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| << | < | > | >> |Indice11 Presentazione Patrizia Calefato, Susan Petrilli 15 Introduzione. Dare voce a Barthes Augusto Ponzio La luce, l'ascolto 47 La luce del Sud-ovest: abbozzo di un'amichevole analisi Gianfranco Marrone 73 Roland Barthes: l'ascolto Augusto Ponzio La lingua, il linguaggio 93 Il Saussure di Barthes Cristina Vallini 108 La "lezione" di Roland Barthes Romeo Galassi 120 Barthes linguista Cosimo Caputo La significanza, gli oggetti 137 Il soprannaturale e il quotidiano negli oggetti. Barthes e la semiotica degli oggetti Alvise Mattozzi 151 Opzione antireferenziale, descrizione, effetto di reale nella semiologia di Roland Barthes "Surtout il faut tuer le référent!" Paolo Bertetti 162 La semiotica "bucata". Il ritmo della semiosi nella prospettiva della significanza Andrea Velardi La musica, la voce 187 Roland Barthes or the birth of semiotics from the spirit of music Eero Tarasti 199 La tessitura vocale Ida Maria Roberta Rodriquez Il corpo, lo sguardo 213 Le "Corps-Texte" chez Barthes Réda Bensmaïa 224 La scienza — impossibile? — dell'unicità Maria Solimini 232 Barthes y el sentido. Anàlisis estructural y enunciación discursiva Félix Ríos 244 Lo sguardo, il pianto e l'altro: Roland Barthes e il linguaggio segnico dell'occhio Carlo A. Augieri Il teatro, la narrazione 263 La catégorie universelle sous les espèces de laquelle le monde est vu Marco Consolini 280 Teatro e Piacere Loreta de Stasio Il presente, la misura 303 La ripetizione lacerante: il ritmo della tessitura Julia Ponzio 316 Inattualità di Barthes. Note di lavoro per una Mathesis Singularis Arturo Martone 323 Figure dell'interstizio Piero Ricci I segni, le scienze umane 335 Il contributo di Roland Barthes alla psicologia culturale e discorsiva. Lo strizza-segni Giuseppe Mininni 349 Barthes's sign theory in Anglophone media and cultural studies Paul Cobley 373 Barthes from an inter-semiotic and socio-semiotic perspective Jeff Bernard Il mito, la moda 401 Dei miti e delle mode Patrizia Calefato 412 Roland Barthes: simulation, fantasme Bernard Comment 429 Gli occhiali scuri della pubblicità: i miti visivi Maria Rosaria Dagostino 442 Disquisitions epistemologiques pour un cheminement dynamique autour de la semiotique vestimentaire Jean-Claude Mbarga Il piacere, il testo 459 Fenomenologia dell'erotico Susan Petrilli 476 El placer textual José María Paz Gago 487 Frammenti di discorso amoroso fra squilli e sMS: "Il guazzabuglio del linguaggio" Francesca De Ruggieri La lettura, l'interpretazione 515 Aimer/Interpréter Renaud Pasquier 527 Due citazioni d'autore a proposito di Roland Barthes Arianna De Luca 537 Polisemia e traduzione in Roland Barthes Ida Claudia Romanazzi L'accadimento, la scrittura letteraria 549 Le "C'est ça!" de Barthes Marielle Macé 568 Lo scrivere e il niente, Aziyadé di Pierre Loti Manuela Messina 577 Barthes et les enjeux de l'écriture intransitive Nicolas Bonnet 594 À quoi bon? Les pouvoirs de la littérature selon Barthes Alexandre Gefen Il romanzo, l'eccedente 607 Piani di narrazioni possibili. Scrittura d'autore: l'ultimo Barthes Matteo Majorano 625 Barthes e il romanzesco: il seminario Proust e la fotografia Isabella Pezzini La parola, la pittura 647 La scrittura dipinta di Roland Barthes Luciano Ponzio 659 Pop-Barthes Lucio Spaziante 669 Bibliografia |
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Patrizia Calefato, Susan Petrilli
C'è uno scritto di Barthes del 1974 che si intitola Al seminario (Barthes 1984) dedicato ai seminari che egli teneva settimanalmente in quel periodo presso l'École Pratique des Haute Études. L'intitolazione "Al seminario" ha, spiega Barthes, una triplice valenza: è un locativo, un elogio, una dedica. Il seminario è lo spazio ristretto in cui un piccolo gruppo di studenti e un docente s'incontrano; è l'oggetto di una sorta di leggero delirio amoroso; è infine quasi un nome proprio, cui Barthes destina una scrittura affettuosa. Inadeguata è la definizione di "insegnamento" se parliamo del seminario, dice Barthes. Tra le pratiche educative possibili, che egli raggruppa sotto le voci "insegnamento", "apprendistato" e "attenzione materna", quella del seminario non trasmette infatti alcun sapere, anzi, scrive Barthes, "l'insegnamento è frustrato". O qualcuno lavora, ricerca, produce, riunisce, scrive di fronte agli altri; oppure tutti si incitano, si chiamano, mettono in circolazione l'oggetto da produrre, il procedimento da organizzare, che si passano così di mano in mano, sospesi al filo del desiderio, come l'anello nel gioco che da esso prende il nome (p. 348). Innamorato folle di questo metodo educativo, sembra dunque davvero Barthes quando sostiene che ciò che nel seminario è messo in discussione è il rapporto tra il sapere e il corpo, perché nel seminario il sapere non appartiene all'Insegnante-Esaminatore vivendo e morendo con lui, ma circola, passa tra i corpi secondo un'economia del desiderio e della complicità di linguaggio. Lo spazio del seminario è nell'ordine del romanzesco, che Barthes distingue dal romanzo in quanto ne rappresenta l'esplosione, ciò che libera quei desideri mobili e sottili che il romanzo può solo, in un certo senso, cristallizzare. Come dimensione romanzesca, per Barthes il seminario è raffigurabile nella metafora spaziale del falansterio, il luogo utopico del Nuovo mondo di Fourier che del fitto intreccio dei rapporti umani esalta proprio i principi intensivi. In quanto falansterio, il seminario lavora sulla produzione delle differenze. La differenza non è il conflitto. Nei piccoli spazi intellettuali il conflitto non è altro che lo scenario realistico, la parodia grossolana della differenza, una fantasmagoria (p. 345). Sembrano forse lontane dal nostro tempo queste riflessioni di Barthes, che vivono dell'atmosfera degli anni in cui, sotto l'onda lunga del Maggio francese e dei movimenti studenteschi, i luoghi della trasmissione del sapere – scuola, università, centri di ricerca – erano attraversati in Europa da pratiche innovative, da sperimentazioni anche estemporanee, da una voglia di mettere in gioco i ruoli predeterminati come quelli di "professore" e di "studente", di creare relazioni orizzontali e luoghi, come appunto i seminari, in cui il sapere "sapesse", nel senso di "aver sapore", anche di corpi e di affetti. Quanto diversa è l'idea di "educazione" e "insegnamento" che prevale oggi! Il modello della scuola e dell'università azienda annega le differenze possibili, pretende di risolvere i conflitti introducendo forme di comunicazione ispirate al marketing e alla competizione del "libero mercato", irrorate di "giochi comunicativi" buoni per tutti e per nessuno. La ricchezza del seminario è quella della differenza, dice Barthes. Non è una formula fissa calabile in ogni tempo e in ogni realta: piuttosto – come il romanzesco, appunto – il seminario è una tensione, un metodo per tornare volta a volta a una zona del senso più originale, unica e differente, libera dallo stereotipo e allo stesso tempo compromessa dall'intercorporeità del sapere. Di questa tensione restano per fortuna tracce in pratiche ed esperienze di conoscenza e trasmissione dei saperi che tentano di sottrarsi alla riproduzione insensata e fissa di ruoli, discorsi, relazioni. Abbiamo provato, nel senso di tentato, esperito, avvertito, vissuto, qualcosa del genere nel convegno dedicato a Barthes: "Barthes per Roland Barthes". Il suo titolo rendeva omaggio all'autobiografia per aforismi, Barthes di Roland Barthes, che egli scrisse nel 1975, cinque anni prima di perdere la vita improvvisamente, in modo "ottuso", per un incidente. Un convegno non è un seminario in senso stretto, ma del seminario nel senso di Barthes può tentare di dipanare i motivi profondi. Il convegno, svoltosi nell'Università di Bari dal 16 al 19 febbraio 2005, a venticinque anni della sua morte, è stata l'occasione per "dare voce a Barthes". A partire da esso gli autori di questo volume hanno provato a rendere scrittura, a rendere alla scrittura, la voce ritrovata, mantenendo del convegno il carattere effettivo di luogo di ritrovo, di incontro, di metodo, nel senso etimologico, per un attraversamento del senso, per muovere con Roland Barthes alle sorgenti del senso. Un muovere insieme che è, proprio grazie al distanziamento del riscrivere, confronto dialogico di differenze. Ma che cosa vuol dire differenza? Che ogni relazione, a poco a poco (ci vuole del tempo), diventa originale: ritrova l'originalità dei corpi presi uno ad uno, spezza la riproduzione dei ruoli, la ripetizione dei discorsi, smantella qualsiasi esibizione di prestigio, di rivalità (ib.). Un convegno-seminario dunque, di cui qui viene mantenuto il carattere multilingue: per le lingue coinvolte (italiano, francese, spagnolo, inglese), per i molteplici linguaggi attivati e tematizzati, messi all'opera, dovendosi dialogare con Barthes. Il plurilinguismo non ha nulla a che vedere, come si sottolinea in Barthes di Roland Barthes, con una specie di "vago uso turistico" degli idiomi e dei linguaggi. Il plurilinguismo, la pluridiscorsività e il plurilogismo, tutt'altro che espressione di ostentata padronanza e di disinvolta sicurezza, risentono semmai, come dice Barthes di se stesso, di una sorta di "blocco": incertezza, imbarazzo e discrezione nei confronti delle lingue straniere, "pessimismo costante verso la traduzione, smarrimento davanti alle domande dei traduttori che sembrano ignorare quello che io credo sia il senso d'una parola: la connotazione". Questo "blocco" è "l'inverso d'un amore: quello della lingua materna (la lingua delle donne)", che "non è un amore nazionale", e che è collegato col non credere nella "priorità di nessuna lingua", col non sentirsi mai "in condizione di sicurezza" nella propria lingua. L'opera di Barthes si sottrae programmaticamente alla sua riducibilità a oggetto. Perciò il titolo Con Roland Barthes. Alle sorgenti del senso a questo libro che intende dare voce a Roland Barthes e, con lui, in fin dei conti, a ciascuno di noi. | << | < | > | >> |Pagina 47La luce del Sud-ovest: abbozzo di un'amichevole analisi
Gianfranco Marrone
la sola pratica che fonda la teoria del testo è il testo stesso. (Barthes 1973) 1. Vedere il linguaggio In quale posizione vogliamo o sappiamo collocarci per rileggere e ripensare Roland Barthes? che ruolo riveste questo intellettuale atipico nella cultura e nella ricerca scientifica contemporanee? che posto occupa, quali strumenti concettuali, quali modelli interpretativi può offrire? esistono oggi le condizioni per leggere Barthes, per iscriverlo fra gli autori che ci permettono di comprendere, se non i grandi processi di trasformazione geopolitica, la nostra vita quotidiana e sociale, i nostri stili di vita, i gusti, i sistemi di valori, insomma i linguaggi entro cui viviamo e comunichiamo, grazie ai quali diamo senso e importanza al mondo, agli uomini, alle cose? Per rispondere a queste domande, bisogna rilevare come l' inattualità di Barthes sia costitutiva del suo pensiero e del suo stile di ricerca, del modo in cui egli dirigeva la sua interrogazione nei confronti del mondo, della società e della cultura. Per Barthes, il compito dell'intellettuale è quello di volgere verso il mondo uno sguardo laterale, a partire da una domanda del tipo: e se le cose stessero in un altro modo? se provassimo a rovesciare le prospettive? se cercassimo di trovare nuovi punti di vista a partire da cui leggere e interpretare il mondo? In fondo, è quella che egli chiamava la sua malattia, vedere il linguaggio: non tanto squarciare veli per cogliere realtà, quanto cogliere il mondo umano e sociale attraverso quella sua pellicola essenziale che sono i sistemi e i processi di significazione. Perciò, al di là dei ruoli istituzionali e delle configurazioni accademiche, delle etichette di comodo e delle professioni di fede, il lavoro di Barthes è sempre stato costitutivamente semiotico. La semiotica, diceva, non può che essere un atteggiamento critico verso la cultura dominante; e, viceversa, ogni atteggiamento critico verso gli assetti culturali non può che essere intrinsecamente semiotico. Là dove lo sguardo ingenuo e semplificatore, fosse anche quello dello scienziato e del filosofo, vede e intende fatti, il critico della cultura percepisce segni, e dunque sensi, linguaggi. Alla domanda: "a che cosa serve?", Barthes replicava: "chiedetemi piuttosto che cosa significa?". Ma se la domanda diveniva "che cosa significa?", la sua replica era più precisa:
ricordatevi innanzitutto il fatto che tale cosa significhi, che si tratta di
materia significante, prodotta dall'uomo nell'intento molto preciso di cogliere
il fremito del senso nel mondo, dando al contempo senso a se stesso,
autocostruendosi una qualche forma di identità e, prima ancora, di soggettività.
2. Ritorno ai testi (non alle opere) Da qui la necessità di un ritorno ai testi di Barthes. Non si tratta di ritrovare una letteralità barthesiana, una verità definitiva del suo pensiero inscritta, costretta, rinchiusa, protetta nei suoi scritti (posa che potremmo definire, semplificando, filologica). E non si tratta nemmeno di volersi esercitare in una nuova, ulteriore interpretazione, ossia in un'ennesima attribuzione di senso agli scritti di Barthes (posa che potremmo chiamare, semplificando, ermeneutica). Un ritorno ai testi di Barthes vuol dire tutt'altro: è la necessità di far risuonare – jouer, ma anche articolare, intrecciare – i suoi prodotti testuali. Più che alla messa in opera di una filologia o un'ermeneutica come pratiche testuali tradizionali, occorre pensare semmai una loro felice mescolanza. Come sostiene Rastier, è bene prospettare una filologia dotata di semantica e un'ermeneutica interessata alla materialità linguistica. Occorre porre in primo piano i testi di Barthes piuttosto che l'uomo, il prodotto storico, il suo ruolo sociale e intellettuale e simili, ossia lavorare su testi attestati, costruiti a prescindere dalle analisi che se ne possono fare, e che sono per questo la nostra sola empiria – nonché, come è noto, la nostra salvezza. Per riprendere una celebre dicotomia barthesiana (Barthes 1970a), tratta dunque non un ritorno alle opere di Barthes, ma semmai ai suoi testi. Ciò, fra l'altro, non implica alcuna volontà di celebrazione, per collocarlo in un luogo dove non può più dare fastidio. Nessuna volontà oggettivante, nessun desiderio di pensare i suoi testi come "cose che stanno in uno scaffale". Semmai, molto diversamente, vale la pena di considerarli come pratiche significanti che si riattivano in quella ulteriore pratica significante che è la lettura – la lettura, precisiamo pure, nel senso semiotico dell'analisi del testo, che non è scolastica explication du texte o militante demistificazione critica, ma esplicitazione metalinguistica dei diversi livelli di senso presenti nel discorso, ricostruzione delle argomentazioni a esso sottese, messa in evidenza dei paradigmi dispiegati nel sintagma. Ossia – come dice Ricoeur – spiegazione che aumenta la comprensione. | << | < | > | >> |Pagina 224La scienza – impossibile? – dell'unicità
Maria Solimini
Prenderò in considerazione alcuni punti del testo di Barthes, La camera chiara (1980a). È un testo molto amato al cui interno si apre il racconto che Barthes fa del ritrovamento della figura di sua madre nella "fotografia del giardino d'inverno". Questo racconto del ritrovamento si sottrae al rapporto di somiglianza fra la fotografia e sua madre qual era nella realtà di una vita vissuta nella cronologia degli eventi, nella fattualità e datità di vita determinata. Non è la somiglianza delle immagini riprodotte nella fotografia con la realtà di fatto vissuta dal soggetto fotografato a regolare il ritrovamento della figura della madre di Barthes nella fotografia del giardino d'inverno. Il ritrovamento non dipende dal rapporto di somiglianza che si istituisce tra le foto e la madre qual era in realtà, non coincide con un riconoscimento della madre che dipende dal rapporto di somiglianza tra l'immagine fotografica e l'oggetto fotografato in quanto referente già definito. Barthes guarda le fotografie di sua madre sfogliando l'album per sceglierne una più somigliante, ma non la ritrova nella somiglianza a sua madre dell'immagine fotografata. L'analisi del ritrovamento è un discorso che si sofferma su di una analisi critica del rapporto di somiglianza e di riconoscimento, e che spiega il senso di quel ritrovamento della figura di sua madre. È un testo difficile in cui Barthes scopre i fondamenti di quella scienza umana che è la "scienza impossibile dell'essere unico" (p. 72). Non si tratta del ricordo di sua madre. Non si tratta di un ricordo che coincide con il racconto della vita di sua madre; si tratta, invece, della scoperta di una scienza umana che dica l'alterità dell'altro, la scienza che, appunto, nel senso di Barthes è la scienza impossibile dell'essere unico. Questa scienza non opera e non ritrova l'altro nelle possibilità definite e definibili dell'essere, in quelle possibilità definibili, pensabili come possibilità dell'essere umano. Ma questa scienza umana, cui fa riferimento Barthes, è quella nella quale si iscrive il paradigma della impossibilità dell'altro. La fenomenologia husserliana forse non ci aiuta a comprendere bene che cosa Barthes vuol dire quando parla della "scienza impossibile dell'essere unico". Barthes adopera il metodo fenomenologíco e si considera un fenomenologo, un semiologo, un semiotico, uno strutturalista. Ma il metodo di scrittura di Barthes non è riducibile a nessuno di questi sistemi quando si riferisce alla "scienza impossibile dell'essere unico", quella scienza che scopre attraverso il ritrovamento della figura di sua madre nella fotografia del giardino d'inverno. Queste considerazioni vogliono riprendere, nel contesto della scrittura di Barthes, una strada interpretativa. Ma "interpretativa" non rende bene conto del percorso di Barthes, di quel percorso di interpretazione non discorsiva, in contrasto con qualsiasi altro applicabile alla fotografia, che, come dice Barthes, è silenziosa, è pensosa. Questo tema della pensosità della fotografia mette in evidenza come la fotografia si sottragga all'iscrizione dentro una struttura d'intenzionalità, che tende a comprendere al di là dell'incontro dei corpi, al di là dell'incontro della vita. | << | < | > | >> |Pagina 459Fenomenologia dell'erotico
Susan Petrilli
Desidero iniziare questa mia relazione ricordando due fascicoli usciti
diversi anni fa in successione in «Lectures», la rivista diretta da Vito
Carofiglio insieme a Ruggero Campagnoni, Yves Versant e Augusto Ponzio,
intitolati il primo
Roland Barthes
(6, 1980) e il secondo (7-8, 1981), quasi a proseguimento del primo,
Erotologia. Barthes – erotologia:
collegamento casuale? Ci sembra di no.
1. L'unicità dell'amore Il discorso d'amore è centrale nella riflessione di Roland Barthes. Quale amore? Quello erotico dei Frammenti di un discorso amoroso (1977a), quello filiale de La camera chiara (1980a), quello di Barthes di Roland Barthes (1975a), o quello dell'amicizia: l'acolutia, il corteo di amici, conforto del vivere, di cui Barthes parla in un saggio del 1978 intitolato L'immagine. Quale di questi? L'Eros o l'Agape? L'amore passionale o l'amore razionale? Il punto centrale della questione è che l'amore è unico. È questa la tesi di Jean-Luc Marion, è questa la tesi di Emmanuel Lévinas, è questa la tesi di Roland Barthes. Ciò in due sensi. L'amore è sempre unico, non solo quello "erotico". ma anche quello materno: dovesse avere una madre dieci figli, ogni figlio è da lei amato come figlio unico, e a nulla vale la consolazione della perdita di uno con l'argomentazione che ce ne sono altri nove, come a nulla vale la consolazione per la perdita della donna amata con l'argomento che ce ne sono tante altre. Ciò vale anche per l'amore di Dio. Ogni individuo è amato da Dio Padre come figlio unico. D'altra parte, sia detto tra parentesi, se Dio è amore, Dio è unico: cioè, come dice Lévinas, il monoteismo non è una caratterizzazione aritmetica. L'amore in quanto rivolto a un "unico al mondo" è, in questo senso, sempre unico. Ma l'amore è unico anche in un altro senso. E cioè nel senso che le varie suddivisioni, come quella tra Agape ed Eros, filiale, materno, passionale, di amicizia, coniugale ecc., sono suddivisioni che non toccano l'unità e l'unicità dell'amore. A dividere è la lingua, l'ordine del discorso. A tale proposito in Lezione (1978a) Roland Barthes mostra come la lingua ci costringa a dire, a definire, a distinguere i rapporti: due persone si frequentano assiduamente, e a un certo punto è come se la lingua intervenisse per imporre a ciascuno di nominare il rapporto, di dire qual è fra quelli previsti nella semantica e nel lessico vigente, di dire qual è, e di comportarsi di conseguenza. Come ben sapeva Claude Lévi-Strauss nello studio sui sistemi di parentela, il sistema degli appellativi è al tempo stesso un sistema di atteggiamenti. La lingua, dice Barthes, è fascista non perché impedisca di dire ma, al contrario, perché costringe a dire, a nominare, a stabilire etichette, e ad assumersi di conseguenza la responsabilità del relativo comportamento e del relativo giudizio positivo o negativo che la società prevede per le relazioni normali e per quelle anormali, per la regolarità e per la perversione.
Le varie denominazioni dell'amore sono collegate con la
categoria dell'identità, a cui l'ordine del discorso e la lingua
stessa tengono moltissimo. Nominazione significa identificazione. E, ogni volta
che un'identità viene assunta, più di una alterna viene sacrificata, alterità
propria e alterna altrui. I vari nomi dell'amore, le varie sue identità, sono
altrettanti sacrifici dell'alterità.
2. L'atopia di chi ama Barare con la lingua, non farsi trovare mai là dove si è localizzati, individuati, cercati: è questa l'indicazione di Roland Barthes in Lezione. Ma ciò è possibile fino a un certo punto e certamente non basta la volontà, la determinazione, l'intenzione. Non è nelle mani del soggetto, in quanto soggetto, in quanto centro decisionale, questa possibilità. Si tratta, invece, di qualcosa che accade e accade in maniera impersonale, come il fatto che piove. Accade a colui che, dice Barthes, non scrive più in maniera transitiva, come soggetto attivo, come scrivente, come autore-autorità; che non ha più, direbbe Michail Bachtin, una parola diretta, oggettiva, sua; che non scrive più a nome proprio. La possibilità di sottrarsi alla lingua accade quando la scrittura non è più transitiva, assume la forma di scrittura intransitiva, non è scrittura di scrivente – il giornalista, il saggista, il pubblicista –, ma scrittura di scrittore. Scrittore, dice Bachtin, è colui che indossa la veste del tacere; e il tacere è l'unico modo per sottrarsi alla lingua fascista, che, fatto silenzio, vuole sentirci, vuole definire, determinare, distinguere. Lo scrittore, dunque, come capace di tacere, e dunque di eccedenza, di spostamento. Ma anche l'innamorato, chi ama, lo è; e anche colui che ama, poiché ama indipendentemente da una scelta, da qualsiasi deliberazione, dalla propria volontà, riceve, meglio si potrebbe dire, subisce, la grazia dell'amore. Non è casuale che "innamorato" suona come al passivo, "essere innamorato". Amare è, direbbe Lévinas, un movimento senza ritorno, senza guadagno, movimento a senso unico, in cui il soggetto come ente attivo si trasforma, invece, in soggetto nel senso passivo del termine, in essere soggetto. Ci si ritrova scrittori come ci si ritrova innamorati. | << | < | > | >> |Pagina 607Piani di narrazioni possibili. Scrittura d'autore: l'ultimo Barthes
Matteo Majorano
Ogni volta che studiosi di diversa estrazione ritornano a discutere e ad approfondire l'opera di Barthes, il dibattito scivola, in maniera inevitabile, sulla sua figura e, di qui, sul suo rapporto tra le sue "due anime": al critico di successo, passato indenne da un fase "scientifico-strutturalista" a una "emozionale-asistematica", in definitiva, in maniera implicita, o a mezza voce, si rimprovera un "fallimento finale indebito", quello artistico, quasi che un romanzo fosse l'esito necessario del suo percorso personale. E questo, forse, tra i tanti aspetti della sua presenza nel mondo filosofico-letterario, è quello che costituisce la sua estrema singolarità. Un "vincente fallito", che aveva realizzato tutto tranne l'essenziale, l'indispensabile conclusione artistica. Attraverso questa logica mai riconosciuta in modo ufficiale, il nome di questo "personaggio" è diventato il paradigma di un modo di essere e di partecipare al mondo in una posizione di "scacco trionfante": l'ingegnere destrutturante delle ideologie, capace di smontare i motori mentali anche più complessi, sceglie di compiere in sé una parabola paradossale e rischiosa, quando decide di trasformarsi in cavia di se stesso, proponendosi, a partire dalla sua opera, come nuova mitologia, quella della negazione della compiutezza, del neutro ascetico, di un'assenza che è quasi una presenza, già costruita e, quindi, da analizzare, piuttosto che da offrire al consumo. Se si vuole provare a capire l'eccezionale operazione che questo autore "imperfetto" ha compiuto, si deve prender atto del fatto che, partendo dalla critica delle mitologie altrui, nonostante le sue erranze di metodo e di sistema, e anche proprio per queste, ha ottenuto il risultato di elaborare il proprio mito di intellettuale "inafferrabile", che travalica gli spazi culturali in cui si addentra, e che in questo "allargamento" incontrollabile e continuo, procede volontariamente, al contrario della norma e dell'ortodossia, dalla determinatezza verso l'indeterminatezza, e in essa sola trova la sua consistenza e la sua pacificazione. In fin dei conti, è questo l'effetto terminale e contraddittorio della critica disincantata e senza concessioni da lui condotta sui materiali tradizionali, testuali e ideologici, dei segni e dei miti. Barthes diviene, in tal modo, l'esponente irripetibile ed esemplare dell'incostanza della riflessione e dell'oscillazione anomala del pensiero, quando questo non si pone più come sistema filosofico complessivo, sebbene di sistemi si interessi. L'incostanza organizzata e l'evanescenza penetrante diventano, nella loro debolezza sintomatica, la radice di una nuova identità intellettuale forte e, soprattutto, aperta alla creazione artistica. Il personaggio assume i connotati del neutro, di questa condizione tanto cercata e sofferta, e in sé finalmente raggiunta. La dialettica degli opposti e la pretesa di una sintesi conciliatrice – procedure che avevano condizionato per decenni, nelle sue fondamenta logiche, il piccolo mondo che si affacciava su rue des Ecoles – diventano strumenti obsoleti, superati da una pratica di pensiero zigzagante, priva di regole generali e assiomatiche, ma, alla prova dei fatti, molto più vitale e produttiva. L'incostanza e l'eclettismo di Barthes diventano le ragioni più solide del suo "strano" successo, l'insospettabile epilogo di un percorso dapprima ortodosso: a lui si deve l'estensione delle potenzialità previste per il pensiero critico, la modifica del significato delle scritture, l'affrancamento dal debito filosofico, in cambio di una riflessione materiale, e perciò, necessariamente, testuale. Nell'accettazione come nel rifiuto della tradizione occidentale, nella sua contaminazione con quella orientale, la cicatrice lasciata dal "signore dei segni" sulla cultura, non solo europea, è profonda, indelebile nei suoi effetti. Tuttavia, se ci si fermasse a questa constatazione, si perderebbe la parte più profonda della sua esperienza. L'eredità più cospicua che è stata consegnata a chi ha seguito i suoi percorsi, quella che ci riguarda in quanto critici e in quanto amanti della letteratura, non consiste tanto nel riconoscimento della dimensione più "duratura" e scientifica dei suoi lavori, quanto nell'analisi della "zona grigia" della sua scrittura, quella che permette di rispondere a una domanda semplice e, proprio per questo, essenziale.
Quello che Barthes ci ha lasciato, in una qualche sua pagina, in un suo sia
pur minuscolo frammento, è arte? Insomma, oltre la macchina dell'analisi
testuale, l'osannato esponente del Collège de France ha mai offerto qualcosa di
suo alla letteratura, ha mai scritto un testo in cui si possa riconoscere la
luce di una scrittura narrativa, se non la luce dell'arte?
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