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| << | < | > | >> |IndiceCAP. I La voce di un libro 7 CAP. II Se una notte d'inverno un viaggiatore 17 CAP. III Il nome della rosa 28 CAP. IV La casa con le luci 37 CAP. V Morte a Venezia 46 CAP. VI Le notti bianche 59 CAP. VII Quaderno proibito 64 CAP. VIII Una tipografia in paradiso 73 CAP. IX La leggenda del santo bevitore 83 CAP. X Il Parnaso ambulante 92 CAP. XI Pensieri diversi 100 APPENDICE Una solitudine troppo rumorosa 107 Postfazione di Marco Cassini 117 |
| << | < | > | >> |Pagina 7CAPITOLO I
La voce di un libro
Quella mattina non riuscivo a darmi pace, continuavo a guardare le copertine dei libri e la loro disposizione sui tavoli e nelle vetrine. Il giorno prima avevo dedicato buona parte del mio tempo a sistemarli. Da più di vent'anni ripetevo il rito ogni quindici giorni: abbinare i colori, le collane, i formati e soprattutto i profumi dei libri appena sfornati dalle diverse stamperie, che arrivavano in libreria sballottati dai corrieri ignari delle storie che trasportavano. Cercavo di fare in modo che le composizioni strizzassero l'occhio al lettore, invogliandolo a entrare. Le assemblavo osservando le espressioni dei passanti, interpretavo l'umore della gente e lo trasferivo alle vetrine, a volte allegre a volte tristi. Per i tavoli il rituale era diverso. Toglievo tutti i libri e pulivo a fondo le superfici, quasi a voler cancellare le impronte delle storie che fino a qualche momento prima avevano abitato quello spazio, poi iniziavo a fissare i tavoli vuoti e le pile di libri nuovi. Cercavo di individuare un titolo per iniziare. Scelta la prima pila il resto veniva da sé. In poche ore, come in un puzzle, i volumi si incasellavano e prendevano vita. Quella mattina, entrando in libreria, mi accorsi che era capitato qualcosa di strano. Le vetrine erano state completamente cambiate e i tavoli pure. Un altro ordine, un'altra filosofia si erano insediati. Aspettai nervoso l'arrivo dei colleghi e li interpellai tutti. Mi risposero che mai avrebbero modificato l'esposizione a mia insaputa. La sera mi trattenni oltre l'orario di chiusura per rifare le vetrine e i tavoli. Intanto, mille pensieri si affollavano nella mia testa su chi poteva aver dato un ordine diverso ai libri. Si trattava di una mano singola o di un'azione collettiva? Forse i colleghi volevano esprimere la loro contrarietà a questo modo vecchio e ripetitivo di interpretare il mestiere. Le vetrine ormai si impostavano al computer, che indicava la collocazione, gli abbinamenti, i titoli delle classifiche, quelli segnalati alla radio e in televisione, le recensioni dei giornali e persino i libri promossi dal passaparola.
Dopo aver risistemato i volumi, tornai a casa che era l'una di
notte. Puntai la sveglia alle sei per arrivare per primo in libreria
il giorno successivo. Il sonno fu breve e agitato e tra veglia e sogni
vedevo i colleghi tramare alle mie spalle.
Arrivai alle sette nei pressi della libreria imponendomi di restare calmo, senza riuscirvi. Acquistai il giornale e feci colazione al bar Peste, dove il barista, che mi conosceva da anni, capì da come sorseggiavo il caffè che qualcosa non andava per il verso giusto. Poco dopo davanti alle vetrine trasalii. Entrai e mi accorsi che era cambiato di nuovo l'ordine degli addendi. Non mi capacitavo che qualcuno tra l'una e le sette avesse trasformato vetrine e tavoli. Guardai con attenzione e mi sembrò di identificare lo stile di Felice, che da più tempo lavorava con me e che mi conosceva bene. Poi, davanti alle vetrine organizzate in modo geometrico, mi parve di poter individuare la mano precisa di Giacomo. Marta la scartai: impossibile che tramasse alle mie spalle. Per sbollire, decisi di farmi un giro per la città. Passeggiando, non potei fare a meno di soffermarmi a osservare le vetrine dei colleghi e mentalmente rimaneggiarle cambiando colori, abbinamenti e disposizioni. Tornai in libreria poco prima dell'apertura, ubriaco di copertine e di titoli che si accavallavano e mi confondevano. Feci finta di nulla, e intanto meditavo sul da farsi. La giornata sembrava interminabile e il mio tarlo continuava a scavare. Osservavo i miei collaboratori scherzare, ridere, e fra loro notai un'intesa di cui non mi ero mai accorto. A fine giornata uscii dal negozio di corsa senza neanche salutare e, arrivato a casa, dissi a mia moglie Maddalena di aver notato alcune infiltrazioni d'acqua dalla strada e che dopo cena dovevo tornare in negozio a vigilare che la situazione non precipitasse. Mangiai in fretta e mi diressi nella camera di mia figlia Aurora per augurarle la buonanotte. Mi chiese una delle mie ninne nanne e nonostante la tensione e l'ansia di tornare in negozio, la sua richiesta mi calmò. Iniziai a cantarle una nenia che avevo appreso da bambino e che su di lei era addirittura miracolosa: Aurora si addormentò allontanando per un attimo anche le mie preoccupazioni. Il pensiero di quello che era successo, però, mi tornò di colpo. Salutai Maddalena, accarezzai la bambina e mi munii di un plaid e di un thermos di camomilla. Poi scesi in cantina a prendere una brandina da campeggio e mi diressi in auto verso la libreria. Appena arrivato, iniziai a rifare le vetrine e i tavoli con calma e concentrazione. Verso le due decisi di andare a dormire, non prima di aver letto qualche pagina che potesse conciliare il sonno e allentare la tensione assieme a una tazza di camomilla. Faticai a trovare un libro che mi convincesse, finché non mi venne in mente un libricino di Edmondo De Amicis che mi era stato regalato e che da mesi era nel mio cassetto. Il titolo era La voce di un libro. Lo lessi d'un fiato e ne fui travolto. Il libro si impossessò di me in modo quasi diabolico. Era la storia della prima edizione del capolavoro di Ugo Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis, che d'un tratto agli occhi di De Amicis si animava: il frontespizio diventava il viso del protagonista che raccontava come fosse nato e quali mani lo avessero posseduto, letto e abbandonato. Mi addormentai pensando a quel volume e sognai che tutti i romanzi, i saggi, i manuali presenti in libreria di colpo si animassero scegliendo ognuno una propria collocazione in vetrina, sui tavoli e negli scaffali. | << | < | > | >> |Pagina 46CAPITOLO V
Morte a Venezia
Avevo deciso di affrontare il viaggio per Venezia accompagnato da un romanzo di cui avevo sempre rinviato la lettura. Mi ero convinto che per iniziarlo bisognasse aspettare il momento propizio. Altre letture erano state casuali, inaspettate, estemporanee: questo libro invece lo tenevo in caldo da anni per un'occasione che mi permettesse di goderne appieno. D'altronde non conoscevo ancora Venezia e avevo vinto quest'opportunità a pari e dispari con un collega. Entrambi avevamo espresso il desiderio di vivere quest'esperienza ed entrambi avevamo i titoli per farlo: da dodici anni esercitavamo insieme la professione. Con un pari alle terze vinsi la partecipazione all'ottavo corso per librai di Venezia. Tre volte bim bum bam ed ero sul treno per la città lagunare con in mano il romanzo di Thomas Mann Morte a Venezia. Sistemai il bagaglio e cercai la posizione più comoda per immergermi nel racconto. Avevo appena iniziato la lettura quando la signora seduta di fronte mi chiese se fossi diretto a Venezia. Le feci cenno di sì con la testa, senza aprire bocca. Quasi al fondo della prima pagina, la signora mi chiese perché andavo a Venezia. Le risposi in modo molto stringato, "una mostra", e riabbassai lo sguardo. Ricominciai dalla prima riga e di nuovo, quando stavo per girare pagina, la signora mi chiese di quale mostra si trattasse. Mi alzai senza rispondere, salutai con un cenno e mi diressi in cerca di uno scompartimento senza passeggeri; me ne impadronii chiudendo anche le tendine. Ripresi il libro e iniziai daccapo. Ero a metà della seconda pagina quando entrò il controllore per vidimare il biglietto e per farmi notare che quello era uno scompartimento per sei persone e non una sala di lettura privata. Il commento mi innervosì. Uscii nel corridoio e notai che nessuno chiacchierava, c'era solo qualcuno che guardava il panorama dal finestrino. Capii che se volevo leggere senza essere disturbato dovevo farlo lì. Nessuno mi avrebbe fatto domande: il corridoio è fatto per passare, non per fermarsi. Mi sistemai in uno dei sedili pieghevoli credendo finalmente di riuscire a leggere, invece appena chinai la testa sul libro un signore distinto si avvicinò commentando la copertina del libro e con molto orgoglio mi disse che aveva la prima edizione di Morte a Venezia e che collezionava prime edizioni. Capii che neanche nel corridoio era possibile leggere. Non mi restava che il bagno, sperando che non fosse occupato. Mi precipitai e lessi il racconto tutto d'un fiato poco prima che il treno arrivasse in città. Cercavo di immaginarmi Venezia, che avevo visto solo in qualche foto e in televisione. Entrai in città in compagnia dell'anziano Gustav e del bellissimo Tadzio. Il primo mi seguiva, l'altro mi precedeva. Sceso dal vaporetto e posato il piede sulla terraferma mi accorsi che dalla narice destra colavano goccioloni di sangue. Avevo il fazzoletto in valigia e non sapevo come fare, quando una giovane signora con i capelli bianchi mi porse dei fazzolettini di carta per tamponare il flusso. Mi colpì l'accostamento di un viso tanto giovane a quei capelli bianchissimi. L'emozione e l'agitazione erano scoppiate con l'arrivo a Venezia. Mi incamminai con la signora, che scoprii in seguito essere a Venezia per conto di un noto editore di origini svizzere. Percorremmo insieme la strada fino all'albergo dalle tante stelle: non ero mai stato in un hotel così stellato. All'ingresso una bella donna aspettava i librai per accoglierli; puntata sull'elegante tailleur aveva una spilla con scritto Scuola librai e il suo nome e cognome: Alina Cordelli. Mi diede il benvenuto, il programma della settimana e mi indicò la stanza a me destinata. Entrai nella stanza numero 32 e la circostanza mi colpì perché quel giorno compivo trentadue anni. La camera principesca mi metteva in soggezione e prima di svestirmi e di toccare qualcosa la studiai con attenzione, avevo paura di combinare guai, d'altronde il prezzo affisso sul retro della porta corrispondeva al mio stipendio mensile. Fui attirato da una lettera al centro del letto. Strano, pensai, perché non sulla scrivania o sul comodino, ma al centro del letto? Evidentemente c'era un motivo, pensai, mentre mi avvicinavo per prendere la lettera e aprirla. "Caro amico libraio, bene arrivato nella città di Aldo Manuzio che accoglie da otto anni la Scuola librai. Raccogliendo l'idea dello zio Valentino, con alcuni amici abbiamo pensato che ci fosse bisogno di una "bussola" per orientare coloro che, come te, esercitano questa professione. Leonardo Da Vinci diceva che "quelli che s'innamoran di pratica sanza scienza son come 'l nocchiere ch'entra in naviglio senza timone e bussola, ché mai ha certezza dove vada". Con l'auspicio che il corso serva a meglio governare le vostre botteghe librarie, ti aspetto sull'Isola di San Giorgio per dare inizio all'ottavo corso per librai. L.M." Non mi aspettavo una simile accoglienza. Mi sentivo impreparato a frequentare questa scuola, avevo il timore di non essere all'altezza. Posai la lettera e iniziai a svestirmi per fare un bagno caldo. Riempita la vasca con la schiuma che quasi debordava, scivolai come un'anguilla per ispezionarla tutta in apnea, poi emersi, mi rituffai, riemersi. Non ero abituato a una vasca così grande: mi sembrava di nuotare in laguna. La lettera al centro del letto, la schiuma, la vasca, la stanza principesca mi avevano elettrizzato. Mi venne in mente Aldo Manuzio, che avevo studiato all'università e che era citato nella lettera. Nudo nell'immensa vasca da bagno pensavo a lui e me lo immaginavo accerchiato da donne. Colto, raffinato, stampatore e con un "carattere" così forte, non poteva non raggiungere la fama ed essere corteggiato da donne bellissime. Mentre la schiuma mi avvolgeva lo immaginavo in gondola sul Canal Grande con tante fanciulle dai vestiti rinascimentali che reggevano i libri che aveva stampato. Con gli occhi chiusi vedevo scorrere le immagini di questo carosello. Lo trovavo poco dopo in piazza San Marco in compagnia di una bionda con una treccia lunghissima. La treccia era talmente lunga che avviluppava per intero Aldo Manuzio. I due camminavano sognanti attraverso la piazza. Uscito dalla vasca, per un po' seguii Aldo e la sua compagna come un sonnambulo finché non finii contro l'armadio sbattendo la testa.
Non solo non ero in piazza San Marco, ma mi sentivo molto
ridicolo. Mi risciacquai velocemente e mentre mi asciugavo pensavo a quali
strane immagini mi fossero passate per la mente. Ero
venuto a seguire un corso per librai e invece pensavo a Manuzio,
alle sue donne e al successo che riscuoteva alla corte rinascimentale.
Sicuramente i colleghi e le colleghe avevano fatto riflessioni
ben più serie e impegnative alla vigilia dell'inizio delle lezioni. Mi
chiesi se non sarebbe stato meglio perdere a
bim bum bam
e restare in bottega: forse non ero maturo per il corso. Non me la sentivo di
affrontare la cena con gli altri e informai la signora Cordelli che avevo la
febbre e che avrei riposato per essere in forma
il mattino dopo. Credevo di aver mentito, invece man mano che
passava il tempo avevo sempre più caldo e dopo aver preso un farmaco mi infilai
sotto le coperte. Per qualche ora continuarono a
farmi compagnia Aldo Manuzio e le sue donne finché il sonno
non allontanò questi pensieri. Al mattino mi alzai fresco e riposato, ma con la
preoccupazione di non essere all'altezza.
A colazione scelsi un tavolino un po' in disparte. Salutai timidamente la signora Cordelli e iniziai a bere il mio cappuccino. Dopo qualche minuto si avvicinò una giovane collega chiedendomi se poteva sedersi. Mi presentai e rimasi sbalordito quando pronunciò il suo nome e cognome. Pensavo di aver capito male e le chiesi di ripetermelo. "Caterina Manuzio" mi disse, alzando il tono della voce. Il cappuccino mi andò quasi di traverso. Avevo ben presente il ritratto di Aldo Manuzio, che avevo visto su diversi libri e alla Pinacoteca di Ferrara, e lei gli assomigliava tantissimo. I lineamenti del volto erano praticamente uguali, pur essendo passati più di cinque secoli. Le chiesi quali legami avesse con l'illustre personaggio e mi rispose che era una discendente e da qualche anno faceva la libraia a Venezia proprio dove il suo avo aveva iniziato a stampare. Ero incantato. Le dissi di conoscere tutto di Aldo Manuzio, la sua figura di stampatore mi aveva sempre affascinato. Caterina apprezzò molto il mio entusiasmo e ci intendemmo subito. Dopo la colazione ci incamminammo verso il vaporetto alla volta dell'Isola di San Giorgio e lei mi fece cenno di sedermi al suo fianco. Il corso era partito bene, nonostante i miei timori. Non era ancora iniziato e già avevo fatto amicizia con Caterina Manuzio. Meno male, pensai, che avevo vinto a bim bum bam: quel pari alle terze mi permetteva di essere su un vaporetto diretto all'Isola di San Giorgio accanto a Caterina. Avevo vinto a pari e dispari, mi avevano assegnato la stanza 32 nel giorno del mio trentaduesimo compleanno, avevo immaginato il mondo di corte di Manuzio e il giorno dopo la sua discendente Caterina era a colazione con me. A cosa era dovuto tutto questo? Mentre un simile interrogativo mi balenava nella testa approdammo sull'isola. Per tutto il viaggio avevo cercato di indovinare il colore degli occhi di Caterina, che sembravano dello stesso colore del mare della laguna. Le diedi la mano per aiutarla a scendere dal vaporetto e sentii il calore suo e dello zio Aldo, che evidentemente era presente anche se non lo vedevamo. Mi aspettavo che da un momento all'altro spuntasse dalla chiesa di San Giorgio o direttamente dal mare. Prima di iniziare il corso ci fecero visitare l'isola con la sua chiesa, il chiostro e la sala degli affreschi. Poi entrammo in una sala bellissima, con un dipinto del Tiziano, ci sedemmo e ascoltammo la presentazione della Scuola da parte dei professori. Non so per quale combinazione — o forse sì — ero capitato vicino a Caterina. La mattinata passò velocemente con i professori che ci spiegavano come dovevamo gestire le nostre botteghe. Io seguivo tutto ma continuavo a pensare ad Aldo Manuzio e soprattutto alla ragazza che accanto a me non perdeva una parola delle lezioni. Si era parlato di gestione del monte merci e indici di rotazione, confesso che mi venne un po' di mal di testa a seguire chi parlava delle favolose rotazioni della più grande catena italiana. La mia libreria aveva una rotazione modesta, avrei detto dignitosa, rispetto a questi pachidermi. Alcuni dati mi parvero addirittura "drogati" per meglio marcare la differenza rispetto a noi, comuni librai. Alla sera effettivamente mi girava la testa: una giornata intera con Caterina, le lezioni gomito a gomito, il pranzo e la passeggiata sull'Isola di San Giorgio e poi la cena. Il fatto che sapessi praticamente tutto di Aldo Manuzio l'aveva impressionata, ero a conoscenza di aneddoti che neanche lei conosceva. A memoria le recitai tutti i titoli che aveva stampato zio Aldo: aveva iniziato con le opere del Bembo e del Poliziano per poi continuare con gli autori latini, Virgilio, Orazio, Marziale, Cicerone, Ovidio, Catullo, Tibullo e Properzio. Come premio ricevetti un bacio alla veneziana e un invito a visitare il posto dove zio Aldo stampava. | << | < | > | >> |Pagina 76Quando tirai fuori il libro di Mimma Mondadori Una tipografia in paradiso si mise a saltellare strabuzzando gli occhi e annuendo con la testa. Forse mi ero imbattuto in una gallina speciale: sembrava volermi far capire che il libro era importante. Decisi di iniziare da quello. Ma avevo voglia di leggere in riva al mare. Da Venanzio avevo scoperto un sentiero che in mezz'ora di cammino conduceva direttamente al mare senza percorrere strade asfaltate. Mi incamminai con il mio zainetto in spalla inspirando a pieni polmoni i profumi di origano, menta, finocchio e rosmarino che salivano dal mare e mi entravano come un venticello leggero nelle narici. Scendendo incrociai querce, lecci, pioppi, allori e piante di eucalipto. Camminavo seguendo i profumi che mi portavano al mare, quando da dietro una ginestra fiorita sbucò un cinghiale che quasi mi travolse.Voltandomi per seguire la sua corsa, mi accorsi che la gallina lettrice mi aveva seguito. Rimasi spiazzato perché non potevo tornare indietro per riportarla al casolare né potevo abbandonarla. Si intravedeva già la spiaggia di Marina di Maratea, allora decisi di portarla con me. La presi in braccio e insieme ci insediammo sul mio asciugamano. Prima di iniziare la lettura mi tuffai nell'acqua cristallina di Marina. A riva iniziai a raccogliere i sassolini piccolissimi colorati dall'acqua. Mi rilassava farli scivolare da una mano all'altra lasciando solo una piccola fessura, come una clessidra che scandiva il tempo in cui ritrovare il piacere della lettura. Quando tornai all'asciugamano, trovai Lina — così avevo deciso di chiamarla — accovacciata sul libro. Sembrava volesse covarlo. La invitai a spostarsi dolcemente perché mi sentivo pronto per iniziarlo. Ci volle poco a calarmi nella lettura in compagnia della mia nuova amica. Tre ore di lettura mi fecero conoscere da vicino la famiglia di Mimma, che mi aveva preso per mano per raccontare la storia di Arnoldo suo papà, di sua mamma Andreina, dello "scapestrato" Alberto fondatore del Saggiatore, di Giorgio e di tutto il mondo che gli ruotava attorno, da Thomas Mann, a Ernest Hemingway, ad Antonio Fogazzaro, a Gabriele D'Annunzio, a Giuseppe Antonio Borgese, a Marino Moretti, ad Alba de Céspedes e Maria Bellonci. Rimasi di stucco quando scoprii che i Mondadori facevano le vacanze a Maratea con il loro amico Giorgio Bassani. Avevo letto Il giardino dei Finzi-Contini e avevo visto anche il film. Mentre pensavo alla storia singolare di questa famiglia che aveva condizionato l'editoria italiana, lentamente dall'orizzonte intravidi sbucare una barca a vela maestosa con un albero che puntava dritto verso il cielo. L'imbarcazione sembrava una libreria galleggiante. Alle corde delle vele erano attaccati libri. Al timone c'era Arnoldo Mondadori con a fianco il conte Valentino Bompiani e Luciano Mauri che discutevano animatamente di un libro che avevano visto a Francoforte e che tutti avrebbero voluto comprare, ma che si erano fatti soffiare da un piccolo editore. A poppa, con un sigaro a un angolo della bocca, appartato e pensieroso Giangiacomo Feltrinelli guardava in lontananza. Mi strofinai gli occhi e guardai con più attenzione. Mi accorsi che dalla stiva continuavano a uscire senza interruzione, come nei fumetti di Jacovitti, noti personaggi del mondo editoriale. Erich Linder uscì con la segretaria Marilù e i suoi amici Leonardo Sciascia e Cesare Cases. Avevo tanto sentito parlare di questo agente letterario che "muoveva" le letterature del mondo intero: partito dal nulla, era diventato in pochi anni arbitro del mercato editoriale mondiale, tanto da guadagnarsi l'appellativo di "Metternich dell'editoria". Giuseppe Pomba spuntò con la sue basette infinite, che gli attraversavano tutto il viso, in compagnia di Luigi Firpo e di Cesare Cantù. Pomba, rimasto orfano di padre, aveva ereditato a quindici anni la piccola bottega di libraio e da lì era partito per passare dai libretti devozionali alla stampa di Omero e Shakespeare. Per rendere più accessibili i suoi libri, inventò per primo la vendita a dispense spedite per posta, due alla settimana, una lira in tutto. Uomo d'ingegno, austero e morigerato, risparmiò anche nel maritare le sue tre figlie: le fece sposare tutte e tre nello stesso giorno risparmiando due ricevimenti di nozze. Un nutrito drappello di fiorentini, guidati da Renato Giunti, sbucò dalla pancia del grande veliero. Paggi, Bemporad, Marzocco e Martello, e dopo pochi minuti apparve anche il torinese Barbera che aveva messo da tanti anni radici a Firenze. Tutti, al contrario di quelli che li avevano preceduti, avevano un libro in mano e lo mostrarono con orgoglio uscendo. A braccetto invece uscirono gli svizzeri Ulrico Hoepli e Vanni Scheiwiller accompagnati dal tedesco Otto Sperling. | << | < | > | >> |Pagina 92CAPITOLO X
Il Parnaso ambulante
Spesso al mattino, prima di recarmi in bottega, mi capitava di
contemplare la mia libreria in noce. Mi divertivo a guardare le
collane di libri non più editi, quelli comprati in bancarella, le dediche
curiose e quelle spiritose, le copertine cambiate negli anni.
Ispezionando la libreria passavo in rassegna gli ultimi trent'anni
e i cambiamenti miei e dei miei libri. Talvolta per iniziare bene la
giornata cercavo una poesia, altre volte un racconto, altre volte
ancora uscivo di casa solo dopo aver letto l'incipit di un romanzo
che mi era piaciuto o di uno che volevo leggere e non ne avevo
avuto il tempo. Certe mattine mi svegliavo con la voglia di sfogliare un fumetto
e di trovare una striscia che mi mettesse di buon
umore. Spesso arrivavo al lavoro con un autore in testa o con una
poesia o un racconto o una striscia di Linus o di Mafalda. Avevo
organizzato i miei scaffali per editore e poi avevo separato i testi:
da un lato la poesia, da un altro i libri che ritenevo "assoluti", un
angolo per i fumetti; con la stessa passione con cui riempivo gli
album delle figurine Panini, raccoglievo in un altro scaffale storie
di librai, di bibliotecari e di bibliofili: li leggevo, li sottolineavo e
poi li rimettevo a posto nella vetrinetta per proteggerli e preservarli. Per
trent'anni avevo messo sotto chiave e sotto vetro i libri acquistati e letti
senza mai soffermarmi a riflettere sul patrimonio raccolto.
Una domenica mattina mentre leggevo il giornale sentii un brusio arrivare
dalla vetrinetta. L'aprii per capire da dove provenisse
quello strano rumore e iniziai a scorrere i titoli, man mano che li
scorrevo mi emozionavo: avevo inconsapevolmente messo insieme tante storie di
libri. Sfiorai d'istinto uno dei libri a cui più
ero affezionato:
Il Parnaso ambulante
e il libro di colpo si mise a
parlare, trasformandosi in una specie di audiolibro di carta. Elena
McGill, la protagonista, mi chiese di fare silenzio e di spegnere la
luce poiché iniziava la lettura. Provai a dirle che conoscevo a memoria quel
libro e lo regalavo ormai da 15 anni a tutti coloro che
iniziavano a lavorare con me in bottega. Non parve interessata,
mi zittì dicendomi che si trattava di una nuova traduzione. Sorrisi, spensi la
luce e mi accomodai in poltrona. Dopo due ore di
ascolto mi accorsi che la storia a me nota era cambiata, non capivo se dipendeva
dalla traduzione o se la ricordavo male. Ero terrorizzato, avevo timore che
tutti i libri si fossero trasformati in
audiolibri e mi avvicinai impaurito come quando si teme di prendere una scossa
elettrica. Toccai
La lettera d'amore
di Cathleen Schine pensando di sentire la voce della protagonista invece il
libro si trasformò in un e-book. Stavo per toccare
Auto da fé
di Canetti e di colpo ritrassi terrorizzato la mano. Come si sarebbe trasformato
questo libro straordinario? Non me la sentivo di toccarlo, avevo paura. Lo
sfiorai per vedere se succedeva qualcosa e
in effetti qualcosa di curioso capitò: il libro si aprì a pagina 7 e mi
diede appena il tempo di leggere quella pagina che comunque conoscevo a
menadito, poi mise le ali e volò via dalla finestra. La situazione iniziava ad
appassionarmi. Mi guardai attorno e decisi di avvicinarmi a
Del furore d'aver libri
di Gaetano Volpi. Con un titolo così il minimo che potesse capitarmi era di
vedermelo esplodere tra le mani. Prima lo annusai poi lo toccai con la punta del
naso. Il libro di colpo cambiò formato e copertina, comparvero
bellissime illustrazioni e la stampa si trasformò in un manoscritto
vergato con grafia meravigliosa. Andai alla ricerca dei titoli più
bizzarri, incuriosito dalle sorprese che mi aspettavano. Adocchiai
con circospezione
La biblioteca scomparsa
di Luciano Canfora per capire come meglio avvicinarmi. Decisi di tentare un
esperimento: avrei preso il libro più velocemente possibile, lo avrei
messo in un sacchetto e chiuso immediatamente. Così feci, più
veloce della luce. La sorpresa fu grande, il sacchetto di plastica divenne di
carta e dentro c'era una stilografica con il pennino d'oro.
Meraviglie a cascata e tutte diverse, come diversi erano i libri. Da
tanto tempo non aprivo quella vetrinetta, forse i libri avevano bisogno di una
boccata d'aria. Avevo creduto di proteggerli e invece
li avevo rinchiusi, si sentivano soffocati e adesso reagivano come
meglio sapevano fare: chi cambiando veste, chi volando, chi
scomparendo, chi parlando, chi diventando elettronico. Avevo
sbagliato tutto, dovevo scardinare le cerniere della vetrina e rimettere in
libertà quei libri che per trent'anni avevo blindato e
protetto. Prima di smontare la vetrinetta e la cerniera feci un ultimo tentativo
con un libro a cui ero molto affezionato,
Memorie di un libraio
di Cesarino Branduani. Ero troppo curioso di vedere
cosa sarebbe successo. Questa volta decisi di mettermi i guanti di
pelle che mi erano stati regalati per Natale e delicatamente toccai
il dorso, nel punto esatto in cui era scritto Cesarino. La sorpresa
fu ancora più grande. Dal libro uscì, come dalla lampada di Aladino, Cesarino in
calzoncini che mi redarguì: "Perché ci hai imprigionati togliendoci il respiro?
Meglio la polvere che perdere la libertà. Ci siamo salvati parlando tra di noi e
raccontandoci le nostre storie. Come hai potuto raccogliere storie così belle e
poi imprigionarle? Pensavamo amassi i libri, ci siamo sbagliati?" Mi feci
piccolo piccolo a sentire le parole di Cesarino. Senza rendermene
conto avevo messo sotto chiave storie straordinarie di librai, bibliotecari e
bibliofili con i loro protagonisti che adesso chiedevano di riavere la loro
libertà e di tornare a scaffale aperto. Non
esitai un momento. Presi cacciavite e martello e iniziai a smontare le cerniere.
Non ci volle molto, in una mezz'ora avevo smontato la vetrinetta e ridavo
ossigeno a centinaia di storie e ai loro
personaggi. Divelta l'ultima vite percepii un sospiro di sollievo
collettivo, un "Aaahh era ora" a cento voci si diffuse per tutta la
stanza. Mi ero tolto un peso anch'io. Come potevo rimediare a
quello che avevo fatto?
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