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| << | < | > | >> |IndiceRingraziamenti 7 Le storie, il lavoro, il cibo 9 In principio fu Erice 9 Punici, romani, normanni, arabi e tutti gli altri 11 La cucina dei baroni 19 Nel cuore antico della gastronomia popolare 25 A tavola con i contadini 28 Col mare in gola. Il mangiare dei pescatori 33 Per mare a Mazara del Vallo 38 La cucina delle Egadi 39 A Pantelleria, fra capperi e muretti 43 Il vino degli dei 46 Signori, sua maestà il cuscus 47 Tonni e tonnare 49 Come un pesce in barile 51 Raggi di sale 57 Il rito della pasticceria 62 I dolci dei santi 64 Delizie di convento 66 Pane, aromi e fantasia 69 Il pane in processione 71 Belle e carnose, che sembrano olive 74 Le terre del pecorino 77 La saga del Marsala 80 Stuzzichini, fritti e piatti di mezzo 85 Pane, pizze e focacce 95 Primi piatti 99 Pesci e lumache 129 Carni 153 Uova e formaggi 165 Verdure e contorni 175 Dolci 191 Bevande e liquori 235 Pantelleria 237 Isole Egadi 249 Glossario 261 Bibliografia 265 Indice delle ricette 267 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Le storie, il lavoro, il ciboIn principio fu Erice Agostino Pepoli doveva essere un gran signore. Curioso, colto e raffinato. Un perfetto gentiluomo siciliano di quel tempo (siamo nella seconda metà dell'Ottocento). Cappello bianco a falde larghe, giacca e pantaloni di velluto, camicia bianca, gilè, un fiocco di seta nera annodato al collo, l'immancabile bastone da passeggio. Aspetto fra il leonino e lo scapigliato, folta barba grigia, una mole che non passava inosservata. Unica stravaganza, una rosa canina appuntata all'occhiello. Insomma la solita vecchia nobiltà di sempre, addomesticata da buone letture e da stellari conti in banca. Così almeno pareva a incontrarlo seduto a uno dei caffè di Erice, il suo borgo preferito, dove si era perfino costruito un castello. E invece le cose non stavano proprio così. Aristocratico sì, di dentro e di fuori, ma con una marcia in più: un'aria da straniero che non solo lo immunizzava da critiche e invidie, ma anzi lo rendeva più sensibile e meno compromesso alle vicende della sua terra. Un distacco che gli permetteva di amare le pietre e le zolle della sua città, senza i torti della passione. Dai lunghi soggiorni a Firenze e a Bologna a inseguire i suoi studi umanistici, era tornato con una traccia in più, come se nel disco della sua vita si fosse impresso un solco nuovo, rinascimentale. Fuori tempo certo per un fin de siécle, pronto a spalancare le porte alla Belle Époque, ma proprio per questo fondamentale. Che c'entra il Conte Agostino Pepoli con la storia della cucina di Trapani? C'entra, e mi spiego subito. A questo siciliano ricchissimo, cultore del bello e delle memorie del passato, si deve la più importante scoperta di archeologia gastronomica di questa porzione di Sicilia. Una intuizione. Il punto zero di questa storia. In uno dei suoi soliti pomeriggi. Naturalmente a Erice. Naturalmente col naso all'insù a rimirare le antiche torri. Sì, perché il conte era uno che sognava castelli in aria. No, nessun luogo comune, sognava davvero di trasformare i ruderi di un vecchio maniero – e dopo c'è pure riuscito – in un cenacolo di artisti e letterati, sospeso fra le nuvole. I lavori di consolidamento di una delle torri di levante erano appena iniziati. C'era da superare il primo intoppo: una montagnetta di terra ostinatamente dura, una croce per i punteruoli e gli scalpelli degli archeologi. "Sorpreso" scrive il Pepoli "nell'osservare che quel materiale che, dall'aspetto esterno sembrava semplice terra vegetale, altro non fosse che un vasto deposito di avanzi di cucina, ricchissimo di frantumi di anfore e di patere. Come era naturale vennemi voglia di esplorarne il contenuto. Pazienti scavi portarono alla luce 3810 anse anepigrafi ricurve, 620 rettangolari, 1954 coni, o estremità inferiori di anfore, molti frammenti di patere con iscrizioni graffite e 800 iscrizioni anforiche". Il conte aveva scoperto un tesoro: pentole e scodelle usate dai romani, e forse ancora prima dai fenici, più di 2000 anni fa. Sotto i suoi occhi c'era il Sacro Graal della cucina trapanese, o meglio ericina. I resti dei banchetti che ricchi mercanti, religiosi e senatori celebravano a Erice per compiacere Venere, ma soprattutto le sue sacerdotesse. Una lista di Vip da far rodere d'invidia Zeus. Cosa li attirava quassù? La dea certo, ma soprattutto qualcos'altro. Sotto il falso nome della religione, si nascondevano weekend molto particolari: sesso e cibo fino a non poterne più; turismo sessuale come si chiama ora. Giorni e giorni di viaggio prima di arrampicarsi sulle ripide mulattiere di questa montagna di 756 metri, in fondo alla Sicilia. Se ne valeva la pena? giudicate voi. Ciascuno portava in sacrificio due, tre galline, un agnello, una pecora, un paio di oche. Poi, finalmente assolti i convenevoli con il tempio, li attendeva l'unico vero obiettivo del pellegrinaggio: le bellissime jerodulai. Si perché – sentite questa che è buona – i poveri pellegrini si garantivano attraverso l'amplesso la protezione della dea. Un modo come l'altro per gabbare mogli e compagne. Come dire: "Manco una settimana, vado a pregare in un eremo, in Sicilia. Lo faccio per non dispiacere l'Olimpo; ma sapessi che noia, amore mio". Bugia. Ad Erice combinavano di tutto: sesso sfrenato, orge, forse pure qualche canna (a Marsala sul relitto della nave punica sono stati trovati residui di cannabis). Ma non è finita: c'era pure da accollarsi un altro sacrificio, un pantagruelico banchetto con grandi arrosti di maiale, spiedi di agnello, cacciagione, sanguinaccio, bracieri stracolmi di interiora. E, naturalmente, fiumi di vino. In cambio di tutti questi servizi, i nostri Vip lasciavano denaro, offrivano libagioni, otri di vino, sacchi di grano, capretti e maiali vivi, qualche volta appezzamenti di terreno, case. Furono i sicani nel X a.C. a costruire per primi su questa rupe un altare alla loro divinità. Probabilmente era uno spiazzo recintato da pali e corde, al centro il fuoco sacro, una buca dove accogliere i doni propiziatori, una balaustra di marmo per i riti sacrificali. Gli elimi e i cartaginesi (816 a.C.) quasi certamente lo arricchirono dotandolo di strutture murarie. I punici che lo intitolarono alla loro dea Astarte introdussero riti orientali: la prostituzione sacra, il mantenimento di una schiera di colombe che volavano entro il recinto del tempio tutto l'anno. Secondo la testimonianza di Elioni (I secolo a.C.) e di Ateneo (II, III secolo a.C.) il santuario era già in quell'epoca frequentato da frotte di pellegrini. Dopo che Roma piegò Cartagine, l'ara fu intitolata a Venere. Fu meta di governatori e magistrati, mercanti, marinai. Fiorentissimo fino al 75 a.C., il culto decadde con l'avvento del cristianesimo. | << | < | > | >> |Pagina 49Tonni e tonnareDa quanto tempo si catturano i tonni nei mari trapanesi? È come chiedersi se sia nato prima l'uovo o la gallina. Si va a tentoni, nessuna data precisa; però i riferimenti non mancano. Il più antico è quello scoperto nel 1950 a Levanzo, nella grotta preistorica del Genovese: dal buio siderale della storia vennero fuori dipinti di antichi abitanti. E tra i graffiti, un tonno dipinto con mano sicura probabilmente 2500 anni prima della venuta di Cristo. Più tardi, diciamo 1200 anni dopo, il primo a raccontar di tonni è Omero, assimilandoli ai compagni di Ulisse uccisi dai Lestrigoni. Ed Eschilo, quattrocento anni più avanti. Oppiano di Cilicia nel 200 d.C. descrive una sorta di impianto fisso che il poeta paragona a una città ove i grandi pesci entrano e rimangono prigionieri. Bella soddisfazione per il tonno, avere già allora cotanti estimatori. Ma volete mettere l'emozione di vederlo lì rappresentato sulla roccia, antico di 4500 anni, tale e quale a quello che vediamo sul banco del mercato? Sulla primogenitura della invenzione di questa pesca i più accreditati fra i possibili padri sono i fenici. Aristotele 350 anni prima di Cristo scrive nella sua Historia Animalium che "una nave di fenici dalla città di Cadice navigando per 4 giorni dalle Colonne di Ercole e con vento di est giunse in certi posti deserti coperti nel flusso e scoperti nel riflusso dove i marinai trovarono una quantità straordinaria di tonni di grossezza incredibile; pescati li predisposero sotto sale conservandoli in giare che trasportarono a Cartagine". Per Raimondo Sarà, studioso di tonni e di tonnare, non ci sono dubbi: uno di questi posti è Trapani. Una cosa è certa: i fenici praticavano la pesca e la conservazione del tonno lungo le coste spagnole ed è probabile che siano stati maestri dei sicani. Anche greci e romani seguirono questa strada, impiantando stabilimenti di salagione lungo le coste. Agli arabi si deve il merito di avere riorganizzato la pesca del tonno durante l'occupazione dell'isola. I loro successori, i normanni, la perfezionarono. Elemento essenziale della pesca antica era il "tinnoscopio", un sistema di avvistamento seguito da una cala di reti chiusa con un sistema di lacci posti nella parte inferiore. Per la conservazione, la tecnica era precisa: il tonno si adagiava dentro grandi vasche di pietra e si ricopriva di sale di pari peso. Dopo 30 giorni si commercializzava in anfore. Nella provincia di Trapani importanti tracce di questi primitivi impianti sono state rinvenute a San Vito Lo Capo, Cofano, Levanzo, Favignana. Gli arabi non faticarono più di tanto per assicurarsi il monopolio del tonno. Ma un grande merito va riconosciuto: a loro si deve la codifica delle regole della pesca. Moltissime parole del lessico della tonnara sono di chiara origine araba: rais (capo della ciurma), buzzonaglia (carne del tonno di scarso pregio), surra (parte pregiata del tonno). Nel 1315 i tonnarorti trapanesi furono esentati dal Federico II della gabella in premio della fedeltà dimostrata durante l'assedio degli angioni e nel 1440 ebbero anche il privilegio della sospensione dei procedimenti civili e penali durante la stagione di mattanza. Notissimi erano i commerci fra i trapanesi e i produttori di panni toscani e catalani per i quali la contropartita richiesta era la tonnina. Nel museo nazionale di Palermo due quadri ricordano la visita che nel Diciannovesimo secolo i reali Ferdinando di Borbone e Carolina d'Austria, circondati dalla più selezionata nobiltà siciliana, fecero alla tonnara di Solanto. Nella sola provincia di Trapani, da cui provenivano i migliori rais del Mediterraneo, nei secoli hanno operato 22 tonnare: Magazzinazzi, Castellammare, Scopello, Tonnarella dell'Uzzo, San Vito, Cofano, Bonagia, San Cusumano, San Giuliano Palazzo, Formica, Favignana, Capo Granitola, Nubia, San Teodoro, Levanzo, Boeo, Cannizzo, dei Gigli, Pedale, Santa Rosalia, Sibiliana, Tre Fontane. Oggi, seppure in maniera discontinua, sopravvivono solo due impianti: Bonagia e Favignana. Le cause? Tante. I giapponesi, straordinari consumatori di tonno, trovano più conveniente quello di allevamento. E questo è il primo motivo. Aggiungete le spese sempre più ingenti per calare la tonnara, le rese ogni anno più basse, la mancanza di manodopera specializzata e il conto è fatto. Spiegare una tonnara non è impresa facile. Ci riesce in poche parole Ninni Ravazza, scrittore e sommozzatore, appassionato cultore di questo mondo. "La tonnara è un sistema di reti fisse ancorate al fondale a forma di parallelepipedo, unito alla costa da una lunga rete che sbarra il cammino ai tonni nel corso della loro migrazione; risalendo questo sbarramento i branchi di tonni si immettono nel complesso di reti chiamato isola, diviso in diverse camere separate da porte anch'esse di rete; in questo dedalo i grossi pesci rimangono prigionieri a volte per giorni e giorni, finché non arriva il momento della mattanza: allora i tonni vengono fatti passare, aprendo e chiudendo le porte, nell'ultima camera, quella "della morte", l'unica ad avere il fondo mobile che viene tirato a galla per consentire ai pescatori di arpionare i pesci per issarli a bordo dei vascelli." | << | < | > | >> |Pagina 80La saga del MarsalaEra una notte buia e tempestosa. Così comincia il romanzo del vino Mar- sala. La leggenda di questo vino liquoroso, da quasi un quarto di mil- lennio vero stupor mundi dell'enologia mondiale, testimone di innume- revoli momenti che hanno fatto la storia. Un veloce ripasso. C'era nella battaglia navale di Trafalgar, c'era a Waterloo, c'era a S. Elena nell'ulti- ma dimora di Napoleone, c'era a casa di Cavour, c'era fra i garibaldini a Marsala. Ma c'era – ed è questa la sua forza trasversale – anche nelle taverne e nelle bettole, nei buchi sudici dei porti e nelle case linde di marinai e contadini. Partiamo però dall'inizio. Tutto cominciò quella notte buia e tempestosa. Correva l'anno 1773, il brigantino inglese Eli- sabeth, diretto a Mazara del Vallo per caricare cenere di soda, fu sospinto dalle mareggiate a trovare riparo nel porto di Marsala. A bordo c'era il signor lohn Woodhouse, committente del carico, commer- ciante intraprendente e astuto. lohn, come tutti i britannici, era un for- midabile bevitore e quella sera si guardò bene dal rimanere sottoco- perta. Meglio un buon bicchiere di vino per dimenticare la tormenta. Finì in una taverna a ridosso del porto. Gli portarono – attenzione per- ché questo è il momento topico – un caraffa di perpetuo, un vino invec- chiato in botte che da queste parti si è sempre bevuto. Woodhouse, che aveva il palato allenato ai vini portoghesi, restò sconvolto: il vino somigliava in maniera impressionante al Porto, allo larez. Saporoso, dolce e con sentori di resina, di profondità filtrate dalla terra. Quel perpetuo deve avergli invaso la bocca, fino a fissarsi nella memoria della lingua. Ne avrà bevuto fino a sbronzarsi. Ma non tanto da fargli dimenticare il mattino dopo che quello poteva essere l'affare della sua vita. Al risveglio deve avere fatto questo ragionamento: se i miei con- nazionali sono disposti a sborsare fior di quattrini per una bottiglia di Porto, non potranno tirarsi indietro di fronte a questo capolavoro. Che in più costava una bazzecola. Quando il brigantino riprese il mare, Woodhouse oltre alle ceneri di soda imbarcò cinquanta pipes di 412 litri ciascuna rolme di Marsala per onservarlc meglio difendendolc dai tramestii della traversata. c'era solo una cosa da fare: aumentare la gradazione con l'acquavite di vino. L'inglese aveva visto bene, in poco tempo il Marsala, che per tanto tempo si chiamò semplicemente "vino inglese", riuscì a penetrare negli ambienti giusti. Adottato dai club più esclusivi di Londra offuscò la fama dei suoi cugini portoghesi. L'opera- zione cominciava a diventare interessante, non c'era da perdere tempo: quell'uva miracolosa doveva essere tutta sua. Non fu difficile convincere i contadini a consegnargli tutto il raccolto al prezzo da lui stesso deter- minato. Osti e tavernieri non erano stati fino allora un buon affare per i viticoltori. Il forestiero rappresentava un'occasione più unica che rara. A Woodhouse però non bastava il ruolo di esportatore, il Marsala voleva produrselo lui con le caratteristiche suggerite dalle preferenze dei suoi connazionali. E nel 1796, in una vecchia tonnara abbandonata, il primo stabilimento industriale divenne realtà. Il senato di Marsala mal digerì questa interferenza straniera nel tessuto economico della città e per dargli un po' di fastidio chiese l'applicazione di una tassa di 4 tarì per ogni botte imbarcata. Illusi. Woodhouse non era tipo da restare al palo e, grazie alle sue amicizie altolocate fra i borboni, que- sto provvedimento non venne mai applicato. Il vino diventò così famoso che l'ammiraglio Nelson convinse Sua Maestà Britannica a rifornire le navi reali. Il commerciante inglese era assai rispettato a Marsala; uno dei pochi signori che in quel tempo poteva permettersi di attraversare le campagne siciliane con barili di talleri d'argento, senza temere i bri- ganti. Il miglior Marsala prodotto da Woodhouse fu quello del 1815. Dopo la battaglia di Waterloo furono confezionate alcune etichette di quell'annata dedicate alla vittoria britannica. Il successo di Woodhouse, come era naturale, divenne contagioso. Al suo seguito scesero a Marsala altri signori inglesi a cercare fortuna. Benjamin Ingham giunse dalla Contea di York. Mandò un suo socio in Portogallo e in Spagna ad apprendere le tecniche di produzione dei vini liquorosi. Trafficava sete dell'Oriente, drappi scozzesi, tessuti di lana irlandese. Si era stabilito a Palermo nel 1809. Quando assaggiò il Marsala capì che avrebbe potu- to fare fortuna pure lui come Woodhouse. I suoi vini furono chiamati Colli, London Particolar e Inghilterra. Nel 1812 costruì il suo stabili- mento accanto a quello di Woodhouse. Obiettivo: migliorare la produ- zione, trovare nuovi mercati. Quello inglese era già saturo, c'era il re[tn dei mnndo la "nnquistare Acquistn ina olcrola flotta e oortò il Marsala in America. Brasile. Australia. Pubblicò un libello dal titolo Brevi istruzioni per la vendemmia all'oggetto di migliorare la qualità dei vini. Dai profitti ottenuti l'imprenditore britannico acquistò il 40% del capitale della New York Central Railroad, la società ferroviaria più importante della metropoli. Alla sua morte lasciò tutto al nipote Giuseppe Whitaker, che legò il suo nome anche agli scavi archeologici all'isola di Mozia, che successivamente acquistò. La ditta Ingham Withaker fra Cognac e Marsala collezionò riconoscimenti e premi in tutto il mondo. Il primo stabilimento con un nome italiano è del 1832. A realizzarlo è Vincenzo Florio, un giovane con un grande talento per gli affari. | << | < | > | >> |Pagina 134Sarde a beccafico al fornoper 4 persone • 1 kg di sarde fresche • 150 g di mollica di pane raffermo grattugiata • 1 ciuffo di prezzemolo • 1 spicchio d'aglio • 1 cucchiaio di pinoli • 1 cucchiaio di uvetta • 2 limoni • Un pizzico di zucchero (facoltativo) • Olio extravergine d'oliva q.b. • Foglie di alloro q.b. • Sale e pepe q.b.
Mescolate la mollica di pane con l'uvetta ammollata in acqua tiepida e
strizzata, i pinoli, un trito di aglio e prezzemolo, poco olio, una presa
di sale e un pizzico di pepe e amalgamate con cura tutto • Pulite le
sarde ed eliminate testa e lische; lavatele, stendetele su un piano e
salatele • Distribuite su ciascuna una parte del composto preparato e
arrotolatele, formando degli involtini • Disponetele, quindi, in una
teglia unta, inserendo tra un rotolino e l'altro foglie di alloro e fettine
sottili di limone • Alla fine, irrorate la preparazione con un'emulsione
di olio e succo di limone e cospargete con un pizzico di zucchero;
infornate a 200° per 15 minuti
Sarde a beccafico fritte
per 4 persone • 1 kg di sarde • 150 g di mollica di pane raffermo grattugiata • 1 ciuffo di prezzemolo • 1 spicchio d'aglio • 3 uova • 1 tazza di pangrattato • Olio extravergine d'oliva q.b. • Sale e pepe q.b. Squamate le sarde, apritele a libro ed eliminate tutte le spine; lavatele con cura e cospargetele di sale • Amalgamate la mollica di pane con un trito di aglio e prezzemolo, una presa di sale e una spolverata di pepe; ammorbidite il composto con l'olio necessario e distribuitelo sulla parte interna di metà delle sarde • Coprite con i pesci rimasti e praticate una leggera pressione in modo da far aderire le sarde alla farcia • Intingetele, quindi, nelle uova battute con una presa di sale; passatele nel pangrattato e friggetele in abbondante olio caldo variante: le sarde già fritte vengono spesso immerse nel sugo bollente e lasciate cuocere per una decina di minuti | << | < | > | >> |Pagina 151Frittelle di neonataper 4 persone • 500 g di neonata • 2 uova • 2 cucchiai di farina • 1 ciuffo di prezzemolo • 1 limone (facoltativo) • Olio extravergine di oliva q.b. • Sale e pepe q.b. Mettete la neonata in un colino e lavatela sotto l'acqua corrente, eliminando eventuali pezzetti di alghe; poi sgocciolatela bene • Trasferitela, quindi, in una terrina e aggiungete le uova battute con una presa di sale, la farina, una spolverata di pepe e il prezzemolo tritato • Amalgamate con cura e lasciate riposare il preparato per qualche minuto • Scaldate abbondante olio in una padella e friggete il composto a cucchiaiate • Rigirate le frittelle a metà cottura e servitele calde spruzzate con qualche goccia di succo di limone | << | < | > | >> |Pagina 221Mustazzoli di Ericeper più persone • 1 kg di farina • 350 g di zucchero semolato • 25 g di bicarbonato • 1 bustina di lievito per dolci • 1/2 cucchiaio di chiodi di garofano • 50 g di mandorle pelate e tostate • 1 cucchiaino di cannella Mescolate la farina setacciata con il lievito e il bicarbonato e impastatela con lo zucchero, le mandorle tritate, i chiodi di garofano polverizzati, la cannella e l'acqua tiepida necessaria per ottenere un impasto omogeneo e consistente • Lavoratelo a lungo; poi copritelo con un tovagliolo e lasciatelo riposare per circa 1 ora • Riducete la pasta in bastoncini e rotolateli sul retro di una grattugia, in modo da imprimerne il decoro sulla superficie; quindi trasferite i biscotti in una teglia rivestita di carta da forno • Infornate i mustazzoli a 220°, per 15 minuti; dopo lasciateli asciugare nel forno spento per qualche ora | << | < | > | >> |Pagina 260Pignolata (pignolo) di San Giuseppeper 10 persone • 1 kg di farina 00 • 150 g di strutto • 150 g di zucchero semolato • 300 g di miele • 1 limone • Vino bianco q.b. • Diavulicchi (confettini di zucchero colorati) q.b. • Olio extravergine d'oliva q.b. • Bicarbonato q.b. • Sale q.b. Impastate la farina setacciata con lo strutto, una presa di sale, lo zucchero, la scorza di limone grattugiata, un pizzico di bicarbonato e il vino necessario per ottenere un impasto omogeneo e consistente; avvolgetelo, quindi, in pellicola trasparente e lasciatelo riposare per 30 minuti • Trascorso questo tempo, riducete la pasta a bastoncini del diametro di 1 cm; tagliateli a cubetti che arrotonderete con le mani e friggeteli in abbondante olio caldo • Quando saranno dorati, sgocciolateli e poneteli su carta da cucina a perdere l'unto in eccesso • Scaldate il miele in un tegame; aggiungete le palline e amalgamate con cura • Versate, quindi, il preparato su un piano di marmo inumidito e, aiutandovi con un cucchiaio, formate una montagnetta oppure dei mucchietti • Distribuitevi sopra una manciata di diavulicchi e lasciate raffreddare | << | < | > | >> |Pagina 261Glossarioaggrassato o agglassato: tipo di cottura in umido
ammitare:
invitare
bastarduna: specie di pesce appartenente al genere delle menole broccoli o vruocculi: cavolfiori broru: brodo
busiate:
specialità di pasta fresca che prende il nome dai ferri (buri)
usati per confezionarla
campanaru: campanaro, a forma di campana cappidduzzi: ravioli dolci ripieni di ricotta cardella: tipo di verdura selvatica cassateddi o cassatelle: ravioli dolci o salati farciti di ricotta cassata: torta, sformato chiappara: capperi chinu: pieno, ripieno cianciolo: tipo di pesca a circuizione ciaule: specie di pesce appartenente al genere delle menole cicireddu: cicerello cimino: semi d'anice cipolle o cipudde: tipo di scorfano crocchè: crocchette cuddureddi: ciambelline curatolo o curatulu: fattore |