremmo pensare che si tratti di un ragionamento valido, anche se pieno di eccezioni. La fallacia dell'inferenza di Dembski è invece molto piú radicale. Essa si basa sull'assunto che ciascun evento possa essere attribuito esclusivamente a uno soltanto di questi fattori: o una legge (la necessità); o il caso; o un progetto intelligente. Quindi se eliminiamo il caso e la legge, non resta che il disegno. Ma come ogni logico sa queste non sono affatto categorie mutuamente esclusive. Esiste un'intera tassonomia di eventi causati da un progetto che però opera tramite una legge (il lancio di un arciere) e magari con il contributo significativo del caso (un soffio di vento che devia la traiettoria). Nel lancio di una moneta il caso opera regolarmente attraverso le leggi della fisica. Viceversa in altri casi, studiati dalle scienze statistiche, eventi casuali seguono loro specifiche leggi, quindi la legge si esplica in qualche modo attraverso il caso. E poi di solito sono in gioco cause multiple, cause condizionali, retroazioni, causalità omissive. Come per i concetti di complessità e di informazione, il ragionamento dei sostenitori dell'ID si basa su una teoria della causalità caricaturale. Come se non bastasse, Dembski usa in modo palesemente scorretto il concetto stesso di probabilità, che non è mai quantificata e non risulta trattabile matematicamente. Si limita a questi assiomi: alta probabilità implica legge; probabilità intermedia (qualunque cosa significhi) implica caso; bassa probabilità di un evento «specificato» implica progetto intelligente. «Specificato» significa che un evento esibisce uno schema riconoscibile, ma ne dà una definizione puramente soggettiva, del tipo «riconoscere la forma di una costellazione nei sassi accumulati ai bordi della strada». Ma la probabilità non è una categoria astratta e indipendente che possa essere stimata a prescindere dalle cause dell'evento e senza avere informazioni sulla natura dell'evento. L'autore afferma che «noi attribuiamo gli eventi a leggi perché la loro probabilità è alta». Peccato che l'argomento vada diametralmente rovesciato: la probabilità di un evento è alta perché è dovuto a una legge, non il contrario. Lo stesso vale per il caso (prima dobbiamo ipotizzare che si tratti di un processo casuale, poi ne valutiamo le probabilità) e per il riconoscimento di uno schema, cioè di un fattore che influisce sulla valutazione della probabilità di un evento rispetto all'ipotesi che sia frutto del puro caso. Ciò che noi facciamo comunemente è usare il calcolo delle probabilità, la statistica e il senso comune per valutare se un oggetto è presumibilmente frutto di un progetto umano. I fattori influenti sono tantissimi, comprese le nostre conoscenze di sfondo: se leggiamo un poema o osserviamo una macchina, sappiamo che è un artefatto perché ha un pattern specifico, un'organizzazione che riconosciamo come frutto di un'attività intelligente. Se troviamo un codice incomprensibile, non vediamo un pattern riconosciuto ma sappiamo che potrebbe essere frutto di un progetto. Si tratta di un'inferenza comunque mai assoluta, sempre probabilistica, da calibrare caso per caso in base alle esperienze pregresse, il cui obiettivo è dirimere la questione se un oggetto sia l'esito di processi naturali spontanei o di una progettazione umana. Dembski finge di ignorare che la selezione naturale produce normalmente «complessità specificata» in ogni organismo e invece, nella sua ricerca di un'inferenza logica stringente per dimostrare l'azione di un disegno divino, si imbarca in una «Legge di bassa probabilità» che cosí recita: «Eventi specificati di bassa probabilità non avvengono per caso». Abbiamo visto che la bassa probabilità da sola non esclude affatto il caso. Né lo esclude il fatto che l'evento abbia un pattern e sia specificato. Per esempio, un arciere esperto colpisce il bersaglio da lunga distanza. Subito dopo un arciere dilettante fa lo stesso, contro ogni previsione. Perché nel primo caso attribuiamo l'evento a un progetto, mentre nel secondo al caso? È chiaro che si tratta di un calcolo probabilistico dipendente dal contesto e dalle conoscenze di sfondo. La discriminazione fra un evento casuale e un evento intenzionale dipende da un'ampia classe di fattori probabilistici: se vedo una poesia scritta su un foglio o mi imbatto nell'orologio di Paley intuisco che si tratta di progetti umani. Se intravedo al microscopio una catena proteica non ho argomenti analogamente stringenti per dimostrare che si tratta del prodotto di un progetto intenzionale. E di chi poi? La complessità ridondante delle strutture biologiche, con il suo carico di informazione, di per sé non implica che esse siano frutto di un progetto intelligente equiparabile a quello umano. Possiamo anche esplorare la strada inversa, ovvero chiederci quali caratteristiche ci aspettiamo di trovare in un oggetto progettato intelligentemente, formalizzarle e quindi confrontarle con le caratteristiche che riscontriamo negli oggetti piú complessi presenti in natura. Chi ci ha provato ha notato che le proprietà e l'evoluzione degli artefatti sono completamente diverse da quelle dei sistemi biologici a base genetica. Inoltre, è ancor meno stringente sul piano logico attribuire quella complessità a un progetto non solo intelligente ma anche sovrannaturale: se anche una struttura ci sembrasse frutto evidente di un disegno (per esempio, un paio di occhiali o uno specchio per una popolazione di indigeni che non ne ha mai visto uno) e noi la attribuissimo automaticamente a forze sovrannaturali, staremmo commettendo un'assunzione arbitraria frutto semplicemente di una provvisoria ignoranza, giacché quell'oggetto è il risultato di processi del tutto naturali, anche se intelligenti.
Se un testo trasmette un messaggio riconoscibile
è molto probabile che sia frutto di un progetto umano, anche se non è escluso
che possa essere il frutto di una sequenza casuale di eventi (ma è meno
probabile), ma l'informazione è indifferente rispetto al
messaggio e quindi non può essere la prova di una
sorgente intelligente. Il DNA trasporta informazione, sí, ma non c'è modo di
asserire che trasporti anche un messaggio predefinito in modo intelligente.
Anche il caso - e a maggior ragione un'esplorazione
casuale aiutata da una selezione non casuale, cosí come un processo di
autorganizzazione spontanea - può
generare informazione. L'inferenza di un disegno finalizzato in natura è dunque
del tutto inconsistente.
E non è da impenitenti materialisti notare che una
catena di aminoacidi è qualcosa di assai differente da
un sonetto del Petrarca.
Volereste su un aereo progettato da Dembski? Le vie dell'inferenza di Dembski sono dunque ostruite. Vediamola però nella sua formulazione completa: 1) un evento E (per esempio, la vita) è avvenuto; 2) E (la vita) è un evento specificato (ha un pattern riconoscibile); 3) se E (la vita) è dovuto al caso, allora E ha una bassa probabilità; 4) Eventi specificati di bassa probabilità non avvengono per caso; 5) E (la vita) non è dovuto a regolarità; 6) E può essere dovuto o a regolarità, o al caso o a un progetto; 7) quindi, se ne deduce che E è dovuto a un progetto. Sono sei premesse e una conclusione. In ordine: la premessa 4 non regge per tutti i motivi precedenti e rappresenta l'arco di volta di tutto lo schema. Si potrebbe soltanto dire: «eventi specificati, la cui probabilità stimata secondo l'assunzione che siano avvenuti per caso risulta essere bassa, probabilmente non sono avvenuti per caso», un'asserzione corretta che in pratica non offre alcuno strumento logico per inferire un disegno umano, e ancor meno divino. La 1 è l'unico dato di fatto che sopravvive. La 2 è ambigua, essendo puramente soggettiva. La 3 è falsa: eventi casuali su un lungo periodo possono avere un'alta probabilità. La 5 non ha prove alcune ed è anzi del tutto plausibile che esistano regolarità biochimiche sottese all'emergere della vita. La 6, come si è visto, è del tutto errata. La conclusione si basa quindi su un dato di fatto banale, su cinque premesse che sono o false o non verificate, e su una legge logicamente inconsistente: con questi presupposti vi fidereste di trarre la conclusione numero 7, cioè che la vita è frutto di un qualche disegno? Vi fidereste di trarre la conclusione numero 7 se in gioco fosse qualcosa a cui tenete molto, per esempio la costruzione di un aereo a cui affidare la vostra incolumità? Quello che sta facendo Dembski, accolto talvolta come un serio interlocutore da alcuni filosofi della scienza, è scienza? È logica? È buona filosofia? Naturalmente, il fatto che la sua inferenza sia inconsistente non significa di per sé che la conclusione sia necessariamente falsa, sarebbe in tal caso una dimostrazione di inesistenza, un risultato a cui la scienza raramente ambisce. Il fallimento di Dembski non significa che abbiamo dimostrato che non può esistere per principio alcun disegno intelligente. Significa che quella argomentazione non rappresenta una prova di alcun tipo, né scientifica né logica, in quanto si basa su una separazione artificiale fra probabilità e «specificazione» di una forma. Non vi è alcuna impronta del disegno, che sia scientificamente rilevabile. È bene ricordare in proposito che nell'impresa scientifica l'onere della prova spetta allo sfidante. Una spiegazione scientifica corroborata e plausibile delle origini di ciò che Dembski e gli altri neocreazionisti attribuiscono a un disegno divino esiste e si chiama teoria dell'evoluzione. Una spiegazione alternativa deve non soltanto render conto dell'intera gamma di fenomeni compresi dalla teoria dominante (e possibilmente qualcuno in piú) adottando meccanismi non riconducibili ai precedenti, ma deve anche assumersi l'onere della prova empirica e della coerenza logica, requisiti che l'ID è lontanissimo dall'avere e che probabilmente, come vedremo, non può avere per definizione. La teoria darwiniana spiega in modo semplice una messe enorme di dati, ha avanzato molte predizioni rischiose, in gran parte convalidate, ed è falsificabile: basterebbe trovare «conigli fossili nel Precambriano», come disse una volta J.B.S. Haldane. L' intelligent design non rispetta uno solo di questi requisiti. Passare dalle presunte difficoltà di una teoria scientifica alla necessità della sua sostituzione con una dottrina teologica è un salto nel buio. Chiedere che il disegno intelligente sia riconsiderato come una possibilità teorica seria per il solo fatto che la selezione naturale non riesce a spiegare tutto nell'evoluzione, come ha chiesto Jonathan Wells, un biologo folgorato sulla strada della Chiesa dell'Unificazione del reverendo Moon, è come chiedere a un astrofisico di tornare all'universo tolemaico perché i modelli cosmologici attuali non sanno ancora spiegare l'origine di tutta la «materia oscura» presente nel cosmo. Perché nessuno si azzarda a fondare un movimento di opinione che sostenga la necessità di insegnare nei corsi di scienze una dottrina secondo cui la «dark energy» è il rimasuglio delle tenebre da cui scaturí la creazione divina? La teoria dell'evoluzione è incompleta, come è normale che sia per qualsiasi teoria. Non sa spiegare tutto e in alcuni casi è stata emendata. Inoltre è stata ampliata e aggiornata a piú riprese, tanto che oggi la sua versatile architettura teorica si diparte da un nucleo darwiniano originario, ma poi include molti fattori e processi sconosciuti all'epoca della sua prima formulazione. Oltre alla selezione naturale, abbiamo bisogno di processi biologici addizionali come la deriva genetica. Spesso i detrattori parlano spregiativamente di «darwinismo», per sintetizzarne lo spirito e per personalizzare la controversia sulla figura di Darwin, ma oggi la teoria dell'evoluzione non è solo Darwin, è un'impresa collettiva e planetaria di comprensione della natura dell'universo materiale. Possiamo avere nei confronti di questo possente programma di ricerca attitudini «sfidanti» diverse per grado e per difficoltà: potremmo ambire a ulteriori integrazioni, dimostrando in tal caso che alcuni fenomeni non sono riducibili ai fattori finora individuati e necessitano di spiegazioni ad hoc; potremmo volere revisioni piú o meno radicali, dimostrando che porzioni consistenti dell'impianto darwiniano sono inadeguate e vanno sostituite; oppure potremmo ambire a sostituire l'intero corpus con un altro, come pretendono gli sparuti antidarwinisti attuali. Anche se la terza appare alquanto improbabile vista la quantità di prove empiriche che confermano irreversibilmente la spiegazione darwiniana riveduta e aggiornata, tutte le strategie sono perfettamente legittime sul piano della critica e della crescita della conoscenza scientifica. Anzi, dovremmo incentivare il piú possibile queste attitudini sfidanti, proprio per il metodo che ci ha suggerito Darwin fin dal tempo dei primi taccuini: intuito, induzione, osservazione, ma poi anche previsioni rischiose da mettere alla prova, da confermare provvisoriamente o mettere in discussione. La scienza ha questo banco di prova come limite, come attrito: cosí capiamo il mondo e la natura risponde, o meno, alle nostre aspettative. Da questo punto di vista, il concetto di evoluzione è verificabile e lo sono tutti i suoi meccanismi fondamentali. La teoria dell'evoluzione viene saggiata continuamente, ogni giorno, in tutte le discipline biologiche fondamentali. I suoi modelli sono stati confermati con prove convergenti schiaccianti. Per puro scrupolo formale non diciamo che è vera, certa e dimostrata in senso assoluto, ma il fatto che una tale mole di lavoro non abbia finora confutato il suo nucleo esplicativo centrale rende molto poco credibile che lo sia in futuro. È una delle pietre angolari della scienza moderna, insieme ad altri mirabili affreschi del mondo naturale come le grandi teorie fisiche del Novecento. Dall'altra parte, l' intelligent design non dà la minima parvenza di essere in grado di mettere in difficoltà l'attuale teoria dell'evoluzione, essendo inconsistente sul piano sia empirico sia logico. Sono pii desideri sostituiti alla realtà e trasformati in pseudoscienza con differenti gradazioni di abilità retorica. L'ossatura della «sfida biochimica all'evoluzione» di Michael Behe rimane questa: la vita si fonda su macchinari molecolari tanto sofisticati da «apparire» come i prodotti di un disegno; gli evoluzionisti non sono in grado di spiegare come essi si siano evoluti gradualmente per selezione naturale; quindi quelle strutture non solo «sembrano» frutto di un disegno, ma lo sono realmente. Cercare di scalzare una teoria scientifica corroborata spacciando idee false per «evidenze» e promuovendo ragionamenti capziosi come questi - una premessa falsa seguita da una deduzione arbitraria - non è un comportamento particolarmente edificante. Anche considerandolo una mera provocazione intellettuale, il neocreazionismo non contribuisce in alcun modo utile allo sviluppo della scienza. Tuttavia, in nome del principio di laicità da cui siamo partiti, vediamo nel prossimo capitolo se almeno solleva questioni interessanti di filosofia della scienza. | << | < | > | >> |Pagina 88IV. Gli ultimi campioni del postmodernismoChe tipo di controversia è quella fra disegno intelligente ed evoluzione? Scientifica, filosofica, ideologica? Nei libri di Johnson la teoria darwiniana viene presentata in modo surreale come un'ortodossia stabilita per via politica e imposta alla comunità degli scienziati nonostante la mancanza di evidenze empiriche. Sembra una parodia del soviet supremo, la cui nomenclatura impone con pugno di ferro l'obbedienza alle direttive del comitato centrale. Il darwinismo diventa ideologia, una religione da establishment che cerca di autoconservarsi attraverso bugie e mistificazioni, o addirittura un «idolo», come scrive il filosofo Alvin Plantinga sul risvolto omaggiante di un libro dell'avvocato. Un simpatizzante italiano dell'antidarwinismo si è spinto ad affermare che «alla radice della vera e propria ostilità con cui molti autori affermano con assolutezza la validità dello schema darwiniano (riveduto e ampliato) sta la preoccupazione di evitare che l'idea di Dio possa insinuarsi nella scienza o, addirittura, che la scienza possa fornire argomenti per affermare l'esistenza di Dio». Eh già, i darwiniani, soliti maledetti materialisti e anticristi.
A parte questo folklore controriformistico, i neocreazionisti richiamano fra
le righe due temi epistemologici pertinenti. Primo: la scienza non deve mai
essere dogmatica, autoritaria, escludere per principio
una spiegazione per ragioni preconcette; non deve diventare una forma di
fondamentalismo razionalista, di ortodossia reazionaria; la scienza è sapere
fallibile, provvisorio, aperto al confronto e alieno da qualsiasi autorità
precostituita, pertanto non deve aggrapparsi né al darwinismo né ad alcun altra
teoria come se fossero eterne. Secondo: nella ricerca scientifica hanno un ruolo
centrale le cosiddette «immagini di ricerca», cioè le visioni del mondo, i
pregiudizi impliciti, i preconcetti culturali (per esempio, in
ambito evoluzionistico, l'attaccamento a una certa
idea semplicistica di progresso); la scienza quindi non
è una raccolta asettica di dati e non è un semplice magazzino di strumenti di
analisi, poiché coinvolge convinzioni profonde, ambizioni, speranze, tradizioni
di ricerca, convenzioni sociali e altri condizionamenti
impliciti che ne influenzano l'operato.
Il neocreazionismo è molto politically correct Questi due ragionevoli argomenti sono ingaggiati però dai neocreazionisti in un modo alquanto bizzarro. Per loro il disegno intelligente, avendo rifiutato il letteralismo biblico dogmatico e le posizioni antievoluzionistiche piú radicali, avrebbe già di per sé, per questi soli motivi, il diritto di proporsi, nelle università e a scuola, come «immagine di ricerca alternativa», come «scuola di pensiero» da affiancare alla teoria dell'evoluzione darwiniana per «arricchire» e rendere piú pluralista l'insegnamento. A chi osserva che la dottrina dell'ID è dogmatica si risponde, di solito, che non è un problema perché anche la scienza lo è. Lo slogan diventa «teach more science», insegniamo piú scienza. Si configura cosí un'operazione culturale e politica perversa: agganciare la battaglia per l'insegnamento dell'ID al concetto liberale di pari opportunità. George W. Bush, nel luglio zoog, dà il suo placet alla campagna per l'insegnamento del disegno intelligente nelle scuole americane proprio richiamando il diritto al confronto fra posizioni diverse, fra «scuole di pensiero» che devono misurarsi in un libero dibattito. Da questa parte dell'oceano, Tony Blair, fautore di un'accentuata liberalizzazione dei curricula delle scuole private inglesi, alcune delle quali a orientamento creazionista, ha affermato in parlamento che «le preoccupazioni sull'argomento evoluzionistico non devono portare a un sistema scolastico meno diversificato». La difesa del neocreazionismo diventa insomma politicamente corretta, anche se nel Regno Unito è risuonata fulgidamente l'aperta sconfessione di qualsiasi forma di creazionismo da parte dell'arcivescovo di Canterbury. Dibattiti analoghi si sono svolti anche in Australia, in Canada e in altri paesi, tuttavia vi è ancora una volta un presupposto implicito che i sostenitori dell'ID non ricordano mai e che ha tratto in inganno molti onesti liberali. Un dibattito aperto e paritario fra posizioni diverse si fonda sulla condivisione di regole minimali, sulla democrazia, sul rispetto di una carta costituzionale che garantisca tutti e ciascuno. Trasposto sul piano della scienza, ciò significa condividere le regole della comunità scientifica internazionale: obbligo di esibire evidenze empiriche e argomentazioni, condivisione delle conoscenze acquisite, disponibilità al controllo incrociato, pubblicità delle scoperte e dei protocolli di ricerca adottati, ripetibilità degli esperimenti, falsificabilità dei contenuti e del metodo, e cosí via. Accettereste mai un «libero» dibattito con qualcuno che vi punta una pistola alla tempia? Accettereste mai di discutere di una teoria scientifica con qualcuno che vi minaccia di essere nel peccato perché non credete in un Sommo Architetto dell'universo?
Non si gioca ad armi pari se da una parte hai la comunità scientifica - con
i suoi vincoli, i suoi codici di comportamento e il suo scetticismo
istituzionalizzato - e dall'altra chi agita anatemi. L'argomento della pluralità
di «scuole di pensiero» è quindi l'ennesimo inganno del neocreazionismo, e forse
uno dei piú odiosi. Un argomento di apparente democrazia che
nasconde un sopruso, una violenza perpetrata soprattutto nei confronti di
giovani menti che hanno il diritto di conoscere cos'è davvero la scienza (per
poi eventualmente sottoporla a ogni critica legittima) e
non di vedersi servito un minestrone postmoderno
di scienza e pseudoscienza.
Tutto è scienza, quindi niente è scienza La sfida è allora molto delicata poiché coinvolge direttamente il principio di demarcazione: che cosa è scienza e che cosa non lo è? «Teach more science» presuppone che l'ID sia scienza a tutti gli effetti e che sia insegnato come tale, alla pari. Eppure, se prendiamo i criteri normalmente usati per caratterizzare l'impresa scientifica, il disegno intelligente non ne rispetta nemmeno uno. Ne deriva, in conclusione, che se l'ID viene davvero inteso come un'immagine di ricerca alternativa alla teoria dell'evoluzione, cade ogni principio di demarcazione e potenzialmente qualsiasi stranezza può diventare scienza, comprese le versioni kitsch del creazionismo propagandate da alcune sette new age. In questo modo la dottrina del disegno intelligente diventa paradossalmente un'alleata ideale del post-modernismo di grana grossa cosí di moda negli Stati Uniti. Se non esistono fatti ma solo interpretazioni, se la scienza è virtuale, se tutto va bene, se non esiste alcun criterio di oggettività, né di verità, neanche solo di plausibilità, lo scontro fra darwinismo e creazionismo diventa una piacevole fiction per buoni salotti. Una visita agli sfavillanti parchi tematici creazionisti che pullulano in Nordamerica è quanto di meglio si possa concepire in tal senso: la trascolorazione della scienza in puro immaginario. Mettere sullo stesso piano la selezione naturale e l'ID come posizioni «entrambe dogmatiche» significa intraprendere una strategia del tipo «muoia Sansone con tutti i filistei»: anche la scienza è dogmatica, tutto è appiattito sullo stesso livello, non esiste alcun principio di demarcazione. La logica strumentale dell'avvocato Johnson può quindi essere messa sullo stesso piano della logica argomentativa di uno scienziato. Il punto non sta, ovviamente, nello stabilire una volta per tutte che cosa sia scienza e che cosa non lo sia. Indipendentemente da come la pensiamo sulla demarcazione, il disegno intelligente cade comunque in una fatale contraddizione, perché dedica la maggior parte dei suoi sforzi proprio ad accreditarsi come scienza secondo i crismi occidentali piú classici! Cerca inutilmente prove empiriche, si arrampica su inferenze logiche senza senso, indaga strumentalmente le contraddizioni altrui, rivelando cosí una terribile invidia insoddisfatta per la scienza. Delle due l'una, allora: o vuole essere scienza vera (ma non potrà riuscirci per definizione, essendo un argomento dogmatico e religioso che si sottrae al naturalismo di metodo) o cede al piú integrale anarchismo culturale per cui qualsiasi affermazione equivale a un'altra e a quel punto va bene qualsiasi patacca. Ma anche la seconda opzione sarebbe una vittoria di Pirro, poiché svuoterebbe di qualsiasi significato optare per un disegno intelligente o per qualsiasi altra astruseria. Comunque vada, sul piano della riflessione epistemologica questa «scienza del sovrannaturale» è nella migliore delle ipotesi inutile, nella peggiore fuorviante. È una forma di dissenso che non aiuta la crescita della conoscenza e che si imprigiona in un vicolo cieco. | << | < | > | >> |Pagina 128La differenza del laicoSe la fallacia naturalistica ci mostra come, nel bene e nel male, la natura non sia deposito né fondamento dei nostri valori morali, non è cosí sorprendente che molti evoluzionisti prediligano una visione epicurea dell'«indifferenza» dell'universo verso il destino umano come presupposto di emancipazione e di libertà nella propria ricerca personale del «senso» da dare a questa storia. Qui risiede, ben oltre il compromesso timido della «doppia verità», la sfida culturale del naturalismo, la possibilità, e non la necessità, che qualcuno possa muovere da questo presupposto di emancipazione per costruire sistemi morali autonomi, garanti di convivenza democratica e di solidarietà umana, che non abbiano bisogno di porre fondamento su alcun principio trascendente e rivelato. Per una volta, questa è «la differenza del laico». Il neocreazionismo è un'altra occasione perduta per lavorare, dall'altra parte, a una fede adulta che sappia dialogare con questa differenza del laico, la differenza oggi forse meno riconosciuta fra tutte le ostentate «identità» che si contrappongono. Combattere la dottrina dell'ID significa dunque preservare un vaso di coccio dal contenuto prezioso. Ma esistono anche ragioni «estetiche» per rifiutarla: non è forse evidente quanto sia noioso e poco economico arrampicarsi sui vetri per tratteggiare un progettista intelligente che rincorra la scienza e si adatti di volta in volta alle nostre scoperte sperimentali, puntellare un «dio delle lacune» che si insinua affannosamente dove la scienza non ha risposte e vedere ridursi lo spazio di manovra ogni volta che le conoscenze avanzano, e quanto sarebbe invece piú interessante accettare e insegnare la bellezza, l'imprevedibilità e la creatività dell'evoluzione naturale per come la conosciamo oggi? In fondo, il disegno intelligente è uno svilimento in primo luogo del sentimento religioso, una sua razionalizzazione forzata, un tentativo maldestro e fallimentare di tradurre in una rete concettuale, o addirittura in presunta teoria scientifica, un contenuto di fede, snaturandolo e torturandolo. È figlio di una religiosità impaurita, tanto piú aggressiva quanto piú è in affanno, disposta a cercare argomenti pseudo-scientifici per supportare un dogma di fede: ma perché mai questa operazione ideologica d'altri tempi, questo sedativo intellettuale dovrebbe persuadere un vero e maturo credente? Di sicuro l'ID è una scorciatoia molto comoda, un supermercato di «ragioni per credere» che difficilmente sarà sconfitto dalla scienza da sola. Il neocreazionismo infatti non è soltanto un movimento politico - agli inizi del Novecento peraltro di tipo progressista e democratico, avendo come obiettivo polemico la dottrina del darwinismo sociale allora diffusa - né soltanto un sotterfugio per introdurre la religione nei corsi di scienze e surrettiziamente ammantarla di metodo scientifico: è imbattibile sul piano della speranza e del conforto. Spende a buon mercato l'illusione di far convivere le ragioni intellettuali della scienza con le esigenze emotive di soddisfare le proprie credenze religiose. Offre un senso preciso e definito all'universo e alla nostra presenza in esso, un sollievo all'ansia di insignificanza. In questo risponde sicuramente a un'esigenza umana profondissima, radicata nella nostra mente cosí eccezionalmente smaniosa di trovare spiegazioni causali e di credere ad esse anche quando non hanno alcun fondamento. Non è un caso che il disegno intelligente sia comparso negli Stati Uniti dopo alcuni anni di intensa attività pubblicistica, di matrice cristiana ma anche ebraico ortodossa, finalizzata a «riconciliare» nei modi piú estemporanei i dati scientifici con il racconto biblico. In questa letteratura devota si tenta, in alcuni casi, di dilatare a tal punto l'interpretazione metaforica della Torah da renderla compatibile con qualsiasi conoscenza scientifica: valgano per tutti i tentativi di un Gerald L. Schroeder di misurare la durata delle sei giornate della creazione, intendendo per «giornate» epoche variabili dalle migliaia ai milioni di anni, per mantenerle in sintonia con le conoscenze cosmologiche. Le acrobazie di questi autori per trovare la «faccia nascosta di Dio» sono straordinarie: se il dato scientifico conferma il racconto biblico, si tratta di una «prova» razionale della verità del testo sacro; se un dato scientifico provato invece lo contraddice, è un fraintendimento della lettera della Bibbia; se due teorie scientifiche sono in contrasto fra loro, si sceglie quella maggiormente adattabile al mito della creazione preferito. Ottime quotazioni per il Big Bang e il principio antropico, secondo l'autore del bestseller americano The Fingerprint of God, Hugh Ross, al ribasso invece la teoria degli universi paralleli. Lee M. Spetner ha cercato, in Not by Chance del 1998, di derivare una teoria dell'evoluzione non darwiniana niente meno che dal Talmud. Altrove si ricorre invece a presunti «codici segreti», a schemi matematici del tutto fantasiosi, nascosti nelle sacre scritture e forieri di apocalittici messaggi di preveggenza. Inutile dire che le dimostrazioni dei logici di come sia possibile scovare gli stessi «codici divini» anche nell'elenco telefonico di New York non siano state accolte benevolmente da cotali ferventi apologeti... La propaganda talvolta sfocia nel cabaret involontario, come quando gli autori di questi libri, per esempio il Fred Heeren di Show Me God: What the Message from Space Is Telling Us about God, si mascherano da «scettici alla ricerca della verità» e poi, guarda caso, la «verità» si presenta loro in tutto il suo splendore, adornata da brandelli di citazioni tendenziose tratte da interviste a scienziati. È interessante però che questi «evoluzionisti teisti», che cercano di manipolare metafore e codici alfanumerici per dimostrare che il racconto biblico è «compatibile» con la scienza, inevitabilmente rincorrendola, non sono affatto ben visti dagli altri creazionisti, che preferiscono avere come avversario uno scienziato trincerato dietro la dottrina delle due verità o pronto ad alimentare un conflitto insanabile fra scienza e fede, da risolvere scegliendo l'una o l'altra.
Quando infatti anche i piú estremi tentativi di falsificare la realtà
falliscono e l'armonia fra rivelazione e scienza va in frantumi, a farne le
spese deve essere ovviamente la seconda, ritenuta scorretta o incompleta o
ideologica. Subentra il nervosismo e il
nodo di Gordio viene passato a fil di spada. La controversia fra ID e scienza è
allora qualcosa di completamente diverso da una controversia scientifica: è
piuttosto lo scontro fra una ragione critica e fallibile, che non smette mai di
cercare e di porsi nuove domande, e una ragione dogmatica che trova
nell'autorità ogni risposta. In ultima istanza, nei casi di accertata
incompatibilità fra fede e scienza - come ha
sentenziato in Italia il Rettore della Pontificia Università Lateranense,
Monsignor Rino Fisichella - la verità suprema resta per principio quella della
teologia: la scienza deve fare un passo indietro e obbedire, tanto per
completare la restaurazione del miglior William Paley d'annata. Prepariamo
dunque i paramenti di festa, è tornato il sacro ordine naturale e morale.
|