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| << | < | > | >> |IndicePunto e a capo, 15 maggio 2001 9 La tabella, 22 maggio 2001 11 Lo statista, 25 maggio 2001 13 Senso del pudore, 30 giugno 2001 15 Il tornitore e il padrone, 6 luglio 2001 17 Aspettando Godot, 7 luglio 2001 19 Giotto, 17 luglio 2001 21 Perché?, 25 luglio 2001 23 Crash, 29 luglio 2001 25 Eccessi, 9 agosto 2001 27 Un'idea, 24 agosto 2001 29 Slip, 9 settembre 2001 31 Chiediamoci perché, 12 settembre 2001 33 Il cuore in gola, 14 settembre 2001 35 Dies irae, 21 settembre 2001 37 Mai, 25 settembre 2001 39 Atto primo, 10 ottobre 2001 41 Quo vadis?, 20 ottobre 2001 43 Domande, 27 ottobre 2001 45 Silete, 7 novembre 2001 47 Sole che sorgi, 9 novembre 2001 49 Cos'è il peggio?, 23 novembre 2001 51 La guerra è vinta, 6 dicembre 2001 53 L'ebreo errante, 18 dicembre 2001 55 Frutti esotici, 8 gennaio 2002 57 Out of standard, 13 gennaio 2002 59 Alte velocità, 18 gennaio 2002 61 Dente per dente, 20 gennaio 2002 63 Uno, cento mille euri, 25 gennaio 2002 65 I due corni del problema, 10 febbraio 2002 67 C'è poco da ridere, 2 marzo 2002 69 Una ragione in più, 21 marzo 2002 71 Contiamoci, 23 marzo 2002 73 Un dio minuscolo, 31 marzo 2002 75 Il tallone di ferro, 9 aprile 2002 77 Non c'entra, 13 aprile 2002 79 La nuvola nera, 25 aprile 2002 81 P.S., 9 maggio 2002 83 Sacro e profano, 17 maggio 2002 85 Papa, 19 maggio 2002 87 Doppio taglio, 23 maggio 2002 89 Pollice verso, 31 maggio 2002 91 Parole e musica, 2 giugno 2002 93 Prime pagine, 20 giugno 2002 95 Il ballerino, 10 luglio 2002 97 La novità, 17 luglio 2002 99 Avanti così, 2 agosto 2002 101 Speriamo bene, 23 agosto 2002 103 La guerra preventiva, 11 settembre 2002 105 Il dado è tratto, 13 settembre 2002 107 La dottrina globale, 20 settembre 2002 109 La vertigine, 25 settembre 2002 111 Pietà per la Fiat, 12 ottobre 2002 113 Il copione, 27 ottobre 2002 115 I bambini ci guardano, 2 novembre 2002 117 Almanacchi, 8 novembre 2002 119 La sorpresa, 12 novembre 2002 121 Un fil di fumo, 16 novembre 2002 123 Lettere smarrite, 4 dicembre 2002 125 Mezzo milione, 11 gennaio 2003 127 La risorsa, 23 gennaio 2003 129 Fiat, 25 gennaio 2003 131 Choc e timore, 28 gennaio 2003 133 Lasciamolo solo, 7 febbraio 2003 135 In teoria, 19 febbraio 2003 137 I sovversivi, 25 febbraio 2003 139 Ei fu, 2 marzo 2003 141 Moab, 13 marzo 2003 143 No e poi no, 18 marzo 2003 145 Fuoco, 21 marzo 2003 147 Non è che l'inizio, 23 marzo 2003 149 Non sanno, 3 aprile 2003 151 Kamikaze, 6 aprile 2003 153 Una nuova stella, 10 aprile 2003 155 Senza confini, 24 aprile 2003 157 |
| << | < | > | >> |Pagina 9La vittoria di Berlusconi è netta, piena e robusta. Nasconderselo sarebbe stupido. Sminuire il significato e le conseguenze politiche di questa scandalosa domenica sarebbe l'ultimo dei molti errori che la sinistra ha commesso dal 1994 a oggi (anzi dal 1989, per dirla di sfuggita). Non è tanto una vittoria plebiscitaria (sebbene abbia un piglio presidenzialista e personalissimo) e neppure una vittoria numerica (il centro-destra non ha moltiplicato i voti che aveva). È una vittoria politica fondata su un blocco sociale esteso e consistente, molto più di un umore passeggero, su un'idea o progetto di società imprenditoriale, sull'egoismo individuale come modello di comportamento. Una vittoria politica e culturale maturata nel tempo, non contrastata ma favorita in questi anni da una sinistra di governo mediocre e smemorata, un processo che si è ora tradotto in maggioranza istituzionale. Non illudiamoci che Berlusconi ne faccia un uso rozzo e maldestro e si dia la zappa sui piedi come ha fatto magistralmente D'Alema. È in grado di spadroneggiare e lo farà, ma con più intelligenza e fiuto di quanto noi amiamo attribuirgli e per mettere radici nei gangli del potere statale e del corpo sociale. E non illudiamoci su uno scollamento precoce del suo sistema di alleanze politiche, che ha saputo costruire e ricostruire mentre la sinistra frantumava il proprio e su cui esercita adesso indiscussa egemonia. Forse va detto, per cercare di comprendere appieno la novità della situazione e la difficoltà per noi di farvi fronte, che non tanto è grande la vittoria di Berlusconi quanto è grande la sconfitta che la sinistra di governo (ma la sinistra tutta e tutto il centro-sinistra e le minoranze sciolte) ha cercato di non vedere fino all'ultimo minuto. Il dato diessino è impressionante, riduce il post-comunismo a una dimensione semiregionale e anche la sommatoria con la sinistra alternativa tocca un minimo storico. Le rondini di un sindaco o di un collegio pugliese non fanno primavera. Di tutto lo schieramento perdente solo Rutelli può vantare un parziale successo alla testa tuttavia di un raggruppamento senza fisionomia. Si può sperare che in parlamento la nuova opposizione sappia darsi un comportamento e ristabilire un rapporto con i molti milioni di persone che l'hanno votata senza diserzioni e non si rassegnano a una Repubblica decostituzionalizzata e padronale. Ma non si può sperare di risalire la china nel paese se la sinistra rimarrà qual è, se non volterà pagina e aprirà un nuovo libro, se non rimetterà sul serio in discussione il suo stile politico e il suo sistema di idee, se gli artefici della sconfitta resteranno al loro posto senza umiltà. | << | < | > | >> |Pagina 15Forse non ho capito bene questa faccenda della tassa di successione che Silvio Berlusconi ha deciso di abolire nel primo dei primi cento giorni di vita del suo governo. Se ho capito bene, il capo del governo ha deciso all'istante di detassare il suo patrimonio, come ogni altro patrimonio miliardario, affinché i suoi familiari e discendenti possano di generazione in generazione ereditarlo intonso. I ragazzi non potranno dire che è un frutto del sudore della loro fronte, ma questo sarà un titolo di merito in più. Non c'è nessun conflitto di interessi in una misura legislativa così candida. C'è una coincidenza di interessi perfetta e assoluta. Supponendo che il presidente del consiglio disponga di un patrimonio di diecimila miliardi (non riesco a immaginare una cifra più alta), e supponendo che la tassa di successione sia da noi al 28 % come in America (ma l'ineffabile sinistra di governo l'ha già ridotta a un ticket del 4 %), il capo del governo regala a sé e ai suoi cari 2.800 miliardi: una grande opera. In più, alienando così vantaggiosamente il suo patrimonio, diventa povero e risolve il conflitto di interessi. Se poi moltiplicate l'operazione per tutti i multimiliardari d'Italia, la somma sottratta all'erario basterebbe a sistemare l'intero sistema idrofognario (per restare in tema) del Mezzogiorno. Secondo le filosofie liberali (non bolsceviche o socialdemocratiche) e le annose teorie economiche la tassa di successione ha valore di principio. I miliardari americani implorano Bush di non abolirla o ridurla, perché dove va a finire sennò la leggenda del self-made-man, delle pari opportunità e vinca il migliore? Ipocrisie borghesi, mi insegnavano un tempo i miei cattivi maestri, ma Luigi Einaudi ci credeva e i discendenti dei feudatari inglesi oggi aprono i loro castelli ai turisti per non finire in miseria. E le biografie patinate del presidente del consiglio non lo hanno sponsorizzato come uomo di gavetta? Dalla gavetta alla cornucopia nepotista. Penso alla sofferenza interiore che deve provare un intellettuale liberale come Galli Della Loggia di fronte a questa decadenza del costume, alla difficoltà che incontrerà Lucio Colletti nel conciliare questi libertinaggi della casa della libertà con la filosofia di Popper, alle Fenici che il sottosegretario Sgarbi potrebbe ricostruire con quel 4 %. L'on. Violante vorrebbe devolverlo in borse di studio, ma dubito che capeggerà un ostruzionismo parlamentare dopo averlo deplorato dal suo alto seggio, oggi gratuitamente ereditato dall'on. Casini. Forse, contro una norma legislativa ad personam così sfrontata bisognerebbe appellarsi alla Corte costituzionale dappoiché la proprietà privata è altrimenti concepita nella Costituzione. Ma le Corti supreme, dalla Florida a Belgrado, contano meno di una pretura. Oppure bisognerebbe ricorrere all'Aja, se quel tribunale americano avesse una sezione civile contro i crimini di pace. Oppure appellarsi semplicemente al comune senso del pudore, come ha fatto saggiamente in extremis la signora Ferilli. | << | < | > | >> |Pagina 33Per la prima volta nella sua storia l'America ha visto la guerra entrare nelle sue metropoli, nelle sue strade e nei suoi grattacieli, nei suoi centri istituzionali, e seminare strage nella sua popolazione civile. È un evento epocale, tanto imprevisto nelle sue modalità quanto imprevedibile e incommensurabile nelle sue conseguenze politiche e militari. Mentre scriviamo non conosciamo con precisione neppure il numero delle vittime, certamente pauroso. Non conosciamo da chi è partito l'attacco, anche se viene genericamente ascritto al terrorismo arabo che mai però ha dato prova di una simile capacità militare. Non sappiamo spiegare la vulnerabilità mostrata dagli apparati di sicurezza e dai sistemi di emergenza della più grande potenza mondiale. Di sicuro le immagini che abbiamo visto, non al cinematografo ma in presa diretta, resteranno nella nostra memoria come un momento di storia che non tollera e non tollererà interpretazioni superficiali. L'opinione pubblica americana, sconvolta e incredula, chiederà conto di questa tragedia e non sarà la solidarietà internazionale e la nostra a confortarla. Il presidente Bush che vola sul suo aereo speciale perché la sua capitale è insicura faticherà a capire come sia possibile che il fantastico sia reale, che succeda a lui quel che succede ad altri, e cercherà una risposta che può far tremare il mondo. Grande è l'emozione di tutti per il presente, altrettanto grande è l'ansia di tutti per il futuro. Ho sentito un telespettatore mormorare, mentre guardava Manhattan bruciare e crollare quelle torri e un grande viale carico di macerie: sembra Beirut. Ma poteva dire molti altri nomi, perché non è vero che abbiamo alle spalle cinquant'anni di pace e di convivenza e di civiltà universale, è vero invece che le scene di sofferenza e morte sono entrate nella quotidianità. E adesso scopriamo che non ci sono ne confini né isole. Questo ci sbalordisce, ci lascia attoniti: che il mondo si rivela oggi più globale di ieri nella sua instabilità e vulnerabilità. Che cosa faremo, ci rallegreremo che la confusione non sia stata mai così grande sotto il cielo? Invocheremo la Bibbia? Ci adatteremo a vivere in uno stato d'emergenza permanente? È un po' ridicolo dirlo in quattro righe e in un momento come questo (o è invece il momento giusto?) ma lo diciamo lo stesso: diciamo di no, conserviamo la buona speranza. | << | < | > | >> |Pagina 53Gli Stati uniti d'America e la coalizione mondiale alleata hanno vinto in tre mesi la guerra contro l'Afghanistan e il suo regime. Il futuro di questo paese coloniale e le vittime civili della guerra hanno una importanza secondaria. Il senso comune occidentale e anche quello locale dice che la guerra è stata opportuna e vittoriosa. Manca la cattura di bin Laden, che però non è più rappresentato come il male assoluto ma come un topo in una trappola che verrà presto derattizzata. La sua organizzazione non è più uno spettro che incombe sul mondo ma una mafia schedata dalla polizia. Se morirà non sarà un martire per nessuno. La guerra potrebbe finire qui, come regalo di Natale. Invece continuerà imprevedibilmente per instaurare una libertà duratura in un nuovo ordine mondiale. Agli Stati uniti d'America, feriti nell'orgoglio ma neppure scalfiti nella potenza, è stata offerta l'occasione storica di riaffermare il loro primato su scala planetaria. Non se la faranno sfuggire. La carta geografica, il mappamondo, deve oggi apparirgli come una grande scacchiera dove ogni casella deve essere controllata dalle torri, dagli alfieri, dai pedoni dell'unico campione vivente. A cominciare dalla casella medio-orientale, naturalmente. Tutto il mondo arabo è sotto scacco, dopo la vittoria afghana, e la sua prossima mossa già annunciata (la guerra alla Somalia, all'Iraq) sarà una passeggiata. È quello che sta accadendo in Palestina. Non credo che gli Stati uniti vogliano trattenere Israele dal fare terra bruciata e non credo che Israele si proponga di negoziare a nessuna condizione. Non rinuncerà a nessun insediamento e semmai li estenderà, come sempre fanno i vincitori. Fa la guerra al terrorismo, non al popolo palestinese, dunque ha ragione. E non temono che l'incendio divampi, perché hanno di fronte plebi disarmate e satrapie corrotte e perché già la guerra generalizzata in quell'area le ha garantito nuovi confini e supremazia indiscussa. Ci abitueremo, siamo già abituati, a convivere con questo scenario. Un senso di forza prevale sul senso di paura. Paghiamo un prezzo modesto. L'indice Nasdaq è molto più forte di al Qaeda, un dollaro vale trentaseimila afghani intesi come moneta, spenderemo per le feste mille miliardi (cinquecento milioni di euro) più del solito, le due torri sono un incubo lontano e la vittoria è sotto i nostri occhi. La nostra civiltà non crollerà sotto l'assalto di orde barbariche, la sproporzione delle forze non ha precedenti nella storia. A parte una catastrofe naturale, cederà solo e forse dal suo interno perché è mal costruita, se e quando non piacerà più a noi stessi. | << | < | > | >> |Pagina 65Se l'euro possa essere declinato al plurale (come i dollari o gli aerei) oppure no (come le auto e dio) non è una questione di lana caprina, che peraltro era un tessuto elegante ed economico sebbene rude e autarchico. E non è una questione apparentemente oziosa come il sesso degli angeli, che ebbe peraltro rilevanza teologica e impegnò a lungo la filosofia scolastica, neoaristotelici e tomisti. Noi trascuriamo a torto le lettere dei lettori che i grandi giornali (a suo tempo anche la Pravda) curano invece come la pupilla degli occhi. Perciò non ci siamo accorti che la nostra rubrica di fondo pagina (quando non c'è la pubblicità) ha avviato sulla nuova moneta un dibattito filologico che non può lasciarci indifferenti e neutrali. A titolo personale, e naturalmente in minoranza, non esito a schierarmi a fianco della nostra lettrice senese contro l'euro singolare e assoluto (monoteista) e a favore degli euri relativi e plurali (pagani). Scientificamente non so, non oso avventurarmi su questo terreno. Uso un lessico familiare e se dico gatto voglio poter dire gatti. Preferisco il maschile e il femminile al neutro, odio le maiuscole e umanizzerei al plurale perfino i nomi propri (ci sono al mondo molti ernesti, molti tommasi, molti luigi che già finiscono con la lettera i). La moneta è già di per sé un'astrazione massima e idealizzarla come indeclinabile oltreché onnipresente e onnipotente mi sembra un eccesso di zelo e masochismo inconscio. L'argomento secondo cui il neologismo euro (a prescindere dal vento omonimo) è una contrazione di Europa e pertanto non può essere articolato è un argomento specioso e tendenzioso. Questo neologismo non designa infatti un vecchio continente ma un nuovo oggetto, è un nuovo nome per una nuova cosa che prima non c'era, e un sostantivo a cui vanno riconosciuti tutti gli attributi dovuti a ogni sostantivo che si rispetti (autonomia e dignità grammaticale e sintattica). Non bisogna permettere che il gergo prevalga sulla lingua. Scorgo un'insidia ideologica (non filologica), in questo euro singolare imperativo, una suggestione feticista, la moneta totemica come specificazione o variante del pensiero unico in vista del danaro globale. Semplificando, al dollaro che brilla nella pupilla di paperone preferisco gli spiccioli che diventano quasi umani nelle nostre tasche, perché mi sembra di usarli io invece di essere da loro usato (governato, determinato). Infine le monete sono fatte per essere moltiplicate, esigono il plurale (potreste mai immaginare la moltiplicazione del pane e del pesce se non si potessero declinare?). Eppoi è una questione di suono, di orecchio. Euro è tenebroso, suona come orco. Euri è gioviale, suona come puffi o finferli. Se immaginate dei bambini che giocano in un prato e arriva l'euro tutti scappano, bambini e gnomi. È come sempre una battaglia persa, come contro lo smog, ma con una differenza: se non posso impedire la circolazione degli auti nessuno può impedirmi di dire euri in luogo pubblico, al taxista, al bar e dove mi pare e piace anche se è vietato fumare. | << | < | > | >> |Pagina 93Se invece di patria si dicesse matria sarebbe più rassicurante. Ma non suona bene e poi, a parte che la maternità è un concetto logoro, è tutto l'opposto della virilità che la parola patria evoca di per sé. Come la parola padrone, che ha la stessa etimologia. Una virilità non necessariamente guerriera, la patria potestà era in origine sinonimo di potere assoluto sui figli e sui servi a pari titolo, come anche sulla vittoria che era schiava di Roma. Patria infatti si scrive con la maiuscola, a differenza di paese che si può scrivere anche minuscolo senza mancare di rispetto. A parte i nomi propri, le maiuscole dovrebbero essere abolite come i punti esclamativi (specialmente doppi) e tutto quanto riveste di enfasi le parole e i concetti. Le maiuscole sono una intimidazione, un lettore mi ha rimproverato perché scrivo minuscolo anche dio che però non credo se ne risenta. La parola patria soffre purtroppo di un male di cui non ha nessuna colpa, quella di essere stata abusata con dubbie intenzioni. Raramente è festosa e amichevole, come possono esserlo in liete circostanze anche le bandiere e gli inni, quasi sempre è associata alla guerra e alla morte e altre cose così. Chi per la patria muor vissuto è assai, stringiamoci a corte siamo pronti alla morte, i martiri nostri son tutti risorti: ecco una cosa che proprio non succede e che i sopravvissuti non dovrebbero accreditare. Goffredo Mameli era un buon patriota, mazziniano e garibaldino, che morì a ventidue anni sul Gianicolo per una ferita alla gamba. Ora è un eroe risorgimentale ma allora era un giovane bacelliere che fu curato male come capita. Non fece a tempo a diventare un poeta ma ha scritto un inno (anzi due, uno musicato da Giuseppe Verdi che forse è meglio) che dura da centocinquant'anni e non è poco. Aveva un viso triste e una grande barba, per sua fortuna non ha avuto biografi. La mia generazione ha dei pregiudizi. Non mi piacciono le parole, i riti, gli usi e costumi che sono tornati di moda. Non mi piace che la festa della repubblica sia militaresca tanto più che anche la guerra è tornata di moda (invero lo è sempre stata e nell'ultima versione della bibbia c'è ancora il dio degli eserciti). Ammetto a mala pena il casco dei motorini figuriamoci l'elmo di scipio. Ma non si vive di pregiudizi.
Bandiera rossa non è musicalmente meglio dell'inno nazionale, dipende da chi
canta. Se cantasse Storace sarebbero l'una e l'altro bandiere nere. E anche
patria può essere una buona parola, i partigiani si chiamavano in origine
patrioti (o Banditen) e quelli di città si chiamavano gruppi d'azione
patriottica (gap). Terroristi, per la storiografia più recente.
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