Copertina
Autore Antonio Polito
Titolo Oltre il socialismo
SottotitoloPer un partito (liberal) democratico
EdizioneMarsilio, Venezia, 2007, formiche , pag. 174, cop.fle., dim. 12x17x1,3 cm , Isbn 978-88-317-9279-0
PrefazioneNicola Rossi, Francesco Giovazzi
LettoreRiccardo Terzi, 2007
Classe politica
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Indice

  7 Introduzione di Nicola Rossi


    OLTRE IL SOCIALISMO


 15 Per un'ideologia democratica

 25 Una ragione secolare
 28 Lo tsunami della libertà
 36 I dieci anni che sconvolsero l'Europa
 42 La crisi dell'uguaglianza
 47 L'accettazione dell'ineguaglianza

 63 Da comunisti a democratici

 71 Il socialismo è morto
 75 La fine dell'età dell'oro
 80 La svolta liberale
 87 L'esperimento craxiano

 93 Il modello sociale europeo

 96 La crisi interna del modello
103 Il nuovo «trilemma»
106 Crescita e lavoro al primo posto
108 Il tabù delle tasse
112 La flessibilità del lavoro
115 Una moderna giustizia sociale
118 Servizi pubblici
120 Quale modello
129 Dov'è l'Italia?

133 Un glossario per i democratici


165 Postfazione di Francesco Giavazzi

 

 

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Pagina 15

Per un'ideologia democratica



Per chi, e per che cosa si fa, il Partito Democratico? Si fa per dare un partito a Romano Prodi, il condottiero senza truppe? Si fa per dare un futuro da grande partito a due medi partiti italiani, burrascosamente partoriti dal caos della seconda repubblica? Si fa per allungare la carriera di leader politici come Fassino, Rutelli, D'Alema e Marini, per darne una nuova a Veltroni, o per trovare una nuova classe dirigente? Si fa per prendere più voti? Per tenere in piedi un governo che si regge su una maggioranza estremamente friabile composta di ben nove partiti più tot senatori sparsi, tutti dotati di potere di veto? Si fa per salvare il bipolarismo italiano dall'impotenza governante e dalla nostalgia del passato proporzionale? Per impedire la nascita del grande centro o della grande coalizione? Per offrire una novità purchessia all'elettorato? Per arrivare prima che Montezemolo, o chiunque altro, raccolga dalla polvere la bandiera della libertà caduta dalle mani di Berlusconi? Per anticipare la nascita di un grande partito di centrodestra, competitore potenzialmente imbattibile per l'attuale centrosinistra?

Non sono tra coloro che storcono il naso quando sentono questo elenco di ragioni, diciamo così contingenti, per spiegare la complessa e ardita operazione politica in cui si sono infilati Ds, Margherita, e alcuni volenterosi senza partito. Ognuna di queste, infatti, è di per sé una buona ragione, da sola meritevole di provarci, almeno per fondere ciò che oggi è ormai artificialmente diviso. La prima crisi del governo Prodi sta del resto lì a dimostrare l'insostenibile leggerezza dell'alleanza che governa il paese dopo le elezioni del 2006. Se il centrosinistra avesse avuto bisogno di un'ulteriore ragione, immediata e urgente, per dar vita al Partito Democratico, quella crisi l'ha fornita. Per tre ragioni: la prima è che l'evanescenza dei riformisti nei primi mesi di vita del governo, la loro assenza come soggetto politico unico e autorevole, ha consentito che dilagasse la demagogia e la piazza della sinistra radicale, provocando una rincorsa all'estremismo sgradita dall'elettorato (e da tutti i poteri forti che contano in Italia) e potenzialmente esplosiva in Parlamento, perché c'è sempre un senatore che per essere più estremista di tutti butta giù il governo. La seconda ragione è che se un'altra crisi, allo stato probabile e perfino prevedibile, portasse allo scioglimento anticipato del Parlamento, le elezioni coglierebbero il centrosinistra nella stessa improbabile formazione del 2006, e la sconfitta sarebbe anche più dolorosa di quanto sia certa. E infine, la lezione della crisi e del suo debole rattoppo confermano che il Partito Democratico urge anche per dare una strategia di lunga durata ai riformisti del centrosinistra. L'Unione, cioè l'alleanza con la sinistra comunista, non può essere e già non è più la prospettiva di governo e di modernizzazione del paese oltre questa legislatura. E se davvero il sogno è quello di un nuovo centrosinistra riformatore stile anni sessanta, dai moderati ai riformisti, sogno che la stampa attribuisce a Rutelli e D'Alema, allora è chiaro che serve un partito cui la forza elettorale dia le mani libere; che sia cioè libero di perseguire il suo progetto di modernizzazione con chi ci sta, e di ricostruire il suo sistema di alleanze per dare la priorità al progetto e non alla coalizione. La coalizione è il mezzo, il fine è il progetto. E se questa coalizione si dimostrerà inadatta al progetto – come credo – perché lo annacqua in un pericoloso sinistrismo e lo soffoca nel nodo scorsoio dell'alleanza con la sinistra comunista, nella prossima legislatura il centrosinistra dovrà presentarsi con la proposta di un'altra coalizione, proiettata a cercare un rapporto, nel paese e nel Parlamento, con quella componente moderata e riformatrice senza la quale non si governa l'Italia.

Come si vede, sono tre ottime ragioni per fare il Partito Democratico. Sarebbe questo il miglior modo anche per rinvigorire l'esanime bipolarismo all'italiana, visto che in nessun paese moderno il sistema dell'alternanza consegna alle estreme il potere di vita o di morte sui governi, e anzi in tutti i paesi moderni il bipolarismo si compone di due centri, uno più conservatore e uno più progressista, che si giocano la vittoria proprio sulla conquista della fascia mediana e fluttuante dell'elettorato, per spostarla dalla propria parte e dare così forza e consenso al proprio progetto politico. Tutti i sistemi elettorali di cui si favoleggia in Italia, da quello rigidamente maggioritario britannico, a quello a doppio turno francese, a quello del cancellierato tedesco, servono esattamente a questa bisogna: dare al partito di maggioranza relativa (che non supera quasi mai il 35% dei consensi) il potere di guidare il governo avendo i numeri in Parlamento. A chi dice che una riforma elettorale dell'attuale bipolarismo quantitativo e pigliatutto renderebbe meno utile il Partito Democratico, si può dunque facilmente rispondere che sarebbe proprio una qualsiasi delle tante nuove leggi elettorali possibili a renderlo indispensabile. Mentre, all'opposto, sarebbe il curioso sistema che scaturirebbe dal referendum a cristallizzare i due poli attuali e a seppellire dunque il Partito Democratico dentro la bara di cemento dell'Unione.

Ma, lo dico con sincerità, anche se tutte queste sono aspirazioni legittime, sensate e corrette, esse sono tutte maledettamente contingenti, legate cioè a una precisa fase storica; e se giustificano comunque un'operazione di alta cucina politica, con fusioni e ristrutturazioni dei partiti, di certo non bastano a rispondere a quell'aspirazione popolare, a sollecitare quella tensione ideale, a fornire quella sostanza culturale che sempre c'è – o ci dovrebbe essere – dietro la nascita di un nuovo partito, soprattutto se di partito nuovo si tratta. Insomma, costruire un partito nuovo dovrebbe essere un'esperienza paragonabile, per ambizione e progetto, alla fondazione del Partito Socialista, o della Democrazia Cristiana. Di partiti, cioè, che trovarono la loro ragion d'essere in una necessità storica, in una missione nazionale, e in un contesto internazionale; che nacquero perché gli italiani volevano che nascessero, e per fare una cosa che gli italiani chiedevano fosse fatta: il Partito Socialista per proteggere la nuova classe dei salariati agli albori della società industriale, e promuoverne il miglioramento delle condizioni sociali e politiche; la Democrazia Cristiana per ricostruire il paese sulle macerie del fascismo senza per questo diventare comunisti e perdere la libertà appena conquistata. Per che cosa nasce, invece, all'alba del ventunesimo secolo, il Partito Democratico?

La risposta più nobile e più alta che finora è provenuta dai leader che sostengono questo progetto, la risposta che pure non ne limita la portata alla politique politicienne, alle semplici convulsioni del sistema politico italiano, alle contingenti necessità di un centrosinistra in affanno alla prova del governo, la risposta migliore finora ascoltata è quella che dice: il Partito Democratico nasce per modernizzare l'Italia e metterla al passo delle altri grandi economie europee, perché il paese ha un bisogno disperato di cambiare se vuole reggere la nuova competizione internazionale. Nasce per ritrovare un posto all'Italia nel mondo che è cambiato, e per questo è implicitamente riformista, perché solo una grande forza di massa può pensare, fare e difendere le riforme di cui l'Italia ha bisogno. È una buona risposta. È tutto vero, ciò che afferma. Ed è perfettamente vero che l'Italia di oggi si trova in un passaggio epocale – la trasformazione in una moderna società postindustriale – in cui sta mettendo in gioco il suo destino, il suo benessere, la sua ricchezza, il suo posto tra le grandi democrazie del mondo, così come avvenne agli albori della civiltà industriale e alla fine della guerra. L'ingrediente del momento storico c'è, su questo non ci sono dubbi.

E però anche questa risposta alta e nobile non contiene in sé tutte le ragioni per cui si dà vita a un partito. In fin dei conti, la spinta riformista potrebbe venire anche dai partiti del centrosinistra moderato così come sono oggi; e, a dirla tutta, il rinnovamento in senso liberale del sistema economico del paese potrebbe essere garantito anche dal centrodestra, che anzi per natali dovrebbe avere più dimestichezza con la materia (seppure nella concreta esperienza italiana, affollato com'è di leghisti e postfascisti, il centrodestra ha avuto la sua grande occasione, durata cinque anni, e l'ha sostanzialmente mancata). Dunque il bisogno di riforme e il momento storico del paese non spiegano da soli perché mai ci sarebbe bisogno di un nuovo partito di centrosinistra.


Qualcun altro dice: è la democrazia italiana che ne ha bisogno. Come in tutte le società moderne, anche in Italia la democrazia è in una crisi profonda. Crisi della democrazia rappresentativa, perché i parlamenti sono sempre meno la sede vera della decisione, sempre meno rappresentano la nazione, sempre meno svolgono la funzione di protagonisti del dibattito pubblico informato. E, di conseguenza, crisi del partito politico, sempre più ridotto a massa di manovra di un leader, sempre più incapace di svolgere quella sintesi che vivificava la democrazia rappresentativa, tra masse e potere, tra popolo e legislatore, e sempre più macchina di potere gestita da apparati, dagli uomini in grigio, che tutto decidono in lunghe riunioni in stanze piene di fumo. Anche tutto questo è vero. È vero che le decisioni politiche che contano sono ormai in gran parte prese fuori dall'ambito classico della democrazia – lo stato-nazione – in centri di potere transnazionali e non sempre democratici, cioè non espressione diretta della volontà dei popoli: per esempio l'Unione Europea, il cui governo e il cui presidente non sono eletti; per esempio il Wto, dove sono dei funzionari e dei burocrati a trattare le condizioni del commercio globale; per esempio la Banca Mondiale, che può decidere la politica fiscale di un governo particolarmente indebitato (è capitato anche a noi ai tempi della crisi della lira). Lo stesso vale per le decisioni economiche, quelle che cambiano in meglio o peggio la vita di milioni di lavoratori, di milioni di consumatori, di milioni di azionisti, che sono assunte nei consigli di amministrazione di società di cui ormai è perfino impossibile individuare la base nazionale, o dagli amministratori di fondi pensione che muovono masse enormi di capitali e rispondono solo alle loro performance, alla remunerazione del capitale, ai profitti che riescono a realizzare. Del resto la stessa opinione pubblica, vera padrona della democrazia, si esprime sempre meno attraverso l'esercizio diretto del voto e della partecipazione politica e sempre più per il tramite di poteri irresponsabili (nel senso che non sono soggetti al giudizio del voto popolare ogni cinque anni) come il sistema dei media: giornali e televisioni che possono buttare giù un governo, metterlo in crisi virtuale appena eletto, condannare o incoronare un leader, e talvolta decidere anche su pace e guerra, come è successo quando la Cnn ci ha fatto vedere che cosa succedeva in Somalia o in Kosovo, e i governi si sono mossi perché la gente vedeva (in Ruanda e in Darfur no, lì si vedeva poco e così i governi hanno fatto poco). Questa moderna dittatura dell'opinione pubblica, della maggioranza virtuale, si esercita giorno per giorno attraverso strumenti difficilmente controllabili e altamente instabili come i sondaggi di opinione, e ciò ha consentito l'affermarsi di un'intera generazione di leader politici che cavalcano l'opinione e scavalcano i parlamenti e i partiti, e si reggono su un rapporto diretto col popolo, e quando sono particolarmente bravi sono anche in grado di influenzarlo a loro volta, di addormentarlo o di farlo marciare, facendo ricorso a incantesimi nuovi della politica, come la bellezza, il fascino, la ricchezza, la spregiudicatezza, la dinastia familiare (non pensate solo a Berlusconi, ma al fenomeno mediatico Blair o alla rapida e poco consistente ascesa di Ségolène Royal; e non vi dice niente questa tendenza alla dinasty che ha conquistato la Casa Bianca, dove i figli succedono ai padri e le mogli ambiscono a succedere ai mariti, così da rischiare di avere per più di un quarto di secolo solo presidenti che si chiamano Bush o Clinton?). Tutto ciò che viene ascritto, insomma, alla voce «populismo», nel dizionario della postdemocrazia.

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Pagina 27

La vera ragione per cui c'è davvero bisogno di un nuovo partito di centrosinistra è dunque proprio nella necessità di trovare una nuova ideologia, rinnovando e talvolta addirittura cestinando le vecchie ideologie dei vecchi partiti di centrosinistra: i ceppi storici da cui provengono, le idealità da cui sono nati, i valori che hanno propagandato sono superati, non più in grado di spiegare la realtà italiana e la sua stratificazione sociale, e per questo non sono neanche più abili a perseguire con successo gli obiettivi per cui sono stati concepiti nel secolo scorso. Mentre invece — ecco la straordinaria opportunità storica, ecco l'attualità del progetto — il governo delle società moderne, così profondamente mutate, reclama esattamente una nuova ideologia politica progressista, che si butti alle spalle senza troppi piagnistei le ideologie progressiste del passato, tutte ormai parziali, insufficienti, talvolta addirittura dannose. A un nuovo partito, insomma, serve un nuovo pensiero politico; e la fase che sta vivendo l'Europa è l' humus giusto perché quel nuovo pensiero nasca. Anzi, chiede che nasca.

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Pagina 35

Se si prescinde dunque da una visione italocentrica del problema, si può ragionevolmente sostenere che la sinistra liberale della libertà, la sinistra socialista dell'uguaglianza, e la sinistra cristiana della solidarietà sono state in Europa tre vie diverse e spesso complementari per perseguire l'obiettivo della liberazione dell'uomo, e che hanno concorso a pari titolo a fare del nostro continente, in due secoli di storia, il luogo dove più che in ogni altro angolo del mondo l'essere umano è stato messo in grado di godere contemporaneamente di alti livelli di libertà, di eguaglianza e di fraternità. In questo senso è perfettamente legittimo il sentimento di fierezza con cui tutte e tre queste tradizioni si avvicinano al nuovo partito. Si può infatti essere fieri di un passato quando si è consapevoli che da esso è in grado di scaturire un futuro, e per questo ci sono passati di cui non si può essere altrettanto fieri, perché non hanno generato futuro: il fascismo si è estinto per combustione in vent'anni, il comunismo per consunzione in settanta, ma gli ideali dell'89 sono ancora qui.


Fin qui abbiamo dunque spiegato perché questi tre figli della Rivoluzione francese possono abitare oggi nella stessa dimora. Ciò che ora dobbiamo provare a spiegare è perché essi, per la prima volta nella loro storia, debbono abitare nella stessa dimora se vogliono continuare a vivere, se vogliono continuare a produrre progresso, se vogliono perseguire con efficacia nelle mutate condizioni gli obiettivi stessi per cui sono nati. E, soprattutto, dobbiamo spiegare come possono farlo. La risposta a queste due domande – perché debbono e come possono – può servirci a configurare proprio quell'ideologia nuova che serve a un partito nuovo del centrosinistra, erede delle grandi finalità della Rivoluzione francese, e quindi perfettamente a suo agio nel campo progressista.

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Un partito nuovo del centrosinistra deve insomma accettare che una certa dose di ineguaglianza nella società non è solo inevitabile, ma anche che non è negativa in sé: «A patto che si realizzino queste tre condizioni: primo, che la società nel suo complesso divenga più ricca; secondo, che ci sia una rete di protezione efficiente per i molto poveri; terzo, che ciascuno, indipendentemente dalla classe, dalla razza, dalla religione o dal sesso cui appartenga, abbia davvero l'opportunità di salire lungo la scala sociale e di farsi strada con il suo talento. Un'economia dinamica, che cresce rapidamente, può apparire talvolta sgradevole, ma offre molte più speranze per tutti che una economia stagnante e ferma».

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Per esempio: oggi un efficiente e moderno sistema scolastico, che non lascia nessuno per strada, che dà a tutti una formazione culturale di base, ma che nello stesso tempo sa riconoscere e premiare il talento e l'eccellenza invece di pretendere che tutti gli studenti siano uguali, è uno strumento per combattere l'ineguaglianza molto più radicale di qualunque manovra fiscale. Questo è stato del resto il grande motore del salto di produttività che ha consentito agli Stati Uniti, a partire dal decennio clintoniano degli anni novanta, di avviare un'altra formidabile era di prosperità, e anche di riduzione delle disuguaglianze sociali. La percentuale di lavoratori americani dotati di laurea era il 20% negli anni ottanta ed è oltre il 30% oggi. E, d'altra parte, oggi è il livello di istruzione il fattore più importante nel creare ineguaglianza: «Negli Stati Uniti chi aveva un titolo di studio universitario quadriennale trent'anni fa mediamente guadagnava il 30% in più di chi non aveva frequentato l'università, mentre oggi guadagna il 90% in più: questo perché il sistema dell'istruzione non riesce più a sfornare il numero sufficiente di lavoratori dotati delle competenze richieste dal mercato. La conseguente scarsità di lavoratori con le qualifiche richieste è alla base dell'allargamento del divario salariale, che a sua volta costituisce il fondamento di una distribuzione più iniqua del reddito e della ricchezza».

Per combattere l'ineguaglianza, più che uno stato-balia oggi serve uno stato-istitutore; uno stato che ti metta in grado di fare ciò che è utile in un'economia moderna, piuttosto che proteggere il lavoro che faceva tuo padre. Questo comporta una gigantesca opera di ri-orientamento della spesa pubblica. La giustizia sociale – così era scritto nel manifesto chiamato «Third Way», firmato da Tony Blair e Gerard Schroeder alla fine degli anni novanta – non si misura più in quantità di spesa pubblica. Anzi, la spesa pubblica può essere usata per aggravare le ineguaglianze e le ingiustizie se, come accade in Italia, i suoi maggiori beneficiari sono i politici e le lobby, che ingrassano nell'abbondanza di denaro pubblico garantita dalla alta tassazione.

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Ecco perché un moderno partito di centrosinistra non può mettere al centro del suo programma l'uguaglianza, ma deve mettervi le tre condizioni che possono rendere più utile per la società e meno ingiusto per gli individui l'inevitabile grado di ineguaglianza:

1. l'accrescimento della ricchezza nazionale, quello che noi chiamiamo sviluppo, che si ottiene attraverso l'apertura di tutti i mercati alla concorrenza e il premio al merito nel settore pubblico;

2. una rete di protezione assicurata dallo Stato per i più deboli, che si ottiene destinando una quota della ricchezza nazionale a sostenere con la leva fiscale tutte le forme, anche non profit, di solidarietà;

3. un sistema che garantisca opportunità per tutti, o almeno per chiunque abbia voglia di provarci, che si ottiene attraverso la scrittura di un moderno welfare attivo, orientato al lavoro e alla formazione più che all'assistenza.

È questo il modo nuovo in cui oggi si può combattere l'ineguaglianza, ed effettivamente ridurla; e per far leva su quei valori di solidarietà e fraternità che, in forme molto più efficaci e umane dello Stato, oggi militano nel volontariato per proteggere e aiutare le fasce di vera e propria povertà che le moderne società competitive comunque non riescono ad assorbire. Da esse viene una forte spinta alla sussidiarietà, a lasciar fare cioè all'individuo e alla comunità tutto ciò che possono fare, una soluzione potenzialmente in grado di fornire risposte molto più moderne nella lotta all'emarginazione sociale di quante ne possano fornire le vecchie ricette della tradizione statalista e collettivista, che sempre più spesso finiscono per incanalare il denaro pubblico verso corporazioni, clientele e gruppi di interesse, piuttosto che verso chi ne ha davvero bisogno. Ricette che, in nome dell'eguaglianza, rendono ormai gli uomini solo più poveri, non più eguali.

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Pagina 114

In Italia, in particolare, sarebbe utile e necessario introdurre una forma di salario minimo. Man mano che la flessibilità aumenta, infatti, aumenta anche il rischio che si crei una classe di lavoratori sottopagati. E più che cercare di ridurre la flessibilità, magari attaccando il feticcio della legge Biagi, converrebbe integrarla e completarla partendo da questo problema. La legge Biagi, insieme alle riforme del mercato del lavoro introdotte dal centrosinistra alla fine degli anni novanta e che vanno sotto il nome di pacchetto Treu, seppure con limiti e con figure professionali che certamente vanno riviste e rivalutate alla luce dei cambiamenti, ha dato al paese l'opportunità di un forte aumento dell'occupazione, molto più forte della dinamica della crescita del Pil negli ultimi dieci anni. E a meno di sostenere che è meglio nessun lavoro piuttosto che un lavoro flessibile, una moderna forza di centrosinistra non dovrebbe scambiare la causa del problema con il modo di regolamentarlo e risolverlo. La causa del problema del lavoro precario o della disoccupazione è il basso tasso di crescita, non le leggi che tentano di regolare le nuove forme di lavoro che l'economia della conoscenza e dei servizi porta inevitabilmente – e fortunatamente – con sé.

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Quale modello



Alcuni suggeriscono soluzioni keynesiane — ricorda Giddens — sia per la riforma del modello sociale europeo sia per l'obiettivo di creare lavoro in Europa. Francois Hollande, per esempio, ha proposto un rafforzamento del governo economico in Europa, compresa un'opera di persuasione sulla Banca Centrale Europea perché aggiunga il parametro dell'occupazione al suo obiettivo principale di garantire la stabilità dei prezzi. Le tasse sull'impresa — dicono costoro — andrebbero standardizzate in tutta Europa e programmi di grandi lavori nei trasporti, nelle comunicazioni e nell'energia dovrebbero essere lanciati a livello europeo, finanziandoli attraverso gli strumenti del debito. Ma perché mai un approccio che è fallito ovunque a livello degli stati nazionali dovrebbe all'improvviso avere successo a un livello transnazionale? Alcuni progetti infrastrutturali di dimensione europea potrebbero essere utilmente considerati, particolarmente nell'area dell' information technology, ma non possono essere considerati come gli strumenti primari o unici di creazione di lavoro. Sebbene ci sia chi lo sostiene, il futuro del modello sociale europeo non deriverà da una scelta tra l'Europa keynesiana e l'Europa anglosassone deregolata. Il futuro del modello sociale europeo non consiste nel diventare semplicemente tutti anglosassoni. Certamente molti paesi possono apprendere da ciò che è stato raggiunto nella Gran Bretagna blairiana; dopotutto il Regno Unito ha oggi un alto tasso di occupazione, è l'unico paese tra i Quindici ad avere fortemente accresciuto il suo investimento nei servizi pubblici negli ultimi anni, e ha significativamente ridotto il suo tasso di povertà. Ma — ammettiamolo anche noi blairiani italiani — gli standard dei servizi pubblici sono ancor al di sotto delle best practice continentali e i livelli di ineguaglianza economica rimangono alti nonostante i progressi fatti.

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Pagina 130

Io penso che in Italia questo clima potenziale nell'opinione pubblica, questa consapevolezza della crisi italiana, ci sia. Credo anche che questa sia la ragione fondamentale per cui, seppure con una piccolissima maggioranza, gli italiani si sono rivolti al centrosinistra e gli hanno chiesto di governare. Perché erano coscienti che anche il tentativo più spregiudicato di far ripartire un'era di sviluppo, di crescita e di benessere proposto dalla destra di Berlusconi, era fallito; e perché hanno ritenuto – razionalmente – che il centrosinistra sia la parte politica più in grado di introdurre i cambiamenti necessari limitando al minimo i danni sociali di breve periodo che inevitabilmente ne derivano. Ma è meglio non farsi illusioni su questo: gli italiani chiedono oggi al centrosinistra esattamente la stessa cosa che avevano chiesto al centrodestra: riprendere la strada della crescita, che nel nostro paese si è interrotta negli ultimi dieci anni, e che se rimane interrotta ancora a lungo modificherà profondamente i nostri livelli di benessere, la sorte delle prossime generazioni, e la stessa collazione dell'Italia nella nuova divisione internazionale del lavoro.

L'occasione di fronte alla forze riformiste è quindi grande, e forse unica. Una ripresa c'è, e il contesto internazionale è favorevole. Un fallimento nel trasformare la ripresa in crescita duratura non sarebbe dunque facilmente recuperabile. Questa legislatura è la prova del fuoco, sia per la nascita di un grande partito del centrosinistra riformista, sia per la sua capacità di governare l'Italia in direzione del cambiamento. Per rendersi conto dell'ultima spiaggia su cui ci troviamo, basterebbe citare la conclusione del lavoro di Tony Giddens. Egli infatti stila una lista, a metà tra il serio e il faceto, degli ingredienti che da ogni singolo paese dovrebbero essere presi per comporre la ricetta perfetta di una nuova Europa più giusta e più dinamica. Nell'arca di Noè del nuovo Welfare State, secondo lui dovrebbero essere salvati:

• i livelli finlandesi di penetrazione delle nuove tecnologie,

• la produttività industriale dei tedeschi,

• i livelli svedesi di eguaglianza sociale,

• il tasso danese di occupazione

• la crescita economia irlandese,

• i livelli francesi di assistenza sanitaria,

• il reddito pro-capite del Lussemburgo,

• i livelli di istruzione norvegesi,

• il cosmopolitismo britannico,

• il tempo cipriota.


Inutile segnalare al lettore italiano che dell'Italia, in questa lista, non c'è niente da salvare. Alla fine dei cinque anni di governo del centrosinistra, sarebbe già molto se avessimo prodotto un ingrediente tutto nostro da proporre per una nuova Europa, capace di competere nella nuova economia globale.

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P come PACIFISMO. Il pacifismo è un movimento, il Partito Democratico è un partito. Un partito deve perseguire una politica di pace, e per farlo può capitargli di deludere il pacifismo, o anche di andare allo scontro con esso. La politica di un partito di governo non può essere nelle mani di nessun movimento, che per sua natura è parziale e transeunte. Per giunta, il pacifismo contiene in sé una contraddizione insanabile che non può essere esportata in un partito politico di governo: esso infatti rifiuta a prescindere l'uso della forza anche ove servisse a raggiungere la pace. Mentre una politica attiva per la pace richiede una cultura della difesa, e cioè la capacità di usare politicamente, economicamente, diplomaticamente e anche militarmente, quella forza che ancora è nel novero degli strumenti a disposizione dello stato-nazione per esercitare la sua influenza e realizzare i suoi interessi. È corretto sostenere che, anche in ragione dell'articolo 11 della Costituzione italiana, l'uso della forza per la risoluzione di controversie internazionali deve essere consentito solo quando è attuato nell'ambito delle organizzazioni multinazionali cui si aderisce, e cioè che la sovranità nel monopolio dell'uso della forza al di fuori del territorio nazionale deve essere condivisa. Ma non è corretto sostenere che essa debba o possa essere esclusa dal novero delle azioni politiche. L'opzione del ricorso allo strumento militare è infatti parte costituente della politica estera, la sua proiezione inevitabile, il modo in cui si afferma la credibilità di uno stato nei consessi internazionali. Rifiutarla a prescindere può essere la politica di uno stato che ha deciso di non giocare alcun ruolo nella politica internazionale, neanche all'interno di quel nuovo patto di pace che è l'Unione Europea. Se il Partito Democratico sceglie questa opzione neutralista per l'Italia, allora può incorporare il movimento pacifista e farsene braccio politico. Ma se intende tenere l'Italia nello sforzo – contraddittorio e talvolta inefficace, ma non per questo meno necessario – della comunità delle democrazie per la pace e la stabilità di un mondo che è diventato estremamente pericoloso, allora deve distinguersi con nettezza dal movimento pacifista. Distinguersi vuol dire non parteciparvi. Tenerne conto, ascoltarlo, valutarne l'impatto sull'opinione pubblica; ma sentirsi altro, e dichiarare di sentirsi altro. Quanto meno per non assistere all'ipocrisia di leader riformisti che pretendono di sfilare nei cortei pacifisti tentando di convincerli che mandare i soldati in Afghanistan o in Libano sia compatibile con l'obiettivo di chi vorrebbe, semplicemente, sciogliere le forze armate.

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V come VIRILISMO. La scarsa considerazione in cui le donne vengono tenute nella vita politica italiana deriva da due fattori. Il primo è la troppo bassa partecipazione delle donne al mercato del lavoro e dunque alla produzione della ricchezza nazionale. La new economy è stata, dove ha avuto più successo, fondamentalmente basata sull'irruzione delle donne nel mercato, anche grazie alla particolare attitudine alla flessibilità – degli orari, delle mansioni, del lavoro – del genere femminile. Noi invece abbiamo la più bassa partecipazione di mano d'opera femminile allo sforzo di produzione nazionale. Più le donne stanno a casa, confinate in mansioni e funzioni antiche, meno peseranno nei luoghi che contano, dal Parlamento ai consigli di amministrazione. Ma c'è un secondo fattore che conta: il machismo della cultura nazionale. La quantità di ore che impegnano le donne in lavori domestici, o per la gestione della famiglia, è in Italia troppo elevata a causa di una permanente arretratezza nei rapporti uomo-donna. La lettera aperta di Veronica Berlusconi al marito – anche se in questo caso non parliamo certo di una casalinga – è stato uno dei manifesti per l'emancipazione femminile più importanti degli ultimi anni. Perché se l'attitudine a fare il maschio e a umiliare i sentimenti e la dignità della donna è considerata da noi un valore tale da potere essere esibito in pubblico, da parte di un uomo pubblico, e se questa esibizione gli porta consensi invece che dissensi e indignazione, allora vuol dire che le donne nella nostra società sono ancora gravemente e anacronisticamente disprezzate perfino nella loro natura più antica, quella di mogli e madri.

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