Copertina
Autore Bruno Pischedda
Titolo Com'è grande la città
SottotitoloUn teppista non piange: provoca
EdizioneMarco Tropea, Milano, 1996, Le Gaggie , Isbn 978-88-438-0029-2
LettoreRenato di Stefano, 1999
Classe narrativa italiana , politica , storia contemporanea d'Italia
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

«... scruyff!»

«Prego?»

La reazione, d'obbligo per chi è colto di sorpresa, intendeva prendere tempo con educazione. Anche distacco. Ma il soprannome era proprio mio.

«Piscruyff!» nuovamente, in tono divertito.

Non mi sentivo più chiamare così dalla fine degli anni Sessanta: da quando Johann Cruyff e il suo Ajax furoreggiavano sui campi europei e mia sorella sposava un olandese capellone, con una cerimonia che aveva provocato in paese un certo rumore.

A ripropormelo ora insistentemente, tra le scanalature alte del supermercato di Santa Maria, a Garbagnate, era Sandro. Doveva avermi accostato con il carrello un paio di volte, senza che lo riconoscessi; o più facilmente, sovrappensiero, vi badassi.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 19

Immagino siano davvero molti, a partire dall'insediamento del governo Berlusconi (o anche dai mesi precedenti, da quando è scoppiata Tangentopoli), ad aver deciso di tenere un diario. La voglia di farsi testimone diretto, il bisogno di riflettere in un tempo non occasionale e istantaneo, ma scritto, meditato, ha in sé qualcosa di partecipe e insieme di frustrato: è una testimonianza che si sviluppa nel perimetro ristretto di una scrivania, assumendo le forme di un discorso intimo, mentre fuori grandeggia la sfiducia. Non di meno, il senso dei cambiamenti impetuosi (intuiti, temuti) tiene sveglia la mente, acuisce lo sguardo: fà nascere contrasti significativi, attraverso cui costruire individualmente, con palese sforzo di volontà, un barlume di senso. Una prospettiva politica che è anche un orizzonte esistenziale, giacché dai limiti posti dalla politica deriveranno in qualche misura i limiti della vita. Ma di questo ci si accorge sempre tardi e, paradossalmente, quando della politica si è ormai delusi.

(Quando la politica cessa di essere universo assoluto di senso, e potrebbe divenire utile pragma, sano accostarsi da cittadino agli ordinamenti collettivi, smette di essere praticata attivamente.)

Il dato più interessante, però, è proprio il probabile, contemporaneo inizio di migliaia di diari. Qualcosa meno di uno Zeitgeist, e tuttavia un colore del tempo, una particolare sfumatura che potrebbe valere un attacco romanzesco.

Bisogna sapere, nella civiltà di massa, che si è sempre parte di una curvatura statistica: di un trend, o di un controtrend. Bisogna saperlo e accettarlo, con serenità. E in questa condizione, continuare poi ad agire e a pensare in quanto individui. Capovolgere l'ordine dei fattori è non solo ingenuo, ma terribilmente omologante: pensare di essere unici all'interno di una massa plebea, o è infantile, o è di alimento a ideologie autoritarie (nella migliore delle ipotesi, aristocratico-frustrate, snobistico-puerili).

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 28

Se il discorso di Goffredo non mi convince - di Goffredo che pure ha visto l'orrore di quegli anni: i bambini a Napoli, con le pance gonfie e tese che scoppiavano, letteralmente, dalla fame - è perché non mi ha mai conquistato il motto populista del «Poveri ma belli». Quando si è poveri, molto poveri, solitamente (in quanto dato statistico) si è anche brutti, e stupidi.

Lo splendore del passato, nella memoria, è comprensibile. E può diventare, come per Goffredo, un mito biografico di altissima dignità: un mito fondativo, delle origini, carico di tutte le emozioni della giovinezza. E come tutti i miti (come quello sovietico, come quello americano, come quello neoetnico attuale), apportatore di senso. Ma se assolutizzato, senza ironia né distacco (lucido, ragionativo, non istintuale), è un mito regressivo. Bisognerebbe vedere cosa ne dicevano i soggetti che materialmente lo vivevano, quel mito; che elementi di soddisfazione etica e fisiologica ne traevano. Leggendo la pubblicistica del periodo (il dopoguerra), sorge invece il senso di una protesta, di una diversità europea vissuta come frustrazione. E dalle più diverse angolazioni ideologiche: Piovene, don Mazzolari, Malaparte, Ortese, Sciascia; il desiderio di modernità industriale, la coscienza di una religiosità contadina corrotta in senso politico-mafioso, la denuncia delle insufficienze civili e statali, gli occhiali per vedere e la nausea del degrado umano, l'immagine di un orologio che non batte mai la contemporaneità della storia (Viaggio in Italia, 1953-56; Viaggio in Sicilia, 1952; Battibecchi, 1953-56; Il mare non bagna Napoli, 1953; Le parrocchie di Regalpetra, 1956).

(L'antico, a cui tanto assegnamo valore e che guardiamo così frequentemente con rimpianto, quando impaluda, decade da sé; senza nemmeno bisogno dell'intervento del moderno.)

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 50

C'è una nota di Gramsci (Quaderni, II, 1376), che mi sembra particolannente feconda di riflessioni. «Si è sempre uomini-massa o uomini collettivi» scrive. «La quistione è questa: di che tipo storico è il conformismo, l'uomo-massa di cui si fà parte? Quando la concezione del mondo non è critica e coerente, ma occasionale e disgregata, si appartiene simultaneamente a una molteplicità di uomini-massa, la propria personalità è composita in modo bizzarro.»

L'idea di un individuo massificato, latore di una molteplicità di influenze irriflesse, aventi per risultato una personalità bizzarra, mi pare notevole: diametralmente opposta alla definizione marcusiana di uomo-massa in quanto uomo unidimensionale (su questo punto la tradizione primo-novecentesca dei liberali conservatori, da Ortega y Gasset a Huizínga a Benda, confluisce direttamente nel sociologismo speculativo di marca francofortese).

Certo per Gramsci, e per tutta la sinistra gramsciana che lo leggerà negli anni Cinquanta, massa e uomo-massa sono termini (concetti) che possono raggiungere accezione positiva in quanto riferibili a un universo connotato in senso classista. «Per la propria concezione del mondo» è scritto poco prima «si appartiene sempre a un determinato aggruppamento, e precisamente a quello di tutti gli elementi sociali che condividono uno stesso modo di pensare e di operare [ho evidenziato "elementi sociali" perché altrimenti la frase rischia il tautologismo].» E invece è proprio il superamento delle distinzioni culturali di classe, l'omologazione delle subculture, che comporta l'avvento di una civiltà di massa. Suo ruolo storico è non tanto l'elevamento della qualità di vita culturale delle moltitudini, quanto l'allargamento - in precedenza inconcepibile - delle possibilità di partecipare da parte di tutti a un medesimo ethos (in senso antropologico), ma recuperando al proprio interno le culture marginali preesistenti, ancora escluse da un riconoscimento propriamente istituzionale: cultura contadina, proletaria, sottoproletaria, particolarismi regionali, atavismi folklorici.

Tuttavia il grado più basso di partecipazione al sistema culturale di massa (in quanto ad autocoscienza individuale, come cognizione esatta della propria posizione sociale, dei propri bisogni e aspirazioni), mi pare sia ancora segnato, come vedeva Gramsci, dalla compresenza di elementi ideologici occasionali e molteplici, bizzarramente consentanei. E' a questo livello che la civiltà di massa corre i suoi rischi maggiori. Qui si costituisce, se non la personalità autoritaria, certo la massa anonima più facilmente manipolabile: attraverso adeguate retoriche persuasive, anzitutto, e poggiando su mezzi di comunicazione atti allo scopo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 56

Da Franco, discutendo ad alto livello di televisione, sul terrazzino, dopo un paio di giri di whisky.

«Un punto» dicevo «mi sembra solitamente occultato: è il cinema, la decima musa da salvare, su cui si versano lacrime e nostalgia, la fonte principale di violenza gratuita. Non la televisione. I crani sfracellati, gli ammazzamenti efferati, gli stupri, l'esasperazione sessuale che assorbiamo dalla televisione è nel cinema di cassetta che hanno origine. Ma tutti fanno finta di dimenticarsene.»

E lui, offrendomi del ghiaccio: «E' una metonimia, si scambia il contenente per il contenuto. Anzi, si scambia il contenente per un altro contenente: mi pare lo segnalasse già McLuhan».

«Eh! Poi arrivano i francesi, Virilio, Baudrillard, e fanno un bel pastone farcito di concetti eleganti e assolutamente inutili: "dromoscopia", per esempio, la visione accelerata, se ne sentiva proprio la mancanza. Proprio ha dato una svolta alla conoscenza del fenomeno. In queste cose, soprattutto i francesi mi stanno sul cazzo. La violenza specifica e scioccante della Tv riguarda il suo ruolo informativo: telegiornali, dossier dalla Bosnia, dal Ruanda. E' poi questa la violenza che ci tocca maggiormente. E di cui non credo sarebbe giusto fare a meno.»

«Eh, il medium è il messaggio.»

«Quella era una stronzata. Avevi detto meglio prima: si scambia un contenente per un altro contenente. Ma i francesi, i Virilio, i Baudrillard... »

«... ti stanno sul cazzo.»

«Eh.»

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 91

Ottobre


Mercoledì 5

A Cheiry e a Salvan, nella Svizzera romanda, 48 persone, contemporaneamente, si sono tolte la vita. Un sacchetto in testa e un colpo alla nuca da parte di qualche sovrastante, che poi ha dato fuoco agli edifici. Appartenevano a una setta esoterica, l'Ordine del Tempio del Sole, e del tutto ignota è, al momento, la motivazione del gesto. Luc Jouret ne era il leader carismatico.

Ma imperversa anche un millenarismo apocalittico che impropriamente si vuole di sinistra. Un bimillenarismo laico, destinato a dilagare sempre più nel prossimo quinquennio, e non solo per ragioni cronologiche. Qualche settimana fa, presentando un libro sull'AIDS, Fofi diceva: «Nel Mille tutti temevano la fine del mondo, ci credevano sul serio, e invece non era vero. Oggi, alle soglie del secondo millennio, preferiremmo non crederci, e invece arriva».

Voglio pensare che parli per metafora. Che l'apocalissi riguardi una somma di mondi, tradizionali e primo-industiali, che in modo sempre più accelerato vengono superati, distrutti, disgregati dall'irruzione di un «nuovo» sempre meno appetibile. Di Ethos, Oikos, Ethnos, persino Chronos che scompaiono. E' la fatica della modernità: il lutto che prevale sulle possibilità di adattamento, e che disegna un orizzonte crepuscolare, denso di inquietudini, apocalittico per i più estremisti.

Hanno un bel da fare gli esponenti cattolici, in TV, a stigmatizzare la malafede dei settatori, di tradizione esoterica o religiosa che siano. Agli albori del cristianesimo, non dovevano presentarsi molto diversamente gli ebioniti, gli esseni, con il loro desiderio di scissione da un mondo ebraico ormai in via di secolarizzazione; di condivisione integrale dei beni e dei destini individuali, in attesa spasmodica di un Salvatore. Tali almeno, settatori fanatici, apparivano i primi cristiani ad Adriano imperatore, a Luciano di Samosata.

(Nel momento di massima integrazione dei mondi - il villaggio globale -, anche questo è un segnale di controtendenza, come il neoetnicismo, l'ambientalismo fondamentalista, il satanismo e la parapsicologia televisiva. E si fa presto a dire che la vita si va virtualizzando, derealizzando sulla base dei nuovi orizzonti mediali: ciò che più mette in crisi è proprio la presenza dei corpi, la massiccia circolazione delle genti.)

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 122

Domenica 20

Alla presentazione del libro di Bruno Arpaia, Il futuro in punta di piedi, definito da qualche critico «il primo romanzo resistenziale della seconda repubblica», viene a un certo punto riportata una frase di un narratore messicano, Paco Ignacio Taibo II, presente tra il pubblico: «non mi piace il progresso, mi piace il futuro».

Che dire di una frase così?

Si comprende la polemica con un modernismo tutto tecnologico e disumanizzante, foriero di disuguaglianza abissali, di devastazioni geografiche e civili. A esso si contrappone la speranza, l'utopia: il futuro. Eppure fuori da un'idea di progresso ci sono solo il regresso e la stasi (impossibile, da un punto di vista storico). Come può definirsi, ed essere desiderato, il futuro, senza che venga chiamata in causa almeno una di queste tre determinazioni? (Che il progresso, darwinianamente, sia diventato l'etichetta in cui si riconoscono solo i potenti della terra, mi sembra la sconfitta più grande di questo secolo che muore. E' il punto dove s'infrange ogni tentativo neo illuminista. Sciascia, per esempio, tanto invocato in sala.)

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 125

C'è una svolta (un mutamento di atteggiamenti), negli intellettuali di punta del dopoguerra, da collocare tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta. E' quando emerge la Metafisica del Potere. Quando un sistema sociale, già classista e ideologicamente orientato, viene ad assumere il senso di una violenza sovrastorica, di una totalità negativa e immodificabile, che tutti quanti ci travolge. Documenti potrebbero esserne un testo teatrale come Calderón, di Pasolini (1973); il romanzo La storia, di Elsa Morante (1974), il giallo Il contesto, di Sciascia (1971). Siamo negli anni della crisi finale del centrosinistra, dell'invasione della Cecoslovacchia, della contestazione extraparlamentare: quando in modo generalizzato si viene dispiegando in Italia una società di massa a carattere multimediale. Siamo alle soglie del compromesso storico.

Le tesi francofortesi-marcusiane della grande omologazione e dell'uomo unidimensionale si fanno luogo comune per letterati un tempo progressisti, marxisti, neoilluministi. Pasolini in particolare le riprende, attualizzandole in una dimensione italiana: rimpianto per il regionalismo, i dialetti, le culture premoderne (contadina, sottoproletaria urbana). Ciò che l'etnologo Emesto de Martino aveva descritto come resti atavici a carattere eversivo e antiborghese nel decennio 1945-1955, diviene ora oggetto di idoleggìamento nostalgico, regressivo (e Fofi, da questo punto di vista, è un nipotino). Ma sia Pasolini che Sciascia hanno caricaturato, distorto ai limiti del grottesco, la protesta giovanile e operaia degli anni Sessanta. In larga misura, essa tendeva a creare una subcultura nuova, estranea al circuito radiotelevisivo ufficiale: una cultura che si voleva underground, o controinformativa. Certo, particolarmente in Italia, ciò comportava una sorta di renovatio ideologica: di riscoperta, dogmatica e libresca, dei principi sacri del marxismo-leninismo. Oggi se ne può valutare tutto lo schematismo infantile. Ma senza dimenticare che è tipico dei momenti di più radicale innovazione modernistica fare perno su apparati ideologici e culturali di rinascita, di ritorno, di ripresa di contatto con un passato scintillante e incorrotto. Come se il salto in avanti necessitasse di una rincorsa, di un tuffo corroborante nel già noto. E sarà anche un residuo della mentalità mitica, ma intanto mi pare che il modello funzionì così.

(Nel momento in cui demolivano definitivamente l' ancien regime, producendo una frattura incolmabile nella storia europea, i rivoluzionari francesi del Settecento pensavano ai latini, ai greci: agli istituti repubblicani dell'antichità.)

Questo sarebbe interessante indagare: come mai un aspetto di modernità di massa tanto dirompente (sul piano del costume, dei comportamenti, dei valorì, dei consumi), come fu il Sessantotto e i suoi immediati dintorni, abbia condotto con sé una rivisitazione tanto dogmatica delle dottrine politiche. Ma non sarà mai da intellettuali pentiti, di destra o di sinistra, neomessianici o debolisti, che potranno arrivare contributi.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 138

C'è però un aspetto di fondo del discorso di Belardelli che non può essere eluso. Là dove, con una certa brutalità, scrive: «E' evidente che la supponenza con cui la sinistra guarda alla maggioranza degli italiani che di sinistra non sono ha origine anzitutto nella sua matrice comunista (e marxista), che la rende incapace di abbassarsi al livello della gente comune (il vero protagonista dei regimi democratico-liberali), e anche di interrogarsi sulle vere aspirazioni delle "masse" una volta che queste, in conseguenza dell'evoluzione della società, non possono più assumere le sembianze della classe operaia».

Ora, che l'elitismo antimoderno, o «atavismo», come creativamente lo chiama l'estensore dell'articolo, abbia principalmente una caratterizzazione siffatta, mi sembra davvero difficile da sostenere. Prova ne sia che la testimonianza più lucida dì un tale orientamento di pensiero Belardelli la trova in Norberto Bobbio («la società creata dalla televisione è una società naturaliter di destra»), esponente di una cultura cui non può essere imputata né una «matrice» marxista, né tantomeno comunista. Il punto, se mai (e Belardelli lo tocca solo di sfuggita), è quello di un ceto intellettuale che nelle sue varie cololiture ideologiche converge fin dalla fine del secolo scorso su atteggiamenti elitari e antimoderni. Persino i più innovativi di loro indulgono a deprecazioni antimediatiche e antitecnologiche: il Pirandello dei Quaderni di Serafino Gubbio, per esempio, o ancora prima, del Fu Mattia Pascal.

Con atteggiamenti moralistici e tardo-romantici di tale natura, la sinistra novecentesca strinse patti duraturi nel nostro Paese, additando però come alternativa una modernità diversa, libera dal profitto e scevra di alienazione spersonalizzante: la modernità dell'Urss, o meglio il mito di questa modernità. Ma incrinatosi definitivamente questo orizzonte alla fine degli anni Sessanta, e poi crollato a tutti gli effetti nell'89, la modernità è rimasta una, onnicomprensiva, e brutta. Così che, dimentichi delle profezie ipermoderniste contenute nei testi marxisti delle origini (Il manifesto del partito comunista su tutti), agli intellettuali che si vogliono di sinistra è rimasto il lamento, se non addirittura l'apocalisse.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 163

Febbraio


Del mio viaggio in Jugoslavia, la parte che ricordo con più piacere, adesso, però, che tutto si mostra alonato di passato e di linguaggio, di civiltà trascorse e martoriate dalla guerra, è il viaggio stesso. Ma viaggiare non fa per me. Io sto bene a casa mia, con le mie cose intorno, un bagno e un ftigo sempre a portata di mano, un letto noto e una posizione nel mondo ben chiara al primo sbattere di ciglia. Mi piace la compagnia, anche numerosa, la mescolanza dei sessi e delle età, delle culture, ma sempre nella prospettiva di una confortevole solitudine, sempre, in qualsiasi momento mi decida di staccare la spina. Non tollero il nomadismo e i cieli sempre diversi sotto cui non muta il nostro animo, come scriveva Orazio; i paesaggi colti come margherite da regalare in diapositiva allo sfortunato ospite di turno, i filmini muti e sonori, con jeep per sentieri impervi a lambire campi minati, le bussole satellitari, le code alle frontiere, il doganiere che ti fruga nei bagagli. Non ho mai vagheggiato deserti o città morte, le illuminazioni esotiche, il senso del corpo finalmente liberato, l'improvvisazione, l'adattamento coatto.

Ma in quel tempo, a diciassette anni e con la moto nuova, bisognava viaggiare. Era una prova irrinunciabile: un'iniziazione. Così, messi tranquilli i miei (si fa per dire), stabilii degli accordi abbastanza precisi con Pietro, che era già partito con la sua Guzzi all'inizio dell'estate. Per tre giorni, tra il 2 e il 4 agosto, doveva aspettanni all'Hotel Sport, di Zagabria.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 179

Settimane or sono, in Università, avevo sottobraccio un testo di Julius Evola: Il sentiero del cinabro. Spinazzola lo intravede, e mi richiama, ironico: «Che fai, ti metti a leggere roba da nazi-skin?».

Certo. E non solo per dovere di conoscenza di una cultura che mi è aliena, razzista, esoterica. Ma soprattutto per arrivare alle fonti dell'antimodernismo radicale. Guénon, de Gobineau, Chamberlain, Drieu La Rochelle. Là dove è più chiara la nostalgia per i «valori», per una società gerarchica, castale, superomistica in senso militaresco o spirituale. Sono le letture che bisognerebbe fare subito accanto ai francofortesi e a tutti i deprecatori della società di massa, nauseati dalla grande omologazione e dalla morte della cultura. Così da stigmatizzare zone di irresponsabile commissione nell'argomentare: per avere ben scolpita in mente una linea (un orizzonte) da cui non è lecito deragliare.

Si può arrivare allo sconforto in molti modi. Partendo dal proprio fallimento politico e ideologico; dalla strage quotidiana che si viene rappresentando dei valori religiosi in cui si crede; dalla propria marginalità umanistica, o di artista senza referenti sociali. O ancora come amante disperato della caverna di Platone, volgendo un attimo più del necessario le spalle al mare.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 181

Mercoledì 15
«Le istituzioni collettive create dall'uomo non controllano più le conseguenze delle azioni umane sulla collettività». E' una frase, un'anticipazione giornalistica, tratta dal monumentale studio di Eric Hobsbawm: The Age of Extremes. The Short Twentieth Century (1914-1991). E, per un imprecisato senso di contrasto, mi viene da collegarla a quest'altra: «In quest'ultimo scorcio del secolo, la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze si trovano a crescere in un continuo presente, senza alcun collegamento organico con quel passato della vita pubblica che pure ha forgiato il tempo che stiamo vivendo».

Com'è possibile che mentre la vita associata sta scivolando in una totalità senza senso, generazioni intere consumino la propria esistenza in un continuo presente?

Ieri, a Pisa, un ignoto ha regalato una bambola esplosiva a due zingari di 13 e 3 anni che chiedevano l'elemosina a un semaforo. E oggi, in classe, ho sentito una ragazza di terza (maestre elementari) che diceva: «Sì, ha fatto male, perché sono bambini».

Tanta era la rabbia, che ho preferito tacere.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 199

Quando un intellettuale modifica sensibilmente le proprie opinioni su uno stesso argomento in un apprezzabile lasso di anni (e soprattutto se è un intellettuale di vaglia, e dunque è utile, stimolante, seguire la parabola del suo pensiero), si possono fare varie ipotesi. La prima, e la più immediata, è che ragioni di approfondimento specialistico ne abbiano mutato la prospettiva. In questo caso sono da considerare i nuovi materiali e le nuove argomentazioni che egli pone sul tavolo, avendo molto riguardo ai percorsi di autocorrezione: alla divisa etica con cui affronta il già detto, rielaborandone o dismettendone gli esiti concettuali. Una seconda ipotesi, molto opportuna se si tratta di ricerche in campo socio-culturale e contemporaneo, è che il fenomeno trattato abbia mostrato cambiamenti accelerati nel corso del tempo, e dunque necessitino aggiustamenti di analisi e di giudizio.

Sin qui tutto chiaro: oggettivamente valutabile. Più delicata si fa la questione nel caso dell'ipotesi numero tre: che cioè vicende biografiche (politiche, ideologiche, personali nel senso più stretto) siano intervenute ad alterare la percezione originaria del problema. In un frangente simile, non è raro che l'apparato argomentativo dell'intellettuale perda di rigore: il ritorno sul già detto si vela di pentitismo, e il passaggio da una posizione A, a una posizione B, elude spesso l'accertamento dei nuovi nessi categoriali, la minuziosa invalidazione di quelli precedenti che avevano supportato l'analisi. Ma c'è anche una quarta ipotesi, più insidiosa da percepire e da valutare. Quella per cui il giudizio analitico su uno stesso fenomeno muti rapidamente con il mutare del contesto in cui si inscrive. Che cioè sia lo sfondo, con, i suoi contrasti cangianti e le sue tensioni sempre imprevedibili e rinnovate, a sollecitare nell'intellettuale percepibili correzioni di rotta nel corso della sua indagine.

| << |  <  |