Copertina
Autore Plauto
CoautoreMolière, Heinrich von Kleist, Jean Giraudoux
Titolo Anfitrione
SottotitoloVariazioni sul mito
EdizioneMarsilio, Venezia, 2007, Tascabili 221 , pag. 402, cop.fle., dim. 12,5x19x2,7 cm , Isbn 978-88-317-9311-7
CuratoreLucia Pasetti
TraduttoreRenato Oniga, Paolo Giuranna, Ervino Pocar, Tobia Zanon
LettoreRiccardo Terzi, 2007
Classe classici latini
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Indice


  7 Introduzione
    di Lucia Pasetti

 51 Plauto
    ANFITRIONE

111 Molière
    ANFITRIONE

191 Heinrich von Kleist
    ANFITRIONE

283 Jean Giraudoux
    ANFITRIONE 38

383 Gli autori e i testi

395 Bibliografia



 

 

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Pagina 51

Plauto


ANFITRIONE



PERSONAGGI
(in ordine di apparizione)
    MERCURIO, dio
    SOSIA, schiavo di Anfitrione
    GIOVE, dio
    ALCMENA, moglie di Anfitrione
    ANFITRIONE, condottiero
    BLEFARONE, pilota di nave
    BROMIA, schiava di Anfitrione
La scena è a Tebe, davanti al palazzo di Anfitrione


ARGOMENTO I


Giove, mutatosi d'aspetto in Anfitrione, che è impegnato nella guerra contro i nemici Teleboi, ha preso in prestito sua moglie Alcmena. Mercurio riveste la figura dello schiavo Sosia, anche lui assente: Alcmena è ingannata da questi trucchi. Al ritorno dei veri Anfitrione e Sosia, tutti e due vengono presi in giro in modo straordinario. Da ciò nasce lite e confusione tra marito e moglie, finché Giove, facendo udire dal cielo la propria voce assieme al tuono, confessa di essere lui l'adultero.


ARGOMENTO II


Giove, innamoratosi di Alcmena, si è trasformato nella figura di suo marito, mentre Anfitrione combatte per la patria contro i nemici. Suo fedele aiutante, nelle vesti dello schiavo Sosia, è Mercurio, il quale inganna al loro ritorno servo e padrone. Anfitrione fa una scenata alla moglie, e i due rivali si accusano a vicenda di adulterio. Blefarone, preso come arbitro, non riesce a distinguere chi dei due sia Anfitrione. Tutta la storia viene infine chiarita: Alcmena partorisce due gemelli.





MERCURIO


(esce dal palazzo di Anfitrione, vestito da schiavo, ma con delle alticce sul cappello da viaggio, e si rivolge agli spettatori)

Volete che nei vostri commerci, nelle compere e nelle vendite, vi assicuri guadagni generosi e vi aiuti in tutto? Volete che sistemi per bene gli affari e i conti di voi tutti, all'estero e in patria, e riempia di buoni, grandi guadagni, senza fine, gli affari già avviati e quelli da avviare? E volete che dia buone notizie a voi e a tutti i vostri, che io vi riferisca, che io vi annunzi, le novità per voi più vantaggiose? Certo, voi lo sapete: è proprio a me che gli altri dèi hanno dato ogni potere sulle notizie e sul guadagno. Ma se volete che vi esaudisca, e mi dia da fare perché sia sempre a vostra disposizione un guadagno duraturo, allora dovrete fare un po' di silenzio per questa commedia, e tutti quanti cercar di esserne giudici giusti e imparziali.

Ora vi dirò per ordine di chi vengo e perché sono qua, e insieme vi dirò il mio nome: vengo per ordine di Giove, il mio nome è Mercurio. Mio padre mi ha mandato qua da voi per avanzare una richiesta, anche se non dubita che prenderete come un ordine ogni sua parola, perché sa bene che lo venerate e lo temete, come è giusto fare con Giove. Ma in verità, mi ha ordinato di chiedervi questo favore sotto forma di preghiera, con dolcezza e buone parole. E infatti, quel Giove per ordine del quale io vengo, teme le disgrazie come chiunque di voi: è nato da madre mortale, da padre mortale, non è il caso di meravigliarsi, se ha una gran paura per sé. E anch'io, che sono figlio di Giove, per influsso di mio padre, ho paura dei pericoli. Perciò vengo pacificamente e vi porto la pace: voglio ottenere da voi una cosa semplice e giusta. Perché io sono un ambasciatore giusto, mandato a chiedere una cosa giusta a uomini giusti – e certo non sta bene chiedere ingiustizie ai giusti! – mentre chiedere giustizia agli ingiusti è da stupidi, perché le canaglie non sanno neppure cosa sia la giustizia: figuriamoci se la rispettano!

Adesso, dunque, fate tutti attenzione a ciò che vi dirò. Dovete stare dalla nostra parte: sia io che mio padre abbiamo molti meriti verso di voi e verso il vostro Stato. E perché mai, come ho visto fare ad altri nelle tragedie (Nettuno, la Virtù, la Vittoria, Marte, Bellona), che ricordavano i benefici a voi fatti, perché mai dovrei anch'io rievocare i benefici di cui mio padre, il re degli dèi, è artefice per tutti? Ma lui, mio padre, non ha mai avuto l'abitudine di rinfacciare agli uomini perbene il bene che fa: pensa che voi gliene siate riconoscenti, e che i benefici che vi dà, siano meritati.

Per prima cosa, ora vi dirò il motivo per cui sono venuto qui a pregarvi: dopo di che, vi esporrò la trama di questa tragedia. Come mai avete corrugato la fronte? Perché ho detto che sarà una tragedia? Sono un dio, cambierò tutto! Farò in modo che diventi, se volete, da tragedia, commedia: con gli stessi identici versi. Volete che sia così o no? Ma che stupido, come se non sapessi che lo volete, io che sono un dio! So qual è la vostra opinione in materia. Farò in modo che sia una commedia con un misto di tragedia. Perché non mi par giusto far che sia una commedia, dall'inizio alla fine, un'opera dove compaiono re e dèi. E allora? Visto che anche uno schiavo recita qui la sua parte, farò in modo che sia, come ho detto, una tragi-commedia.

Ora, questa è la preghiera che Giove mi ha ordinato di rivolgervi: lasciate che degli ispettori si aggirino, sedia per sedia, in tutto il teatro, per controllare gli spettatori. Se troveranno delle persone reclutate per applaudire a comando, verrà loro sequestrata la toga come pegno, qui in teatro. E se poi ci fosse qualcuno che briga per far avere la palma a certi attori o a qualche artista, sia con lettere scritte, sia di persona, o tramite intermediari (per non parlare del caso in cui gli edili assegnino la palma in malafede), Giove ha ordinato che si applichi la stessa identica legge, che se avessero trafficato per ottenere una carica per sé o per altri. Il valore – disse – vi ha assicurato la vittoria e la vita, non l'intrigo o la slealtà: perché per gli attori non dovrebbe valere la stessa legge che per i grandi personaggi? Bisogna aspirare alle cariche con il valore, non con le amicizie. Ha amici a sufficienza chi agisce sempre rettamente, se sono onesti coloro dai quali dipende la scelta. Fra gli incarichi che Giove mi ha affidato, c'è poi anche questo: che si facciano delle indagini sugli attori. Chi avrà dato ordine a una claque di applaudirlo, o chi avrà fatto in modo che un altro abbia minor successo, che gli si straccino il costume e la pelle! Non vorrei che vi stupiste, perché adesso Giove si preoccupa degli attori. Nessuna meraviglia: lui stesso, Giove, si accinge a recitare questa commedia. Perché vi stupite? Come se fosse una gran novità, che Giove fa l'attore! Anche l'anno scorso, quando gli attori qui sul palcoscenico hanno invocato Giove, lui è venuto, e li ha aiutati. E poi, di certo compare in tragedia. Vi dico che oggi, qui, Giove in persona reciterà quest'opera, e io con lui. E adesso, fate attenzione, mentre vi esporrò il soggetto della nostra commedia.

Questa città è Tebe, in quella casa abita Anfitrione, nato ad Argo da padre argivo; sua moglie è Alcmena, figlia di Elettrione. In questo momento, il nostro Anfitrione è al comando dell'esercito, perché il popolo tebano è in guerra con i Teleboi. Prima di partire per la guerra, Anfitrione ha messo incinta sua moglie Alcmena. Bene, credo che sappiate già com'è fatto mio padre, che libertà si prenda in molte di queste faccende, e quanto sia focoso nell'amore, se trova qualcosa che gli piace. Così, ha cominciato ad amare Alcmena all'insaputa del marito, ha posseduto il suo corpo e con il suo amplesso l'ha messa incinta. Ora, perché voi comprendiate meglio la situazione di Alcmena, lei è incinta di entrambi,- di suo marito e del sommo Giove. E adesso mio padre è qui dentro, a lato con lei: ecco perché questa notte è stata resa più lunga, mentre lui si concede i suoi piaceri con quella che ama. Ma si è truccato in modo da sembrare Anfitrione. E non meravigliatevi neppure del mio vestito, perché sono venuto in scena conciato in questo modo, con il costume di uno schiavo. Vi presenterò una vecchia e antica storia in forma inedita: perciò vengo vestito in forma inedita. Dunque, ecco che mio padre Giove ora è dentro al palazzo: si è trasformato nell'immagine di Anfitrione, e tutti gli schiavi che lo vedono credono che sia lui: tanto è bravo a mutar pelle quando gli piace. Io ho preso l'aspetto dello schiavo Sosia, che è partito di qui per la guerra assieme ad Anfitrione: così potrò ben servire mio padre nei suoi amori, e gli altri della servitù non mi chiederanno chi sono, vedendomi spesso girare qui per casa. Allora, credendomi uno schiavo come loro, nessuno chiederà chi sono o perché sono venuto. Adesso mio padre, qui dentro, se la sta proprio spassando: nel letto, abbraccia colei che è in cima ai suoi desideri. Racconta anzi ad Alcmena quello che è successo laggiù, in guerra. Lei crede che sia suo marito, e invece se ne sta con un amante. In questo momento, mio padre le sta raccontando come ha messo in fuga le legioni dei nemici, e come ha ricevuto moltissimi onori. Quei premi, che laggiù sono stati attribuiti ad Anfitrione, noi li abbiamo rubati: mio padre riesce facilmente a fare ciò che vuole. Oggi stesso, Anfitrione tornerà dalla guerra, e con lui il suo schiavo, di cui io porto l'aspetto che vedete. Ora, perché voi possiate distinguerci più facilmente, io avrò sempre queste alucce sul cappello, e mio padre avrà una trecciolina d'oro sotto il cappello, cosa che non avrà Anfitrione. Questi segni, nessuno di quelli che abitano nella casa li potrà vedere, mentre voi li vedrete.

Ma quello lì è Sosia, lo schiavo di Anfitrione! Giunge ora dal porto con una lanterna. Appena arriva, io lo caccerò di casa. State ben attenti: varrà la pena di vedere Giove e Mercurio che fanno gli attori davanti ai vostri occhi! (si ritira in un angolo del palcoscenico)

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Pagina 59



SOSIA MERCURIO



SOSIA (entra in scena da sinistra, con una lanterna in mano: non si accorge della presenza di Mercurio e parla tra sé) Chi altro c'è di più audace, più temerario di me, io che conosco le abitudini della gioventù, eppure me ne vado in giro da solo a quest'ora di notte? Che cosa potrei fare, se ora le guardie mi cacciassero in prigione? Di lì, domani, quasi come da una dispensa, sarei tirato fuori e dato in pasto alla frusta, e non avrei la possibilità di difendermi, né alcun aiuto dal mio padrone, e non ci sarebbe nessuno che non pensi, come tutti, che ben mi merito la pena. Così, come se fossi un'incudine, povero me, sarei percosso da otto uomini robusti, [e non penserà se il suo ordine sia giusto o ingiusto]: così, arrivando dall'estero, sarei ospitato a spese pubbliche! A questo mi ha costretto la prepotenza del mio padrone, che a quest'ora di notte mi ha spinto via dal porto controvoglia. Non mi poteva mandare di giorno con questo stesso compito? È proprio vero che l'essere agli ordini di un padrone ricco è duro, che lo schiavo di un ricco è più sfortunato: notte e giorno, continuamente, è sempre abbastanza, e anche di più, quello che c'è da fare o da dire, perché tu non possa stare tranquillo. Il padrone, ricco di bisogni e libero dalla fatica, qualsiasi voglia gli venga, pensa che si possa fare, pensa che sia giusto: non riflette sulla fatica che ci vuole, e non penserà se il suo ordine sia giusto o ingiusto. Così alla servitù càpitano molte ingiustizie. Pazienza: bisogna sopportare e tollerare questo peso con tutte le sue fatiche!

MERCURIO (a parte) Sarebbe più giusto che fossi io a lamentarmi in quel modo dell'essere schiavo: io che fino a oggi ero libero, e adesso sono stato ridotto in schiavitù da mio padre! E lui, che è schiavo di nascita, si lamenta!

SOSIA Sono proprio uno schiavo da prendere a schiaffi: mi è forse venuto in mente, appena arrivato, di ringraziare gli dèi per i loro benefici, di rivolgere loro una preghiera? Certo, per Polluce, se volessero restituirmi il favore che mi merito, dovrebbero mandare qualcuno che al mio arrivo mi rompa la faccia come si deve: perché tutto il bene che mi hanno fatto, l'ho accolto senza gratitudine, come se nulla fosse.

MERCURIO (a parte) Costui ha una qualità piuttosto rara: sa cosa si merita!

SOSIA Quello che mai nessuno, né io, né alcun altro dei cittadini, avrebbe pensato che ci potesse succedere, è accaduto: sani e salvi torniamo a casa! Le nostre legioni vittoriose, vinti i nemici, ritornano in patria, spente le fiamme di una guerra immane e sterminati i nemici. Quella città che molti, acerbi lutti portò al popolo tebano, per la forza e il valore dei nostri soldati è stata vinta ed espugnata, soprattutto grazie al comando e alla fortuna del mio signore Anfitrione: ha colmato i suoi di bottino, terre e onori, e ha consolidato il trono al re di Tebe, Creonte. Dal porto mi ha mandato avanti, a casa sua, per dare a sua moglie la notizia: come ha retto le sorti dello Stato con la sua guida, il suo comando, la sua fortuna. Ora penserò in che modo riferirlo a lei, quando sarò giunto là: se racconterò delle frottole, farò come al mio solito. Perché certo, quando gli altri erano al culmine della lotta, io ero al culmine della fuga. Ad ogni modo, farò finta di essere stato presente, e riferirò quanto ho sentito dire. Ma voglio prima pensare ancora qui da solo, in che modo e con quali parole debba svolgere il racconto. Comincerò così:

«Eravamo appena arrivati laggiù, avevamo appena toccato terra che subito Anfitrione sceglie i primi dei primi, e li manda in ambasceria: ordina che riferiscano ai Teleboi la sua decisione. Se, senza violenza e senza guerra, volevano consegnare preda e predoni, se restituivano il maltolto, egli aveva intenzione di ricondurre subito l'esercito in patria: gli Argivi se ne sarebbero andati dal paese, offrendo loro pace e tranquillità. Se invece erano di parere diverso, e non gli davano ciò che chiedeva, egli avrebbe attaccato la loro città con tutta la forza dei suoi uomini.

Gli ambasciatori incaricati da Anfitrione dettano esattamente queste condizioni ai Teleboi, ed ecco che quegli uomini generosi, confidando nel valore e nelle forze, apostrofano superbamente i nostri ambasciatori, con molta fierezza. Rispondono di poter difendere se stessi e i propri cari con la guerra: che dunque i nemici ritirassero in fretta l'esercito dal loro paese. Come gli ambasciatori riferiscono tale risposta, subito Anfitrione spiega l'esercito davanti all'accampamento; dall'altra parte i Teleboi fanno uscire dalla città le loro truppe, fornite di armi straordinariamente belle. Dopo che da entrambe le parti sono usciti gli eserciti al completo, si schierano gli uomini, si schierano i reparti: noi disponiamo le nostre legioni secondo la nostra solita tattica, e così pure dall'altra parte i nemici dispongono le loro legioni. Poi entrambi i comandanti escono nel mezzo e discutono tra loro, fuori dalle formazioni schierate. Si stabilisce che chi dei due fosse stato vinto in quella battaglia, si sarebbe arreso senza condizioni, consegnando tutto: città e territorio, edifici sacri e profani, e le loro stesse persone.

Quando ciò fu compiuto, dai fronti opposti squillano le trombe: la terra risuona, d'ambo i lati si leva il grido di guerra. I comandanti, dalle due parti, di qua e di là offrono voti a Giove, dalle due parti esortano l'esercito. Ciascuno, in base al proprio valore, dà prova di tutto ciò che può e sa fare: fa strage con la spada, le aste si spezzano, il cielo rimbomba per il tumulto degli uomini, dal respiro e dal fiato ansante si forma una nebbia, i soldati soccombono sotto l'impeto dei colpi. Infine, con la nostra tesa volontà, la nostra parte risulta superiore, i nemici cadono fitti, e i nostri di contro incalzano: vinciamo con la forza e la fierezza.

E tuttavia nessuno si dà alla fuga, nessuno abbandona la posizione, ma continua a combattere restando saldo: i nemici sacrificano la vita, piuttosto che ritirarsi dal posto assegnato. Ciascuno cade dove gli era stato ordinato di stare, e mantiene serrato lo schieramento. A tale vista, subito il mio signore Anfitrione ordina di far avanzare i cavalieri da destra. I cavalieri obbediscono rapidi, si slanciano dal lato destro con un fortissimo grido, in un assalto pieno d'ardore: sconciano e schiacciano le schiere dei nemici ingiusti, che così ebbero il giusto castigo».

MERCURIO (a parte) Finora non ha detto una sola parola sbagliata: perché io e mio padre eravamo lì, presenti sul campo, durante la battaglia.

SOSIA «I nemici si gettano in fuga: allora ai nostri cresce il coraggio; ormai le lance riempivano le spalle dei Teleboi in rotta. E Anfitrione in persona riuscì ad abbattere di propria mano il re Pterelao. Quella battaglia fu combattuta lì dalla mattina alla sera: questo, tanto più me lo ricordo, perché quel giorno sono rimasto senza mangiare. Ma alla fine la notte, al suo arrivo, separò i contendenti. Il giorno dopo, vengono dalla città al nostro accampamento i capi dei nemici, piangendo: con in mano le bende dei supplici, implorano il perdono della loro colpa, e tutti affidano le loro persone, ogni bene umano e divino, la città e i figli, al potere e all'arbitrio del popolo tebano. Infine, il mio signore Anfitrione ricevette un dono, come premio al valore: la coppa d'oro con la quale il re Pterelao soleva fare le sue libagioni». Ecco quello che racconterò alla padrona, proprio così.

Ora mi sbrigherò a eseguire l'ordine del padrone, e a raggiungere la casa.

MERCURIO (a parte) Attenzione! Quello là vuol venire da questa parte! Gli andrò incontro, e non lascerò mai che si avvicini oggi a questa casa. Dal momento che sono la sua copia, ho deciso di prendermi gioco di lui. E davvero, dato che ho il suo aspetto e la sua condizione, è giusto che abbia simili anche le maniere e il carattere: perciò devo metterci cattiveria, furbizia e molta astuzia, e respingerlo dalla porta con la sua stessa arma, la furberia. Ma che succede là? Sta fissando il cielo. Vediamo un po' cosa fa.

SOSIA Davvero, per Polluce, se c'è una cosa che credo e so per certo, credo proprio che questa notte il dio Notturno si è addormentato sbronzo: le sette stelle dell'Orsa non si muovono da nessuna parte nel cielo, la luna non si sposta da quando è sorta, né Orione né la stella della sera né le Pleiadi tramontano. Così, immobili, le stelle stanno ferme al loro posto e la notte non cede per nulla il passo al giorno.

MERCURIO (a parte) Continua, o Notte, come hai iniziato! Asseconda mio padre! Stai prestando nel migliore dei modi il miglior servizio al migliore degli dèi: fai un prestito conveniente!

SOSIA Credo di non aver mai visto una notte più lunga di questa, se non una: quella in cui, dopo essere stato frustato, sono rimasto appeso per tutto il tempo. Ma anche quella, per Polluce, questa qui la supera di molto in lunghezza! Credo proprio, per Polluce, che il Sole stia dormendo, e dopo una bella bevuta. C'è da stupirsi se non se l'è spassata un po' troppo a cena!

MERCURIO (a parte) Dici davvero, faccia da schiaffi? Pensi che gli dèi siano simili a te? Per Polluce, a causa di queste tue parole e malefatte, pendaglio da forca, io ti preparerò una bella accoglienza: dài, prova soltanto a venire qui, e ti capiterà un bell'incidente!

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Pagina 111

Molière


ANFITRIONE



[...]



PROLOGO


Mercurio, su una nuvola; la Notte, in un carro alato a due cavalli
MERCURIO:
    Fermati! Tutta bella, incantevole Notte.
    S'invoca soccorso da te, Giove m'invia.
    Ho sue parole da dirti.

NOTTE:
    Mercurio!
    Tu davvero tu! Chi mai potrebbe
    riconoscerti in questa positura?

MERCURIO:
    Stanco in rovina, come tu mi trovi,
    da mille brighe a cui Giove m'impegna,
    m'ero appena seduto su quel cirro
    ad aspettare il tuo arrivo.

NOTTE:
    Tu mi scherzi, Mercurio; la stanchezza?
    Ti sembra un'espressione degli Dei?

MERCURIO:
    Sono forse di ferro gli Dei?

NOTTE:
    Di ferro non dico; ma occorre
    sempre serbare certa dignità divina.
    L'uso d'alcune parole che avviliscono
    la qualità del sublime, triviali
    tanto, lo si lasci agli umani.

MERCURIO:
    Comodo il tuo discorso,
    o mia bella gran Dama nonchalante
    trainata ovunque da due bei cavalli.
    Per me non è così. Destino, il mio!
    E maledetti i poeti insolentissimi!
    Hanno aggiudicato a ciascuno degli Dei
    qualche vettura per i loro compiti:
    lasciano a piedi me come un postino
    di campagna, io che son noto in terra e in cielo
    come il grande inviato del re degli Dei.
    Io, per tutti gl'impegni a cui mi mette,
    avrei davvero bisogno, più d'ogni altro
    d'essere scarrozzato più d'ogni altro.

NOTTE:
    Che farci, í poeti son poeti dopo-tutto;
    non è la sola scemenza che s'è vista
    di quei signori là. E infine
    non sei dalla parte del giusto, quando t'irriti:
    hai piedi alati per un dono dei poeti.

MERCURIO:
    Ci si stanca di meno ad andare più in fretta?

NOTTE:
    Lasciamola star lì, Mercurio mio;
    dimmi il da fare.

MERCURIO:
    Giove mi manda, l'ho detto.
    Vuole del tuo mantello il buio
    per favorire certa sua dolce avventura
    che un nuovo amore gli offre.
    I suoi costumi non ti sono ignoti:
    spesso trascura il cielo per la terra,
    assume aspetto umano per bellezze umane
    e cento raggiri conosce per ridurre
    al suo piacere le più rigide e ribelli.
    Adesso i begli occhi d'Alcmena l'hanno vinto;
    e mentre Anfitrione - il marito -
    in mezzo alle pianure di Beozia,
    tiene il comando degli eserciti Tebani,
    lui, Giove, ne riveste la sembianza
    e già riceve in sollievo alle sue pene
    il possesso più dolce, il piacere più dolce.
    Propizio al suo ardore lo stato degli sposi
    da pochi giorni uniti nelle nozze;
    al nascente calore dei teneri abbracci
    Giove ha colto il momento con destrezza.
    Ed ha pure fortuna; sai quante sarebbero
    le donne con le quali a niente
    gioverebbe a Giove il suo travestimento.
    Non sempre è il miglior mezzo per piacere
    presentarsi in figura di marito.

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Pagina 283

Jean Giraudoux


ANFITRIONE 38



ATTO PRIMO


Uno spiazzo vicino a un palazzo.

SCENA I
Giove, Mercurio



GIOVE. Eccola, Mercurio caro!

MERCURIO. Dove, Giove?

GIOVE. Guarda la finestra illuminata, dove la brezza muove la tenda. Alcmena è là! Non ti muovere. Fra qualche minuto, forse vedrai passare la sua ombra.

MERCURIO. A me basterà l'ombra. Ma vi ammiro, Giove, perché quando amate una mortale rinunciate ai vostri privilegi divini e perdete una notte in mezzo ai cactus e ai rovi per intravedere l'ombra di Alcmena, quando con i vostri occhi normali potreste così facilmente passare attraverso i muri della sua camera, per non parlare della sua biancheria.

GIOVE. E toccare il suo corpo con mani che non può vedere, e stringerla con un abbraccio che non sentirà!

MERCURIO. Anche il vento ama così, e ciononostante è, tanto quanto voi, uno dei principali fecondatori.

GIOVE. Non capisci niente di amore terrestre, Mercurio!

MERCURIO. Mi obbligate troppo spesso a prendere sembianze umane per non conoscerlo. Ogni tanto, al vostro seguito, amo una donna. Ma per avvicinarla, bisogna piacerle, poi toglierle e rimetterle i vestiti; e infine, per riuscire a lasciarla, occorre non piacerle più... È una faticaccia...

GIOVE. Mi sa che non conosci i riti dell'amore umano. Sono rigorosi, e si prova piacere solo rispettandoli scrupolosamente.

MERCURIO. Li conosco questi riti.

GIOVE. Per prima cosa, segui la mortale, con passo felpato e uguale al suo, in modo che le tue gambe si spostino all'unisono con le sue, così che al centro del corpo nascano lo stesso richiamo e lo stesso ritmo?

MERCURIO. Per forza, è la prima regola.

GIOVE. Poi, con un balzo, le premi con la mano sinistra il petto, dove risiedono al tempo stesso le virtù e la debolezza, e con la destra le copri gli occhi, così che le palpebre, la parte più sensibile della pelle femminile, diventino sotto il calore e le linee del palmo, prima il tuo desiderio, poi il tuo destino e la tua futura e dolorosa morte – perché ci vuole un po' di pietà per dare il colpo di grazia alla donna?

MERCURIO. Regola numero due. La conosco a memoria.

GIOVE. E infine, dopo averla conquistata, le sciogli la cintura, la fai stendere, con o senza cuscino sotto la testa, a seconda della maggior o minor nobiltà del suo sangue?

MERCURIO. Non c'è scelta: è la terza e ultima regola.

GIOVE. E poi, che fai? Cosa provi?

MERCURIO. Poi? Cosa provo? Niente di particolare, davvero, proprio come con Venere!

GIOVE. E allora perché vieni sulla terra?

MERCURIO. Per lasciar correre, come fanno gli uomini. Con la sua atmosfera densa e i suoi prati, è il pianeta dov'è più dolce atterrare e soggiornare, anche se, ovviamente, i suoi metalli, le sue essenze, i suoi esseri puzzano, ed è il solo pianeta che abbia l'odore di una bestia selvatica.

GIOVE. Guarda la tenda! Guarda, presto!

MERCURIO. La vedo. E la sua ombra.

GIOVE. No. Non ancora. È quanto di meno reale, di più impalpabile, la tenda può cogliere di lei. È l'ombra della sua ombra.

MERCURIO. Ma guarda, il profilo si divide in due! Erano due persone abbracciate! Non era del figlio di Giove che quell'ombra era incinta, ma semplicemente di suo marito. Perché è lui, o almeno lo spero per voi, quel gigante che si avvicina e l'abbraccia di nuovo!

GIOVE. Sì, è Anfitrione, l'unico uomo che lei ami.

MERCURIO. Capisco perché rinunciate alla vostra vista divina, Giove. Vedere l'ombra del marito abbracciare l'ombra della moglie è senz'altro meno duro che assistere ai loro giochi dal vivo!

GIOVE. Lei è là, Mercurio caro, felice, innamorata.

MERCURIO. E arrendevole, a quanto pare.

GIOVE. E ardente.

MERCURIO. E appagata, ci scommetterei.

GIOVE. E fedele.

MERCURIO. Fedele al marito, o fedele a se stessa, questo è il problema.

GIOVE. L'ombra è scomparsa. Alcmena forse si sdraia, languida, per abbandonarsi al canto di questi usignoli fin troppo felici!

MERCURIO. Non sfogate la vostra gelosia su quegli uccelli, Giove. Sapete benissimo che non hanno un ruolo rilevante nell'amore delle donne. Per piacere a loro vi siete travestito da toro, a volte, ma mai da usignolo. No, no, il solo pericolo è la presenza del marito di quella bella bionda!

GIOVE. Come sai che è bionda?

MERCURIO. È bionda, incarnato rosa, sempre illuminata dal sole sul viso, dall'aurora sul seno, e dalla notte profonda là dove occorre.

GIOVE. Stai inventando, o l'hai spiata?

MERCURIO. Un attimo fa, mentre faceva il bagno, ho semplicemente ripreso per un istante le mie pupille divine... Non arrabbiatevi. Eccomi di nuovo miope.

GIOVE. Menti! Te lo leggo in faccia. Tu la vedi! Anche sul viso di un dio c'è un riflesso che solo la fosforescenza di una donna può dare. Ti supplico! Che fa?

MERCURIO. La vedo, in effetti...

GIOVE. È sola?

MERCURIO. È china su Anfitrione disteso. Tiene fra le mani la sua testa e ride. La bacia, poi la lascia cadere tanto è appesantita da quel bacio! Eccola di fronte. Toh, mi ero sbagliato! È bionda dappertutto.

GIOVE. E suo marito?

MERCURIO. Scuro, tutto scuro, con i capezzoli color albicocca.

GIOVE. Voglio sapere cosa fa.

MERCURIO. La accarezza con una mano, come si accarezza un cavallo giovane... d'altra parte, è un famoso cavaliere.

GIOVE. E Alcmena?

MERCURIO. Se ne è andata a grandi passi. Ha preso un vaso d'oro e, tornando furtivamente, sta per versare sulla testa del marito dell'acqua fresca... Potete renderla ghiacciata, se volete.

GIOVE. Perché si arrabbi? Certo che no!

MERCURIO. E allora bollente.

GIOVE. Mi sembrerebbe di ustionare Alcmena, tanto l'amore di una moglie sa fare del marito una parte di se stessa.

MERCURIO. Ma insomma, che avete intenzione di fare con quella parte di Alcmena che non è di Anfitrione?

GIOVE. Stringerla, fecondarla!

MERCURIO. Ma come? La difficoltà maggiore con le donne oneste non è tanto sedurle, quanto portarle in un luogo chiuso. La loro virtù è fatta di porte mezze aperte.

GIOVE. Hai un piano?

MERCURIO. Umano o divino?

GIOVE. Qual è la differenza?

MERCURIO. Piano divino: rapirla in cielo, metterla distesa sulle nuvole e, dopo qualche momento, lasciarle riprendere il suo peso, incinta di un eroe.

GIOVE. E così mi perderei il momento migliore dell'amore di una donna.

MERCURIO. Ce n'è più d'uno? E quale sarebbe?

GIOVE. Quando acconsente.

MERCURIO. Allora utilizzate il metodo umano: entrare dalla porta, passare dal letto, uscire dalla finestra.

GIOVE. Ama solamente suo marito.

MERCURIO. Prendete la forma del marito.

GIOVE. Ma sta sempre lì. Non si muove mai da palazzo. A parte le tigri, non c'è nessuno di più pantofolaio dei condottieri a riposo.

MERCURIO. Allontanatelo. Esiste una ricetta per mandar via i condottieri da casa loro.

GIOVE. La guerra?

MERCURIO. Fate dichiarare una guerra contro Tebe.

GIOVE. Tebe è in pace con tutti i suoi nemici.

MERCURIO. Fatele dichiarare guerra da un paese amico... Sono favori che ci si fa, tra vicini... Ma non illudetevi... Noi siamo dèi... In nostra presenza l'avventura umana si fa più alta e stilizzata. Il destino, sulla terra, esige molto più da noi che dagli uomini... Dobbiamo, come minimo, accumulare miracoli e prodigi a migliaia per ottenere da Alcmena quell'istante che il più maldestro degli amanti mortali otterrebbe con delle smorfie... Fate spuntar fuori un soldato che annunci la guerra... Subito dopo, lanciate Anfitrione alla testa del suo esercito e, una volta partito, prendete la sua forma e prestate a me l'aspetto di Sosia, così che possa discretamente annunciare ad Alcmena che Anfitrione finge di partire, ma tornerà per passare la notte a palazzo... Ma ecco che già ci disturbano. Nascondiamoci... No, non create nessuna nube speciale, Giove! Quaggiù abbiamo a disposizione, per renderci invisibili ai creditori, ai gelosi, e anche alle preoccupazioni, questa grande impresa democratica — la sola che abbia avuto successo, tra l'altro — che si chiama notte.

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