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| << | < | > | >> |Pagina 13Fu creata dopo l'era delle costole e del fango. Una bolla papale aveva stabilito che nessuno doveva più essere plasmato dalla terra o dal midollo di altri. L'umanità sarebbe stata generata unicamente dalle spinte e dalle monte compiute sotto le lenzuola, con l'unica eccezione delle immacolate concezioni. Le fosse della creta furono demolite e i banchi da taglio, dove le costolette venivano estratte da, capre e maiali, segati in due. I frati rimasero fedeli a Roma, ma le loro vesti non assorbirono soltanto il sale del sudore, ma anche quello delle lacrime versate. Strapparono le maniche delle tuniche, nascosero i coltellacci nella tela delle bisacce e tirarono a lucido le zappe. Chiusero l'opificio e incatenarono le porte con lucchetti dai sigilli vaticani, prima di mettersi in marcia. Tre schiere di frati con lo sguardo umilmente rivolto a terra: chiudevano gli occhi quando calpestavano le pozzanghere per evitare i loro stessi riflessi, i volti dalla barba incolta. Avrebbero dovuto procedere così fino a dimenticare l'ubicazione dell'opificio, un'impresa impossibile per uomini addestrati a memorizzare ogni passo delle Sacre Scritture e ogni minima curvatura degli archi delle cattedrali che avevano incontrato. Così avanzarono verso sud fino alla Terra del Fuoco, poi risalirono fino alle scogliere ghiacciate dell'Alasca, catalogando uccelli e aperture alari. Sollevavano le ali dei pinguini e allungavano il metro in silenzio, nel tentativo di disperdere in quelle misure le coordinate dell'opificio. Dopo aver registrato le cifre sulle pergamene, i frati riprendevano la marcia secondo le schiere, saltando solo il cinquatreesimo posto, quello di un fraticello che si era smarrito molte miglia addietro, nel deserto di ghiaccio. Anche lei era nata all'opificio, ma non era figlia dei frati. Era stata creata senza l'avallo della Chiesa da un uomo comune, con le mani sfregiate dalla carta. Il suo nome era Antonio, e come tutte le storie dei creatori che generano la vita dalla morte, anche la sua aveva avuto inizio con un macellaio che inseguiva un gatto grigio, lo catturava, gli sfilava il collare e gli tagliava la gola. Dopo aver raschiato gli organi e la pelliccia dal suo tavolaccio, e dopo averli gettati nella spazzatura, il macellaio aveva deposto la carne ancora tiepida in vetrina, al fresco, con uno spiedo e una bandierina che diceva: "FELINO: 3,15 alla libbra". Quando vide il suo Figgaro in vetrina, sventrato e scuoiato, Antonio era ancora un bambino, con indosso la divisa delle scuole elementari. Senza versare una sola lacrima di fronte alla cassa, trasse di tasca sei banconote e ordinò tre libbre di carne. Figgaro gli fu restituito avvolto nel bianco della carta per alimenti, e anche se Antonio si sentiva triste e voleva togliersi la divisa di scuola per vestirsi a lutto, non cedette. Anzi, entrò in cartoleria e comprò il giornale della domenica e un rotolo di carta di riso, tirata a mano. Chiuso per tre giorni in camera, tagliò e ripiegò la carta. Al secondo giorno, dopo trentatré taglietti privi d'importanza salvo una ferita che affondava nella carne viva della sua mano portò a termine tredici perfetti organi fatti di origami, con tanto di capillari e vene di carta velina. Quando scartò Figgaro dall'involucro, il corpo del gatto era ancora caldo, nonostante lo sbudellamento e le ore passate in frigo. Antonio inserì prima il cuore di carta, poi le vene principali e i capillari più piccoli. Collegò il fegato ai polmoni, lo stomaco all'apparato digerente in carta da giornale, e infine sagomò il ventre con fogli a righe larghe. Prima ancora che l'ultimo strato di carta fosse applicato, Figgaro già agitava la coda. Fu grazie a questa esperienza con il gatto e con le meraviglie della carta che Antonio scoprì la sua vocazione. Dopo cinque anni di apprendistato e una serie di esperimenti condotti in laboratorio sulle pieghe simmetriche e rovesciate, divenne il primo chirurgo di origami. Le riviste mediche tentarono di screditare i pregi della carta: gli esperti sostenevano che la velocità della circolazione sanguigna avrebbe perforato anche il compensato, e suffragavano queste affermazioni con disegni a mano di cuori deflagrati. Ma i cuori di carta non accusavano né perdite né infarti, e Antonio, per farsi beffa dei suoi detrattori, arrivò a modellare un intero impianto cardio-vascolare servendosi esclusivamente dell'indice di una delle loro riviste. Il suo unico fallimento fu il collasso di un fegato che si sfibrò in cellulosa e fu rinvenuto, sotto forma di microscopici pezzi di carta, nel sangue di una donna di San Isidro. Tutto sommato, era un miracolo che fosse sopravvissuta fino alla menopausa, considerando quanto whisky irlandese avesse bevuto. Ma non furono le critiche a stroncare la sua carriera di chirurgo di origami. L'arte medica di Antonio fu superata dalle innovazioni provenienti dalla Svezia. La bioingegneria scalzò la carta e costrinse alla pensione le sue mani sfregiate. Munitosi di un tavolo pieghevole, Antonio cominciò a spostarsi da un incrocio all'altro disponendo in bella mostra i cuori di carta, le reni, e i gomitoli di capillari. Sbalzato dalla prestigiosa sterilità della chirurgia all'anonimato del porta a porta, Antonio scoprì che nessuno era più interessato ai suoi origami. Così, trasformò i cuori in tartarughe e le reni in cigni, e intrecciò i capillari attorno al collo delle sue nuove creature, come se fossero guinzagli. Ben presto, davanti al suo tavolino, si radunò una folla paragonabile solo a quella che assediava i cesti di vimini del frumento e del carbonato di sodio. La folla gridava i nomi degli animali e Antonio li modellava a richiesta; tutti andavano pazzi per le sue creature. Perfino gli uomini abituati a impugnare i falcetti uomini dalle mani scheggiate, dalle anime consunte, uomini insensibili non soltanto al contatto con la seta ma anche alla bellezza dei panorami, perché in tutta la loro vita non avevano visto altro che terra e fango ebbene, anche loro, rinfoderati i falcetti, tiravano la coda ai cigni di carta per vederli sbattere le ali. Per non parlare degli avvocati o degli impiegati che non avevano mai impugnato una zappa o un falcetto, ma che, al contrario, avevano assaporato l'argento delle forchette da insalata e dei coltelli da carne: anche loro aspettavano, dietro a donne e bambini, di vedere i prodigi di Antonio. E proprio questi signori, quelli che adesso ammiravano la pregevole fattura dei becchi e l'eccellente disposizione delle ali dei Pegasi, dimenticavano che loro stessi, qualche tempo prima, si erano sdraiati sul suo lettino operatorio per ricevere nuovi cuori di carta. In quei giorni, la fama di Antonio sfiorò quella di altri grandissimi artigiani: Senillo, il tessitore di corde, o il Seρor Casique dell'ultimo periodo, le cui scale a pioli non erano più utilizzate per le arrampicate, ma adornavano gli interni della cattedrale di Guadalajara. E tuttavia, nonostante il rispetto e la fama che gli origami gli avevano procurato, Antonio abbandonò improvvisamente quella che ormai era divenuta una postazione ambita da molti. Lasciò in strada il tavolino con due file ordinate di animali, chiuse l'esposizione e si dedicò a un ideale più nobile: la ricerca dell'opificio. Quando fu chiaro che non sarebbe mai tornato alla sua bancarella, anche il clero decise ad approvare i usoi origami. Coloro che sentivano il bisogno di espiare un qualche peccato, cominciarono a offrire i suoi oggetti alla Chiesa, in segno di penitenza. Cigni e unicorni comparvero presto sugli altari, a fianco dell'Eucaristia. Anche più tardi, quando Antonio sfidò la Santa Sede valicando quella che era considerata una proprietà pontificia, l'autorità ecclesiastica continuò a ravvisare nel suo lavoro il piano e le mani di Dio, e a ritenere le sue creazioni coerenti con i dettami dell'arte sacra esposti dal Concilio Vaticano II. Le sue statuine di origami rimasero dunque sugli altari, nonostante le pratiche per la scomunica fossero ormai complete. Dal canto suo, Antonio seguì le voci che circolavano in seno alla Chiesa, le dicerie che dai cardinali passavano ai preti e da questi ai chierichetti delle canoniche. Visitò tutte le basiliche delle città a cui facevano accenno, chiedendo indicazioni per l'opificio. Quei pochi che gli badarono, si limitarono a scuotere le spalle o a indicare il profilo di una ciminiera. Se non fosse stato per un frate scorbutico che inveiva contro una vita passata a marciare e ad avvistare uccelli, Antonio non avrebbe mai raggiunto il portone dell'opificio. Il frate gli consegnò un ritaglio di pergamena sul quale erano state trascritte misurazioni decimali e dettagliate illustrazioni di piume, dettagli comuni riscontrabili in una qualsiasi guida specifica. Il retro della pergamena, tuttavia, rivelava le coordinate dell'opificio, rimaste ignote fino ad allora. In calce alla pagina, nello stesso corsivo accurato, il frate aveva apposto la propria sigla, utilizzando non già il suo nome di battesimo, ma la sua posizione all'interno delle schiere: era il cinquantatreesimo. Antonio seguì le sue indicazioni. Rubò un carro dal recinto del vecchio macellaio e lo riempì di cartone, di pile di libri, di tovagliette, di fazzoletti e di ogni altro genere di carta su cui poté mettere 1e mani, lucida o opaca che fosse. Oliò le giunture delle ruote e partì alla ventura, con il capo coperto da un poncho di plastica e una tela catramata sopra il carico di carta. Giunse all'opificio un martedì in cui la terra spazzata dal vento era umida e coperta da una nuvolaglia grigia. Gli ci vollero quattro ore di lavoro, con le sue braccia rugose e le mani coperte di macchie, per segare il solido rivestimento dei lucchetti con i sigilli vaticani. Una volta all'interno, ripristinò i banchi da taglio, li convertì in piani da lavoro e vi rovesciò sopra il suo ammasso di carta. Strappò le rilegature dei libri seminando ovunque le pagine dei volumi della Austen e di Cervantes, del Levitico e del Libro dei Giudici, pagine che si mischiarono ad altre pagine, dal Libro della luce incandescente. Poi srotolò la carta da pacchi e quella da progetti, e iniziò a incidere il cartone. Lei fu la prima a essere creata: gambe di cartone, appendice di cellofan e seno di carta. Creata non dalla costola di un uomo, ma dai ritagli della carta. Non c'era alcun Dio onnipotente in grado di separare le acque del Pison e del Gihon, ma soltanto un vecchio dalle dita ricoperte di tagli, che già due volte aveva abbandonato il proprio lavoro. Antonio era svenuto sul pavimento, la faccia e le braccia coperte dai rimasugli che aderivano al sudore del suo corpo, e non sentì il rumore della carta che si espandeva mentre lei si alzava in piedi. Le sue mani erano imbrattate di sangue, i calzoni macchiati dal liquido scuro che si allargava sul pavimento. La donna gli passò sopra lasciando dappertutto le impronte del suo sangue, e poi uscì dall'opificio, nella tempesta. I caratteri stampati sulle sue braccia si stinsero, i suoi piedi s'inzupparono al contatto con il selciato bagnato, e le sue dita si sciolsero in poltiglia. | << | < | > | >> |Pagina 22Quando Merced lo lasciò, Federico de la Fe cadde in una depressione che, dieci anni dopo, non era ancora guarita. Un prurito si era diffuso sul dorso della sua mano e, per quanto grattasse, Federico de la Fe non riusciva ad alleviarlo. Aveva provato a nutrire gli opossum a mani nude e a infilare i pugni negli alveari senza guanti. I morsi degli opossum e le punture delle api avevano attenuato, almeno per qualche tempo, il prurito. Ma fu solo quando Federico del Fe si decise a cacciare la mano nella stufa a legna dove Merced coceva le tortillas e bolliva il latte di capra - che il suo prurito scomparve del tutto. Federico de la Fe lasciò la mano sui tizzoni ardenti fino a provare un dolore così intenso da fargli dimenticare la tristezza e sentire soltanto l'odore di strino della sua carne. Dopodiché si fasciò la mano in una vecchia sciarpa e la cosparse dell'unguento verde che il curandero gli aveva prescritto, poi si appuntò tutte le cose che il fuoco gli aveva curato: 1. il prurito 2. la pipì a letto 3. la depressione
L'unico rimpianto di Federico de la Fe era di non aver
scoperto il fuoco dieci anni prima. Così, ogni sera, quando il
sole si nascondeva dietro l'orizzonte e la Piccola Merced si
addormentava nel suo letto asciutto, Federico de la Fe andava
in cucina ad accendere la stufa, per impedire al rimorso di tornare.
Mio padre disse che prima di andare a Los Angeles avremmo dovuto vedere l'ultimo eroe della lotta libera di Jalisco e prendere parte alla lunga tradizione della Lotteria. Trascinai le mie federe per terra mentre lo seguivo verso l'arena di Don Clemente. Lungo i corridoi, il sangue dei combattimenti mattutini imbeveva la tela delle federe. Ricordo che mio padre mi sollevò per farmi vedere un uomo che indossava una maschera dalle finiture d'argento. Attraverso i fori degli occhi, potevo indovinare la sua bellezza, ma anche la sua solitudine. Nell'arena, assistemmo al match dalla terza fila. Mio padre mi comprò un cartoccio di noccioline abbrustolite, e io gli chiesi alcune scorze di lime da spremerci sopra. "Tua madre li mangiava sempre", mi disse. "E i suoi denti avevano iniziato a marcire." Io promisi che non ne avrei mangiati così tanti. "Solo per questa volta", lo supplicai, e alla fine lui me ne concesse due, che tirò fuori dalla sua borsa marrone. Mentre sgranocchiavo le noccioline con il succo di lime, vidi che Santos passava la mano all'Uomo Tigre, e scendeva dal ring. Forse fu solo la mia immaginazione o il tanfo dei polli morti sotto le seggiole ma sentii il suo sguardo posarsi su di me. Dopo la vittoria di Santos e dell'Uomo Tigre sulle Api Nere, io e mio padre lasciammo l'arena per seguire un gruppo di vecchie signore che si incamminavano verso i tavoli della Lotteria, nel parco al centro della città. | << | < | > | >> |Pagina 26L'autobus numero 8 arrivò a Tijuana dopo cinque giorni di viaggio da Guadalajara. In quei cinque giorni, mangiarono la carne di maiale essiccata che la Piccola Merced aveva infilato nelle federe, come le aveva detto suo padre, e qualche focaccia di mais che lui teneva in un sacchetto di plastica. Dopo i primi tre giorni, Federico de la Fe trovò delle bucce di lime sotto il sedile, ma non se ne curò. Pensò che fossero scivolate lì mentre il pullman arrancava sulle montagne attorno a Culiacan. Durante la traversata, Federico de la Fe ripensò agli stabilimenti tessili e alla formidabile tecnologia di un paese che aveva saputo instillare colore nel grigio mondo di celluloide di Rita Hayworth. "Baia California, Tijuana", annunciò il conducente, sputando un pezzo mangiucchiato di canna da zucchero. Federico de la Fe carezzò la testa della Piccola Merced, per svegliarla. "Ci siamo", le disse, e lei si chinò per recuperare le due federe.
Tra i sedili davanti c'era una donna fatta di carta che volle
abbracciare e baciare la Piccola Merced, prima che scendesse
dal bus. Lì per lì, Federico de la Fe tentò di allontanare la
figlia dalla donna, stringendola per le spalle, ma poi, quando
la Piccola Merced gli sussurrò che la conosceva bene, lui la
lasciò libera di allargare le braccia e stringere la sua nuova
amica di carta.
Dopo avere guardato negli occhi il Piccolo Nostradamus, avanzai tra le fila dell'autobus e mi sedetti accanto a una donna fatta di carta. Mi disse che non restava più nessuno del suo popolo, a parte lei e il suo creatore. Mi disse che l'aveva lasciato sul pavimento di un vecchio opificio, il suo creatore, privo di sensi, con le mani sfregiate da migliaia di piccoli tagli. Sembrava triste. Le osservai le braccia, fatte di fogli di giornale, e i gomiti, modellati con carta da progetti verde, e le chiesi se potevo toccarla. La donna annuì, così le appoggiai una mano sul braccio e strinsi, aspettandomi che si accartocciasse. Il suo braccio era caldo, e potevo sentire il sangue scorrerle nelle vene, fino alla dita, e poi ritornare indietro, a grande velocità, fino al cuore. Le chiesi quale fosse il suo nome e lei mi disse che non ne aveva uno. "Nello scompiglio e nella frenesia della mia nascita, non ho ricevuto un battesimo. Non saprei quale potrebbe essere un nome adeguato", mi disse. Poi mi suggerì di trovarne uno per lei.
La chiamai Merced de Papel, in omaggio
al mio stesso nome, che a sua volta era un
omaggio a quello di mia madre. Merced de
Papel volle sapere dove fossimo diretti. Le
dissi che stavamo andando a Los Angeles,
dove mio padre avrebbe trovato lavoro in una
fabbrica di vestiti e io sarei andata a scuola,
per imparare tante cose su un mondo fatto di
cemento. Anche Merced de Papel stava
andando a Los Angeles, ma per altri motivi.
Aveva sentito dire che era l'ultimo rifugio per
tutti coloro che erano rimasti orfani del
proprio popolo, e che avevano paura della pioggia.
Dopo il temporale, vagabondai tra pozzanghere e mucchi di rifiuti. Pensavo ad Antonio, il mio creatore, svenuto nel vecchio opificio. Le sue mani lacerate che versavano sangue sul pavimento. Sola e terrorizzata, cercai la città più vicina e finii a Guadalajara. Lì incontrai un uomo che indossava stivali con gli speroni, e conduceva mandrie di bovini per le strade della città. Gli raccontai la mia storia, e lui mi comprò un biglietto, consigliandomi di andare a Los Angeles. Sull'autobus, una ragazzina con le mutandine a fiori, fatta interamente di carne, mi parlò della città che ci stavamo lasciando alle spalle e mi disse di non voltarmi, se non volevo essere trasformata in una statua di sale. "Mi ricordi mia madre", disse. "Anche se sono anni che non la vedo." Si mise a ridere e poi mi diede il nome di Merced de Papel. Dopo avermi toccato le braccia, mi disse che ero tiepida al tatto e non ero affatto molliccia come il rotolo dell'edizione domenicale che lei si era aspettata. Quando tornò al suo posto, si addormentò accanto al padre. E lui, una volta arrivati a Tijuana, la scortò per il corridoio del pullman. Prima di scendere, la ragazzina corse a salutarmi e mi abbracciò. "Laggiù c'è un piccolo Nostradamus", mi bisbigliò in un orecchio, poi, assieme al padre si allontanò. Quando mi voltai, vidi una donna che stringeva orgogliosamente un bambino ritardato, con la bava alla bocca e le gambe a penzoloni. | << | < | > | >> |Pagina 49Rita Hayworth si schiarì i capelli corvini e li tinse di un biondo ramato. Per enfatizzare la fronte spaziosa, alzò l'attaccatura dei capelli grazie a degli elettrodi a forma di aghi, e si fece restringere la cartilagine del naso camuso fino a renderlo quasi appuntito. I linguisti pagati dalla Fox le palparono a lungo la lingua, insegnandole a non arrotare la erre e a pronunciare parole come "salamandra" e "insalata" senza sembrare una sporca messicana. Trasformata da linguisti e truccatori, fu spedita dai produttori a Buenos Aires con una troupe, per girare un film sui casinò clandestini e i triangoli d'amore. Rita conosceva i casinò: li aveva frequentati e ci aveva ballato per tutta la vita. E conosceva anche i triangoli d'amore: si era fatta coinvolgere più di una volta e in un'occasione aveva anche aggiunto, di propria iniziativa, un quarto vertice ai tre esistenti. Il film era intitolato Gilda, e tra le dozzine di pellicole che avrebbe girato, Rita Hayworth lo avrebbe detestato più di qualsiasi altro. Decine di anni dopo, mentre riposava nel suo appartamento di New York con vista sull'East River, la mente persa nelle nebbie dell'alzheimer, Rita Hayworth avrebbe rimpianto le sue prugne salate e un mondo in cui Gilda non esisteva ancora. "Tutti gli uomini che ho conosciuto si sono innamorati di Gilda e si sono risvegliati con me", diceva, elencando gli uomini che aveva sposato e poi abbandonato: 1. Edward Judson 2. Orson Welles 3. il principe Alì Khan 4. Dick Haymes 5. Jarnes Hill Nessuno di questi era un raccoglitore di lattuga. Durante le riprese a Buenos Aires, Rita si aggirava tra i gazebo del parco e osservava le ragazzine che cantavano in rima e giocavano a rayuela. Di notte andava al circo, guardava i gatti che compivano operazioni di aritmetica con il pallottoliere, e sorseggiava il mate. La bevanda era amara, e l'odore acidulo delle foglie tostate le faceva arricciare il naso.
Dopo lo spettacolo, mentre gli elefanti stringevano le corde dei tendoni,
Rita si leccava il labbro superiore, entrava nella hall dell'albergo, prendeva
l'ascensore e tornava in camera. Sdraiata sul letto, pensava che ci fosse qualcosa
di triste nel fare film, e nei gatti con il pallottoliere. I suoi alberi di prugne
erano morti già da molto tempo, e così tutte le lacrime che versò in quei giorni
bagnarono solamente il materasso consunto dell'albergo.
Julieta se ne andò lasciando il classico biglietto d'addio sul letto di formica, prima di sgusciare fuori dalla finestra del bagno. Il biglietto si polverizzò all'istante, e i pezzetti di carta si aggiunsero ai gatti di polvere ai quattro angoli della stanza. Julieta discese dall'altura di El Derramadero e raggiunse il fiume di Las Tortugas, dove le porte erano sprangate e i pozzi coperti. Gli abitanti temevano che potesse propagare la distruzione di El Derramadero, e nonostante fossero generalmente ospitali, la invitarono ad andarsene. Dalle montagne, l'infamia del paese della plastica e della rovina si era estesa fino alle colline e alle spiagge di tutto lo stato, toccando a nord, anche la frontiera. Benché mancassero conferme, si raccontava che il sentiero battuto da Julieta verso Tijuana fosse costellato non soltanto di ramoscelli e fili d'erba spezzati, ma anche di buche che si erano aperte, all'improvviso, nel terreno. Quando Julieta giunse a Tijuana, quello che un tempo era stato un confine delimitato da una semplice linea di gesso, era adesso un muro presidiato da torrette di avvistamento e reti metalliche. Barricate di cemento erano state interrate sotto le reti, in modo che nessuno potesse scavare un tunnel per emergere dall'altra parte. Fari da stadio illuminavano tutta la zona fino alle prime luci del giorno. Di notte, chi tentava di dormire nei paraggi, sotto l'eccessivo voltaggio dei fari, era costretto ad abbassare le tapparelle e a seppellire la testa sotto federe nere. Nessuno seppe mai con certezza se Julieta avesse portato con sé il morbo di El Derramadero, o se invece avesse trovato, per caso, un punto della recinzione lunga più di trecento miglia, in cui le maglie di acciaio si erano allentate, consentendole così di valicare il confine. | << | < | > | >> |Pagina 54La notte in cui sognò sua moglie, Federico de la Fe si risvegliò in un materasso bagnato, con un vago sentore di legno marcio. Sotto il letto, una pozza d'urina aveva macchiato le assi. Da sveglio, Federico de la Fe poteva soffocare la tristezza e il ricordo della moglie con il fuoco, ma nel sonno non aveva mezzi per controllare l'allineamento dei pianeti e il peso di Saturno. Spinse via le lenzuola, tamponò il pavimento con asciugamani da bagno, sollevando urina e termiti affogate, e aprì le persiane per fare entrare il sole. Poi uscì di casa e guardò il cielo. Il suo sguardo era terso privo di lacrime, i suoi pantaloni da lavoro erano ancora umidicci sul davanti, decine di termiti morte gli aderivano alle piante dei piedi nudi. Rimase sotto il sole con gli occhi spalancati, senza sbattere le ciglia o abbassare la testa, e per la prima volta fu in grado di individuare la fonte dl quel peso incombente. Fissava ostinatamente il secondo pianeta più grande del sistema solare e non si mosse finché Saturno non si accorse di tutta la sua rabbia e dell'implicita dichiarazione di guerra che conteneva. Quella sera, Federico de la Fe coprì il materasso con un telo di plastica e dormì con un fagotto di vestiti avvolti attorno all'inguine, legati con spille da balia. Ma nonostante il pannolino, l'urina gli scivolò tra le gambe e gocciolò sull'impiantito, ravvivando l'aroma di legno marcio e di termiti morte.
Così, per prevenire altri sogni e nuove incontinenze ricorse
a un'insonnia autoindotta. Acquistò un pacco di mate
argentino inasprito e invecchiato sulle mensole del curandero,
e bevve l'acqua bollente ustionandosi la lingua. Finita la
bevanda, continuò a masticare la poltiglia di foglie mentre il
resto di El Monte dormiva.
Non avevo più sentito l'odore dell'urina di mio padre da quando avevamo lasciato Las Tortugas, ma adesso che la puzza era tornata, temevo potesse tornare anche la depressione. Quando uscì dalla stanza, tuttavia, non c'era tristezza nella sua voce. Solo una macchia attorno alla patta. "Di' a Froggy che oggi non vado a lavorare, ma che lo aspetto qui stasera", disse, prima di uscire in cortile ad asciugarsi i pantaloni e osservare il cielo. Così raggiunsi la pesa pubblica e riferii a Froggy il messaggio. Quella sera, quando bussò alla nostra porta con il set da domino in avorio, Froggy era in compagnia di altri tre uomini dell'EMF. Si sedettero tutti al tavolo e cominciarono a masticare rose e a sorbire mescal. A parte Froggy e mio padre, tutti avevano la sigla "EMF" tatuata sul collo. Quella notte, Froggy vinse l'intero montepremi: un pacchetto di sigarette, due coltelli a serramanico, dieci dollari e un litro di mescal di agave. A me diede due biglietti da un dollaro arrotolati, poi mio' padre mi mandò a dormire. A letto mi tornarono in mente i vecchi mattoni di fango di Las Tortugas. Avevo l'abitudine di aprire dei piccoli fori con il mignolo e un goccio di saliva. Attraverso quei fori, avevo visto mio padre spazzolare i capelli di mia madre, e l'avevo sorpresa a mangiare lime e a gettare la buccia nel fuoco della stufa.
Ma adesso i muri erano fatti di legno e
calcina, e l'unica cosa che potevo sentire era la
conversazione ovattata degli uomini nell'altra
stanza, e il rumore dell'avorio che toccava il tavolo.
Prima che Federico de la Fe mandasse a letto la figlia, avvolsi in un paio di banconote da un dollaro il coltello più piccolo che avevo vinto, e glielo regalai. Mentre richiudevamo le scatole del domino e ci preparavamo ad andarcene, Federico de la Fe ci chiese di restare ancora un poco, e iniziò a mostrarci alcune mappe dell'universo e dei piani per una guerra che voleva combattere al nostro fianco. Disse che si trattava di una guerra di volontà, una guerra contro lo sfruttamento della tristezza. "Una guerra contro il destino che è stato scritto per noi", disse. Gli chiesi chi avesse scritto il nostro destino, e lui scosse la testa e ammise di non esserne del tutto sicuro. L'unica cosa che ci poteva dire era che c'era qualcosa o qualcuno nascosto in cielo che ci stava osservando, dall'orbita di Saturno. Questa entità gli aveva portato via la moglie, e gli aveva inflitto una tristezza perpetua che poteva essere alleviata solo con il fuoco. Ma anche tutti gli altri abitanti di El Monte erano soggetti agli umori e ai capricci di Saturno. "In questo momento, mentre vi sto parlando, noi tutti facciamo parte della storia di Saturno. Siamo sua proprietà. Qualcuno ci ascolta e ci osserva, sfrutta le nostre vite per il proprio intrattenimento. Ma combattendo potremo riprenderne il controllo, proteggerci, e vivere la nostra vita solo per noi", disse Federico de la Fe. | << | < | > | >> |Pagina 111All'età di centodue anni, il bisnonno di Saturno non aveva mai lasciato le Americhe, ma aveva sempre sognato i moschetti spagnoli con il calcio e il grilletto intarsiati d'argento, il vino dei vigneti francesi e la possibilità di baciare i ciottoli del Vaticano sulla strada che conduce dai negozi di souvenir alla basilica di San Pietro. Nonostante i suoi occhi fossero velati dalle cataratte, le mani rese callose da anni trascorsi a maneggiare corde e falcetti, la lingua cotta da decenni di succo di lime, Don Victoriano non si era mai lasciato ingannare dai cabernet a basso costo, dai calci di legno intagliato e dalle pietre lavate con l'olio e coperte di muschio per simulare i secoli di esposizione all'aria di Roma. Così, tutti i giorni, Don Victoriano scacciava i ciarlatani che tentavano di fregarlo, recuperava il bastone dal tavolo del caffè e si avviava verso il parco. Una volta al parco, prendeva posto su una panchina mentre i settantenni mischiavano le carte per fare una partita con lui. Come al solito, tra una mano e l'altra, quando l'espressione grave dei giocatori di poker si distendeva, gli uomini discutevano di cose come l'arrivo del nuovo arcivescovo di Guadalajara, degli spazzini che non si erano fatti vedere per settimane, delle pile di sporcizia che si erano accumulate per le strade e dei nipoti venuti alla luce di recente. Un giorno, su richiesta del mazziere, Don Victoriano portò con sé l'albero genealogico della sua famiglia. Il rotolo di pergamena, aggiornato con inserti incollati con lo scotch, copriva tutto il tavolo da poker e toccava per terra. Don Victoriano era il capostipite di una famiglia i cui ultimi rappresentanti erano tre pro-pro-pronipoti, ormai incinte. Tra i duemila e sei discendenti di Don Victoriano c'erano: i primi abitanti di Las Tortugas, otto avvocati, un calciatore professionista, il primo chirurgo di origami, due chierichetti e un prete, un banchiere, un romanziere, quattro panettieri, un cuoco, e sei carpentieri che si erano rifiutati di costruire bare per eludere lo spauracchio della sua morte. Don Victoriano passò più volte la mano sulla pergamena grezza e ricavata da una pelle di suino venata di screpolature, con i follicoli piliferi ancora in vista, poi riavvolse tutto l'albero genealogico in un rotolo che legò con una corda, servendosi di una tecnica che aveva appreso la prima notte di nozze. Non stava di certo pensando alle generazioni future, quella notte, quando aveva sciolto i lacci del vestito di sua moglie per adagiarla sul materasso di paglia. Nel giorno del suo centesimo compleanno, con la casa invasa dei microfoni della radio, ai reporter che gli domandavano di tutti i figli che aveva messo al mondo, lui aveva risposto soltanto con il nome di sua moglie, morta trentatré anni prima. "Dovreste parlarne con lei." | << | < | > | >> |Pagina 139Avevo intenzione di starmene buona e di lasciarti scrivere la tua storia, di guardarla, per una volta, dal tuo punto di vista. Perché io sono quella scorretta, quella avventata, quella che si merita tutto il peggio possibile. Ma questo è un romanzo: non è più solo una questione tra me e te. Hai messo in mezzo troppa gente, hai coinvolto troppe persone, e io non intendo fare la parte del cattivo. Merito il tuo disprezzo, il tuo risentimento, anche la tua crudeltà se vuoi, non lo metto in dubbio. Ma questo è un tuo diritto, un'autorizzazione dovuta ai miei errori, non un qualcosa che possa essere condiviso. Non puoi estendere questo diritto agli altri. Eppure è questo che stai facendo, stai trasformando i lettori in raccoglitori di lattuga e stai dipingendo me come la tua Rita Hayworth. Quella venduta, quella infedele. Una Malinche, una sgualdrina. Mentre tu sei quello leale, dall'animo nobile, l'unico rimasto fedele a El Monte. L'eroe romantico. Raduni le tue schiere di raccoglitori di lattuga perché mi lancino insulti e cespi di insalata marcia. Così ogni giorno, quando mi sveglio, devo sentire il tanfo del marciume che mi hanno scagliato contro la porta, e in qualche modo pensi che tutto questo mi farà pentire per quel che ti ho fatto? Ma non ho bisogno della puzza dell'insalata marcia per ricordarmene. Ho sbagliato, lo so, e sopporterò il mio squallore. Ma, Sal, io non sarò mai la tua Rita Hayworth. Ti ho amato, ti ho amato tanto, ma le cose sono cambiate. Te ne sei andato a combattere contro de la Fe e poi è arrivato qualcun altro che non era di El Monte, che non sapeva una sola parola di spagnolo, che non aveva mai sentito parlare dell'EMF e che non aveva mai assaggiato la zuppa di rigaglie. E mi sono innamorata di lui. E per questo vuoi farmi passare non solo per la donna che ti ha fatto soffrire, ma anche per quella che ha voltato le spalle a El Monte, per una sporca venduta. Va bene, ho cambiato casa e ti ho rimpiazzato con un ragazzo bianco, ma questo non è nulla in confronto a quel che hai fatto tu, a quel che hai venduto tu. In una risma di carta hai immolato non solo la tua città, l'EMF e Federico de la Fe, ma anche me, i tuoi bisnonni e le generazioni che verranno dopo la loro, la tua patria e i tuoi amici, perfino Cami. Hai venduto tutto, tranne te stesso. In questo modo ti conservi intatto, ma hai venduto tutto il resto. Hai consegnato tutto nelle loro mani, e per cosa? Per venti dollari e il vanto del tuo nome sulla copertina di un libro.
Ma non sono qui per punirti, o per farti sentire in colpa. Fai quello che
vuoi. Ho solo una richiesta: ricordati, per favore, della mia esistenza oltre le
pagine di questo libro. Un giorno, non so quando, avrò dei bambini, e non
voglio che trovino un romanzo in cui la loro mamma è infedele e crudele e
manca di rispetto all'eroe. Sal, se mi ami ancora, lasciami fuori da questa storia.
Ricomincia il libro daccapo, senza di me.
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