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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione 7 Rosso 45 Distributore automatico di acqua gassata 53 Samovar 61 Profumo 69 Polpetta 75 Bicchiere a faccette 81 Contromarca 87 Metro 95 Il cadavere di Lenin 101 Sputnik 105 Dolce pasquale 111 Carta igienica 115 Borsa a rete 121 Automobile 127 Vodka 131 Deficit 137 Galosce e ciabatte 149 Sigarette 153 Moneta 159 Lampada 163 Pesce essiccato 169 Portabicchiere 175 Distintivi 181 Scarafaggio 187 Barattoli 193 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Cose e oggetti Gli oggetti russo-sovietici che saranno protagonisti di queste pagine non sono soltanto quelli che sull'onda dell' Ostalgie o del rimpianto per l'impero socialista perduto hanno trovato oggi una nuova vita in mostre d'arte, cataloghi di design o volumi retrospettivi, musei commemorativi o negozi di souvenir. Il loro inserimento in spazi culturali istituzionali, mostre, volumi, gallerie, aree commerciali ne ha defunzionalizzati molti di loro e li ha trasformati in pezzi da esibizione, non necessariamente caricandoli dello status di objet d'art, ma privandoli della loro aura primigenia e attribuendo a essi responsabilità che, spesso, non sono in grado di affrontare o sopportare. Il filosofo russo-tedesco Boris Groys ci viene in aiuto per addentrarci in questo mondo: Cercando arte moderna nei musei di oggi, si deve tenere in conto che ciò che si vedrà esibito come arte sono, soprattutto, frammenti di design defunzionalizzati. [...] Arte è design che ha perso la sua funzione perché la società che forniva ragione alla sua esistenza ha subito un collasso storico, come l'impero Inca o la Russia sovietica? Il complesso problema della riauratizzazione di una cosa, opera d'arte o semplice oggetto che provenga da un'esperienza di quel genere, dall'orinatoio di Duchamp in poi, ha caratterizzato i nostri tempi e, con particolare veemenza, coinvolge oggi operazioni che vanno dalle stimabili e importanti quanto delicate salvaguardia della memoria, risemantizzazione, riterritorializzazione fino alle più basse forme di riproduzione e mistificazione commerciale. Anche un'apparentemente innocua operazione di recupero mercantile o museale di oggetti, cibi, stili del passato socialista deve oggi essere presa in considerazione sul fronte del valore che l'investimento nostalgico di cui può essere investita acquisisce (si vedano le figure 1 e 2). Definiamo dunque con Svedana Boym le due macro modalità di concezione della nostalgia politico-sociale: La nostalgia restauratrice pone l'accento sul «nostos» e cerca di ricostruire la dimora perduta e colmare i vuoti di memoria. La nostalgia riflessiva è incentrata sull'«algia», sul desiderio e sulla perdita, sul processo imperfetto del ricordo. La prima categoria [...] caratterizza i revival nazionali e nazionalistici in tutto il mondo. [...] La nostalgia restauratrice si manifesta nella ricostruzione totale di monumenti del passato, mentre la nostalgia riflessiva si sofferma sui ruderi, sulla patina del tempo e della storia, sui sogni di un altro luogo e di un altro tempo. Ciò a cui dedicherò la mia attenzione, alla luce di queste considerazioni, sono semplici e quotidiane cose la cui rilevanza è consistita non tanto nello stile o nella forma che le ha caratterizzate, quanto nella dinamicità del rapporto diretto con i fruitori. Esse hanno rappresentato complici o compagni di strada, talvolta nemici giurati, del cittadino sovietico nei diversi periodi dell'esperimento socialista. Alla percezione e alla fruizione esercitate da parte del portatore e del costruttore di quella cultura si aggiungeranno qui lo sguardo e l'esperienza in prima persona dello straniero scrivente che, nel corso di alcuni decenni, ha frequentato, vissuto, subito e amato il Paese in questione fino ad arrogarsi il diritto di intervenire nel merito di quali oggetti possano essere ritenuti responsabili e indicatori della costruzione del discorso culturale, della storia della quotidianità, della gestione delle emozioni. [...] Quello che l'Unione Sovietica si sforzava di fare era «eliminare quella spaccatura tra Cose e persone che era caratteristica della società borghese», intervenendo sul processo di produzione (allora finalizzato all'esclusivo consumo individuale) che nel mondo del capitale non prevedeva alcun contatto fisico tra la borghesia e la produzione di beni materiali. Vecchio retaggio del mondo della proprietà terriera in cui, tra padroni e "anime" (così venivano definiti i contadini nella Russia della servitù della gleba), il contatto era inesistente e in cui il latifondista spesso ignorava l'entità stessa della sua tenuta, la natura di coloro che vi lavoravano e le specificità di ciò che veniva coltivato, raccolto, prodotto. Il giardino dei ciliegi di Cechov (1904) bene ritrae questa realtà: l'oggetto-giardino per la famiglia dei proprietari esiste esclusivamente nella declinazione estetico-emotiva. La padrona, seppur indebitata fino al collo, trova "volgare" che si pensi di venderlo e lottizzare il terreno per costruirvi villette. Solo il vecchio cameriere di casa cita le ciliegie in chiave di produzione e reddito, ma come retaggio di un passato perduto e scordato: «Allora si conoscevano i trattamenti». «E adesso che fine hanno fatto i trattamenti?». «Dimenticati. Nessuno se li ricorda». Il ruolo dell'artista costruttivista nella produzione non avrebbe dovuto essere quello di un designer di oggetti di uso comune ma piuttosto quello di ingegnere della produzione stessa. Per il lavoratore della produzione, il processo di produzione stesso diventa lo scopo della sua attività. Principi che trovano applicazione anche nei molti manifesti che, tra propaganda politica e pubblicità commerciale, venivano realizzati anche con il contributo di artisti impegnati quali Majakovskij e Rodcenko per il Mossel'prom, l'agenzia commerciale sovietica nata per controbattere il dilagante commercio privato sorto grazie alle concessioni della Nuova Politica Economica (NEP). Uno fra i tanti, in cui architettura, produzione, beni di consumo e stile-grafica-linea dialogano con particolare efficacia.
Sullo skyline delle fabbriche in piena attività, come
testimonia il fumo che esce dalle ciminiere, si staglia l'edificio
costruttivista sede del Mossel'prom. In primo piano, in ordine
volutamente sparso e caotico, le cose prodotte dallo Stato
sovietico, in immagini e parole: scatole, flaconi, pacchetti.
Cacao, caffè, cioccolata, lamette, sigarette ecc. E l'immancabile
slogan, ideato da Majakovskij,
Nigde krome, kak v Mossel'prome!
(Da Mossel'prom o niente!).
Compagni e stacanovisti Come lo stesso Rodcenko scriveva da Parigi nel 1925, inviato a seguire la costruzione del padiglione sovietico per l'esposizione universale del 1927, incuriosito e al tempo stesso indignato dallo spettacolo del consumismo nelle vetrine e nei negozi della capitale francese, cose e donne rimandavano a una stessa idea di pornografia. Entrambe risplendenti per una confezione bella e sessualmente attraente, sfacciatamente offerte al pubblico. La sua proposta per il nascente mondo degli oggetti sovietici era che questi diventassero tovarišči (compagni) dell'uomo e non quei «neri e tetri schiavi» che erano a Parigi. La funzionalità doveva essere tra le prime esigenze, assieme alla concretezza, lontana dall'apparenza modaiola occidentale, una vera incarnazione (reificazione) dell'essenza dell'oggetto. Questi, gli oggetti, dovevano diventare protagonisti del nuovo progetto di mondo, rivelando l'essenza nascosta delle cose, eliminando e purificando quanto nei secoli era stato accumulato sulla loro superficie per svelarne l'autentica natura non contaminata dal design. Design inteso, ovviamente, nella sua concezione consumistico-capitalistica. L'innovativa posizione del costruttivismo russo, invece, concepiva il design esclusivamente come produzione di oggetti utilitari che eliminava qualsivoglia traccia di arte fine a sé stessa, purificava la società da qualunque forma meramente ornamentale e, in sintonia totale con i principi della Rivoluzione d'ottobre, sopprimeva tutte le convenzioni sociali, le tradizionali ritualità e forme di rappresentazione, per portare alla luce la dimensione dell'anima collettiva politicamente organizzata al fine di dimostrare i suoi contenuti etici. [...] Nikita Chruščëv avrebbe denunciato questa «laccatura della realtà» assieme a crimini ben più seri e terribili del suo predecessore. Con lui produzione e stile avrebbero ancora una volta cambiato direzione. Anche orpelli e oggetti kitsch ricaddero in disgrazia, come retaggio dell'era staliniana e del cattivo gusto che aveva prodotto. Dopo il ben noto discorso in cucina con Nixon, il segretario del partito comunista sovietico puntava al superamento della tecnologia e della produttività statunitense. «Sopravvissuti a Stalin e alla guerra, i cittadini sovietici, si realizzò, avevano bisogno di giocattoli». Gli aspirapolvere, le lucidatrici per pavimenti, assieme a inusitati elettrodomestici, "giocattoli" sui generis ma estremamente azzeccati, fecero la loro apparizione sui cartelloni pubblicitari e nelle case dei cittadini (si vedano le figure 8, 9 e 10). Ancora una volta non di tutti, ma il trend stava considerevolmente cambiando. Sono soprattutto di questi anni gli oggetti che oggi tornano in mostra e vengono ritenuti responsabili del più nobile concetto di design sovietico. Investimenti nella ricerca di uno stile che fosse identitario e ben riconoscibile senza scadere nella pacchianeria del cosiddetto chic staliniano (stalinskij šik). Non ultimo lo sputnik, il satellite spaziale che nel 1957 compì trionfalmente il suo volo in orbita celeste. Anche a esso dedicherò un capitolo nella mia biografia di cose sovietiche, ma con uno spirito che vorrei diverso da quello dei cataloghi e dei musei. Il mio intento è di verificarne la presenza nella vita di ogni giorno, i riscontri ideali, visuali e spiccioli, più che quelli tecnico-scientifici trionfalistici. Nei primi anni Sessanta il dibattito che aveva infiammato i primigeni bolscevichi tornò d'attualità: nuove possibilità di coniugazione tra arte e byt alla luce delle riforme e delle innovative posizioni di apertura. L'introduzione a un volume che raccoglieva saggi dedicati alle varie problematiche abitative, dall'arredamento alle decorazioni, dichiarava esplicitamente: far sì che, arrivando a casa, le persone trovino, in tutto ciò che le circonda, intimità, eleganza, luce, ordine. Che i loro occhi possano appoggiarsi sulle linee semplici ed eleganti della mobilia, sui motivi decorativi dei tessuti, insomma, che le persone al lavoro come a casa ricevano impressioni estetiche positive. La mia convinzione è che, al giorno d'oggi, la strada lungo la quale si deve orientare l'industria artistica sia la tensione verso la bellezza e la produzione di massa. I principi enunciati nel volume, per quanto convincentemente ispirati a un'affermazione di ciò che veniva definito «carattere nazionale sovietico» nello stile e nella quotidianità, si sarebbero rivelati utopistici e, ancora una volta, la pesantezza della quotidianità avrebbe dominato sulle intenzioni. Dopo la defenestrazione di Chruščëv, con la salita al potere di Leonid Brežnev, iniziò la fase detta della stagnazione: un apparente, più che reale, immobilismo nella vita politica, sociale e culturale, che corrispondeva più a un tacito accordo tra cittadini e potere di reciproca non aggressione che a un'effettiva stasi esistenziale. Si assistette alla nascita di una forma di a-sovietismo più che anti-sovietismo, da parte della grande massa, e si verificarono i primi movimenti di contestazione, ridotti e prudenti, che sarebbero poi sfociati nel più visibile e considerevole dissenso. [...] Assieme a oggetti di vero e proprio culto, l'Italia fu responsabile del famigerato impermeabile Bolon'ja (Bologna), dal nome della città in cui avrebbe avuto origine, must assoluto nel guardaroba di chi era à la page, e rigorosamente deficitario nei negozi, figurarono a pari merito i fascicoli dei Maestri del colore, per l' intelligencija, e i cataloghi di vendita per posta, Vestro e Postal Market di buona memoria, vere e proprie enciclopedie illustrate della cultura materiale italiana, con tanto di indicazione dei prezzi che permetteva calcoli e comparazioni. | << | < | > | >> |Pagina 32La vita privata delle cose sovieticheChe tipo di operazione intendo compiere con queste pagine? Raccontare la "vita privata" di alcune cose sovietiche. Cose, non oggetti. Come già si è visto, quelle che hanno stabilito un rapporto relazionale con il soggetto, che sono state oggetto di investimento anche emotivo, oltre che funzionale o tecnologico. Ma non soltanto, per non scadere nel sentimentale o nel nostalgico. Mia intenzione è identificare quegli oggetti che, sulla base della mia esperienza di vita sovietica, possano essere caricati di «poteri, associazioni, significazioni che le rendano, di conseguenza, non soltanto cose docili, ma segni, esibizioni, epifanie». Studiate in relazione al momento in cui sono comparse nella società, al tempo che vi sono rimaste, all'eventuale svolta culturale di cui sono state responsabili. Quelle cose, per citare ancora Steven Connor, che nell'Europa del XV e XVI secolo sarebbero state chiamate "emblemi", allegorie di vita umana. Pur restando, in massima parte, oggetti minimi e minuscoli, miseri talvolta, non fonte di passione né di smania di possesso, che non avevano neppur suscitato pulsioni di attaccamento personale. Niente: «Roba mia, vientene con me!», per intenderci. Guardiamo attraverso gli oggetti per vedere quanto essi rivelino della storia, della società, della natura o della cultura, ma, prima di ogni altra cosa, quanto essi rivelino di noi. Delle cose, invece, riusciamo a intravedere soltanto una lieve traccia. La storia degli oggetti che si connotano come cose, poi, è la storia di una relazione con il soggetto umano che ha subito cambiamenti, e si evince pertanto la storia che la cosa definisce un oggetto meno di quanto possa fare una particolare relazione soggetto-oggetto. Questioni che chiedono non se le cose esistano ma quale lavoro compiano, questioni, in realtà, non relative alle cose stesse ma al rapporto soggetto-oggetto in un contesto spazio-temporale definito. | << | < | > | >> |Pagina 61SamovarEsordiamo con una doverosa precisazione. Il samovar non è una teiera. Il tè non lo tocca neppure di striscio. Serve esclusivamente a portare a ebollizione, e mantenere ad alta temperatura, l'acqua che si userà per preparare la bevanda. Convenzionalmente i fratelli Lisicyn, Ivan e Nazar, sono considerati i primi manifattori di samovar realizzati nella fabbrica di lavorazione di metalli (armeria) del padre a Tula. Correva l'anno 1778 quando registrarono ufficialmente il loro stabilimento come manifattura di samovar e da quel giorno la città ne divenne la patria per antonomasia. Il bollitore è costituito da una base su cui poggia un corpo solitamente panciuto che può però assumere fattezze e dimensioni diverse e culmina in un camino da cui esce il vapore. Il camino, nei modelli più antichi, poteva essere staccato e sostituito da un coperchio. Sulla parte bassa del corpo si trova un rubinetto da cui si estrae l'acqua bollente (si veda la figura 1). All'interno era sistemato un tubo in cui si infilava carbonella o pigne secche a cui si dava fuoco, secondo la tradizione, con corteccia di betulla ardente. In tempi più recenti anche con carta di giornale. Il calore sviluppato dalla combustione portava l'acqua a ebollizione. Da qui l'etimologia del nome samovar: sam e varit', che bolle da solo. In tempi moderni il tubo interno sarebbe stato sostituito da una resistenza elettrica. Secondo l'uso russo, con l'acqua del samovar si prepara nella teiera una miscela molto forte di tè (zavarka), se ne versa una certa quantità nella tazza (o nel bicchiere) e la si allunga spillando ulteriore acqua calda, poca o molta a seconda dei gusti. Per mantenere calda la teiera che contiene l'infusione concentrata la si può collocare sulla corona del samovar, in modo che il vapore che fuoriesce dagli appositi fori la mantenga ad alta temperatura. Vam po krepče ili po slabee? (Le piace forte o leggero?) è la classica domanda che si pone all'ospite a cui si offre il tè. Visto che i russi sono tradizionalmente grandi bevitore di tè (bol'šie č'ajovniki), il samovar era tenuto costantemente in caldo in modo da garantire una riserva costante di acqua bollente. E il nostro bollitore, proprio per questa ragione, assunse nei secoli una prima connotazione defunzionalizzante: sì serbatoio di materia prima per la preparazione della bevanda calda più amata dai russi (seconda, temperatura a parte, soltanto alla vodka), ma anche, e soprattutto, orologio-metronomo-calendario molto sui generis. La scansione del tempo, dei ritmi di vita, della situazione atmosferica di una casa, di un territorio, di una famiglia era segnata dal rito legato all'accensione, al mantenimento in calore, allo spegnimento lento e progressivo proprio del samovar. Quante pagine di letteratura lo segnalano e lo confermano! Tra le tante, le lamentazioni della balia nello Zio Vanja čechoviano, indignata per lo scompiglio portato nella tenuta dall'arrivo del professore, di cui il samovar è al tempo stesso prima vittima e testimone: Che sistemi! Il professore si alza a mezzogiorno, e intanto il samovar è tutta mattina che bolle, aspettando lui. Senza di loro si pranzava sempre all'una, come fanno tutti, con loro qui, alle sette. Di notte il professore legge e scrive, e all'improvviso fra l'una e le due il campanello... Che succede, Dio mio? Il tè! E allora sveglia la gente per lui, accendi il samovar... Che sistemi! | << | < | > | >> |Pagina 105SputnikIndiscutibilmente elegante. Per una volta tecnologia, scienza e design in Unione Sovietica andarono di pari passo. Forse proprio grazie alla semplicità un po' primitiva del prodotto: una sfera d'alluminio del peso di 83 kg per 58 cm di diametro, con quattro antenne lunghe circa 2,5 m ciascuna che conferivano agilità e slancio all'insieme (si veda la figura 1). L'idea di sfruttare missili militari per lanciare satelliti nello spazio era sorta dopo la guerra, quando residuati bellici tedeschi erano stati studiati a quel fine. La realizzazione avrebbe stupito, conquistato o allarmato l'universo intero nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1957, in piena era chruščëviana, all'apice della guerra fredda, nell'anno successivo ai disordini d'Ungheria e alle reazioni non troppo amichevoli di buona parte del mondo nei confronti dell'URSS. Il satellite artificiale sputnik (compagno di viaggio) compì 1400 orbite, per un totale di 70.000.000 km e rientrò nell'atmosfera dopo ventun giorni, infiammandosi e scomparendo per sempre. Ma il bip bip lanciato dalla sua radio sarebbe stato raccolto da radioamatori e istituti scientifici del mondo intero, testimonianza attendibile ed emozione tangibile, ampiamente sostenute dagli organi di stampa sovietici che fecero abbondantemente circolare le indicazioni tecniche per non mancare la sintonia con gli inauditi segnali provenienti dallo spazio. Gli americani sarebbero arrivati a emularli soltanto il 31 gennaio del 1958 con l'Explorer, permettendo che lo slogan Pervye v kosmose (Primi nello spazio) restasse ad appannaggio indiscusso dell'Unione Sovietica. L'esistenza dello sputnik avrebbe continuato a lungo a colmare di sé non soltanto l'orgoglio dei cittadini, degli scienziati e dei politici sovietici, ma anche la loro vita quotidiana, sotto forme citazionali che dall'evento eroico, e dall'oggetto primario, prendevano le mosse per tradurli in un'infinità di altre realtà che la performatività moltiplicava e faceva funzionare portando lo sputnik originario molto più vicino all'esperienza e alla pratica di vita di ciascun homo sovieticus. Francobolli, souvenir, portacenere, calendari, portachiavi, distintivi, giocattoli, ristoranti, cinema, stadi, squadre sportive, abiti, cibi riprodussero, rappresentarono, richiamarono il satellite artificiale e il suo fortunato nome, riproponendolo fino all'inverosimile (si veda la figura 2). Un manifesto pubblicitario del 1959, «I migliori sputniki (compagni di viaggio) del tè», avrebbe messo in orbita una tazza da tè circondata da rotanti e dinamici barattoli di marmellata di prugne, una confezione di plum cake stoličnyj (della capitale) e un pacchetto di biscotti. Ennesimo esempio di come pubblicità commerciale e propaganda ideologica procedessero di pari passo. Vasilij Aksenov, nel 1961, avrebbe citato questo cartellone pubblicitario nel suo romanzo Il biglietto stellato come segno distintivo dell'epoca (si veda la figura 3). Una lunga serie di satelliti sovietici avrebbe continuato a chiamarsi Sputnik, fino all'avvento della generazione Kosmos. | << | < | > | >> |Pagina 131VodkaTautologico e scontato. Ma inevitabile. Russi, grandi bevitori, Russi, popolo di alcolizzati. Russi, ubriachi 24/7. Luoghi comuni si sprecano. Ogni indagine relativa a questo ambito della cultura russa esordisce con la frase pronunciata dal principe Vladimir quando, nel 989, dovendo convertire il suo popolo a una religione monoteistica, optò per il cristianesimo preferendolo al sobrio e proibizionista islamismo, Rusi est' vesel'e piti (La Rus' è la gioia del bere). Da allora il distillato di 40° resta l'immancabile compagnia per ogni evento, incontro, celebrazione o anche, senza necessità di ricorrenze particolari, per bagnare la più assoluta quotidianità. Etimologicamente vodka è un diminutivo di voda (acqua), quindi acqua nella variante diminutiva, affettiva e confidenziale. Non è questa la sede per scrivere una storia della vodka, né per valutare il grado alcolico che segna le giornate del popolo russo. Ci soffermeremo sull'oggetto vodka, bottiglia, caraffa o bicchiere che sia. Un primo particolare significativo: la bottiglia di vodka russkaja (russa) che circolava negli anni sovietici tra i consumatori abituali non aveva tappo a vite o richiudibile. Fungeva da chiusura una lamella di metallo, simile alla stagnola che una volta chiudeva le italiche bottiglie del latte, che veniva strappata e gettata al momento dell'apertura e che non presupponeva la possibilità (né la volontà) di richiudere la bottiglia una volta iniziati i brindisi. Aveva anche un nome gergale, che ne indicava la familiarità e la confidenza dell'uso: beskozyrka (si veda la figura 1). Di suo, il classico berretto dei marinai privo di visiera. In senso metaforico e allargato, la linguetta di metallo che segnalava l'uso proprio che della vodka si sarebbe dovuto fare: berla senza lasciarne una goccia e, soprattutto (regola d'oro del galateo conviviale sovietico) mai riporre la bottiglia dopo averne versato una dose. Roba da occidentali, che mescono un bicchierino e rimettono la bottiglia nella dispensa. Impensabile e grossolano a una tavola russa. Stalin, a differenza del suo successore di parecchi decenni più tardi Gorbačëv, si rese popolare anche rispetto agli interventi relativi a questa bevanda. Liberalizzò il commercio di vodka permettendolo anche ai privati cittadini per «lo sviluppo della nostra economia sulla base delle proprie forze». La prima vodka a 40°, formalizzata nel 1925, fu immessa sul mercato a prezzi estremamente contenuti, favorendo anche la riduzione della distillazione abusiva del cosiddetto samogon (vodka distillata in casa, di solito di gradazione molto superiore alla media). Nel 1936 sempre Stalin avrebbe fatto ripartire la produzione di champagne, ritenendo che la sua nuova élite non potesse bere proletariamente vodka ma dovesse distinguersi preferendole liquori di più alta levatura sociale, come testimoniano le pubblicità dell'epoca (si veda la figura 2). Ma proprio nello staliniano 1938, in onore del progetto di ricostruzione della città di Mosca, e del primo hotel di lusso edificato a pochi metri dalla piazza Rossa, fu registrata la prestigiosa ed elitaria marca Stoličnaja (della capitale), che riproduceva sull'etichetta la stilizzazione dell'albergo Moskva. | << | < | |