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| << | < | > | >> |Indice1. Almeno un ceffone 9 2. La Esquina del Martillo Alegre 27 3. Voleva diventare scrittrice 47 4. Mango e guaiava 69 5. In cerca di nuovi desideri 91 6. La ragazza del giovedì 113 7. Buon compleanno, tesoro! 133 8. L'anno prossimo a Gerusalemme 153 9. Perché l'amore tutto copre 173 10. Spari al ventesimo piano 197 11. Mio marito, un'amica 221 12. Per sfuggire alla vertigine del tempo 243 Note del traduttore 265 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Se c'era una cosa che lo irritava più del dovuto, che lo predisponeva alla violenza e all'omicidio, era che cercassero di dargliela a bere. Ah! Gli occhi allora gli si tingevano di rosso, rosso fuoco, ferro rovente, fiammate vibranti e Moisés al centro, impazzito con le corna e la coda, una serpe, un basilisco, un dragone, il diavolo dell'inferno. Uno spettacolo tremendo. Pareva dovesse morire, così d'un tratto, per autocombustione. Non nascondeva il lato assurdo e addirittura ridicolo della sua ira. Sapeva che tutte quelle canaglie, miserabili, imbecilli, fucking bastards, non sarebbero mai riusciti a fargli mandar giù il minimo inganno. Erano privi di astuzia, di verve, di mondo. Non avevano classe. Erano privi di tutto ciò che lui aveva in abbondanza, così tanto da regalarne, da buttar via. Ma cosa si credevano, eh? Che fosse nato ieri? Che fosse un moccioso, un bambino dell'asilo? Che avrebbero potuto farlo fesso tanto facilmente? Che facce toste, i maledetti... Le bugie raffazzonate, grossolane, per menti labili, lo facevano incollerire ancora di più, se possibile, delle simulazioni sofisticate. Più basso era l'inganno, più si mancava di rispetto alla sua intelligenza. Ma controllarsi, in ogni caso, gli costava un sacco. L'avevano già arrestato più volte per disturbo della quiete pubblica, per aver schiaffeggiato un agente del traffico, per aver preso a pugni tre negri della casa di Los Muchos, per aver lanciato uno sgabello contro lo specchio di un bar, per aver preso a bottigliate il garzone della farmacia, per aver incendiato un alberghetto. Sovversivo e temerario, tanto che alcuni lo chiamavano L'Anarchico, Il Terrorista, Quello Che Mette Le Bombe, pernottava spesso in cella, passava la vita sotto processo e la sua fedina penale si confondeva, per lo spessore, con l'elenco telefonico di New York. Dal carcere non lo salvava altro che la sua storia clinica di paziente psicotico, cui si aggiungeva la prodigiosa testimonianza del dott. Hermenegildo Frumento, ovvero Moisés in fondo non era una cattiva persona. Ossia, il suo livello di pericolosità non superava quello di un cittadino medio, un average man sottoposto a molteplici tensioni, a tutte le malevolenze del tropico: lo snervante caldo umido, la pioggerella ostinata, il fango, il luridume, l'odore di marcio, le zanzare, i moscerini, l'inettitudine dei funzionari, eccetera. In più di un'occasione aveva tentato di strangolare il suo analista, ma senza troppo successo. Fortunatamente, non possedeva armi. Si limitava a sognare un fucile, un'Associazione Nazionale del Fucile di cui lui sarebbe stato il presidente e la massima autorità. Perché loro, quegli sfacciati, non lo lasciavano in pace. Insistevano, continuavano, si ostinavano fino allo sfinimento con una calma disgustosa. E ancora osavano guardarlo beffardi, soddisfatti, quei figli di puttana, con quegli occhietti cinici. Sapeva, dato che era un uomo sagace, che nemmeno loro, le canaglie predicatrici, credevano minimamente alle proprie menzogne. Cosa pensano? Perché la gente convinta, assicurava tra ululati e pugni sul tavolo, la gente davvero convinta, non cerca mai di convincere nessuno. Non ha bisogno di consensi. Non vuole fare l'apostolo. Crede di essere felice quando crede di dirigersi verso ciò che crede di amare (questa frase mi piaceva da morire), e fanculo al resto. Bisognava essere molto insicuri, essere molto squilibrati, essere proprio a pezzi per affrontare una tribuna e pontificare, per mendicare le conferme altrui, per andare a caccia di proseliti. Così, quando pretendevano di ingannarlo, in realtà quello che volevano era ingannare loro stessi, aggiustare, limare, perfezionare la frottola come chi vuole apportare migliorie alla propria casa. Avevano bisogno della sua fede, difficile, per alimentare la propria, famelica. Lontana dal placarlo, questa riflessione lo indignava ancora di più. Dunque cercavano di usarlo, eh? Porci, mascalzoni, infami, tarati. Che rabbia. Ah, quanto li odiava! In un piacevole crepuscolo d'autunno, il giorno dell'equinozio con uccelli canterini e rane nello stagno, osai suggerirgli di non farci caso, di fregarsene: — Dimenticali, tesoro, — gli sussurrai all'orecchio — pensa agli affari tuoi. Smetti di combattere il nemico, di farti saltare i nervi, di intraprendere qualsiasi tipo di lotta. Non dici che loro non possono né potranno mai convincerti? Allora, amore mio, — lo baciai sul collo — perché soffrire per qualcosa per cui, evidentemente, non vale la pena? Che ci guadagni a fare così, dolcezza mia? Se non ti riguardi, un giorno o l'altro ti viene un coccolone, un attacco apoplettico, un infarto. Rimarrai tutto duro, così, come un vegetale. E guarda che io non ho la minima esperienza ad accudire gli invalidi – molto lentamente, gli sbottonai la camicia. – Devi uscire da questo circolo vizioso, amore, devi uscirne... Sei troppo teso, troppo rigido – davvero lo era – senti, perché non provi a rilassarti? Tipo esercizi yoga. 'Yoga' significa tranquillità, equilibrio, molta calma e nervi rilassati, pace spirituale o qualcosa di simile, non ricordo... – gli accarezzai il petto. – Comunque, la salute prima di tutto. Pensa, quando loro si accorgeranno di esserti indifferenti, che delle loro opinioni non te ne importa un tubo, ti lasceranno in pace. Succede sempre così. Uno li ignora e quelli vanno a rompere da un'altra parte, a rompere i coglioni a qualcuno che invece gli dà retta. Prova a fare l'indiano, tesoro, e vedrai cosa succede, vedrai, ved... – lo baciai sulla bocca. A dire il vero, io non avevo la minima idea di chi potessero essere "quelli". Mi venne in mente solo che, in una situazione tanto disperata, forse la cosa migliore era rimanere in disparte. Non farci caso. Laisser faire, laisser passer. | << | < | > | >> |Pagina 69Ci insegnano a mangiare mango... – nove anni dopo, l'illustre imbrogliona iniziò il suo secondo grande discorso. – No, no, non così. Forse "insegnare" non è il vocabolo più adeguato – da buona scrittrice, si preoccupa sempre del vocabolo più adeguato. – Piuttosto ci programmano per mangiare mango. Non importa se li mangiamo bene o male, con gusto o con disgusto: la questione è mangiarli. Mango o niente. Ci programmano per non ammettere nessun'altra possibilità. Eravamo sole in camera mia. A quei tempi papà aveva già interrotto le sue trasmissioni all'Esquina del Martillo Alegre, per trasferire definitivamente le cineprese e i microfoni negli Stati Uniti. Viveva vicino a Dallas. Prima era stato a trafficare a Miami, dove giocò probabilmente un brutto tiro alla persona sbagliata e lo espulsero con un calcio nel sedere e la minaccia di fargli saltare il cervello, se avesse osato far vedere di nuovo il suo brutto muso da quelle parti. In seguito si sarebbe trasferito a San Francisco, poiché la vicinanza con l'aeroporto di Love Field lo rendeva nervoso. Gli echi dell'attentato a JFK (echi che probabilmente udiva solo lui, anche se non si sa mai) gli ricordavano il recente trambusto e lui era un pacifista. Tramite Linda, appena tornata da New York, mi aveva mandato mille dollari, altri duecento per padre Ignacio e (non so per chi) un bellissimo paio di stivali verde stile cowboy con le frange rosse, i tacchi gialli e innumerevoli ornamenti di diversi colori senza contare le paillettes dorate e le pietre incastonate, uno di quei raffinati prodotti che ogni anno escono sul mercato con l'etichetta Made in Texas by Texans. C'era anche una lettera indimenticabile, terribile, giocosa, in bella copia, un gioiellino epistolare in cui mi narrava le sue avventure e, nel post scriptum, che includeva tre storie di finocchi, mi chiedeva di recapitare gli stivali a padre Ignacio come parte del donativo. In quel periodo l'aspetto economico non andava tanto bene. A dire il vero, non andava affatto: si era paralizzato. Non so se vivevamo sull'orlo di un collasso o al suo interno. Io avevo perso il mio lavoretto di redattrice in quell'oscura rivista di temi agricoli e pastorizi (non c'erano più temi agricoli né pastorizi, né carta per stampare la rivista) e non mi veniva niente da scrivere su argomenti di meccanica. Fallimento totale. Il giorno prima (e quello prima e quello prima...) ero andata a letto digiuna. Un bicchiere d'acqua e zucchero, un pezzo di pane che pareva fabbricato con sabbia o paglia di alluminio, tutto qua. Né riso né merluzzo né illusioni. Che disgrazia. Invece della canzone delle cento bottiglie cantavo quell'altra che fa "il cocco non ha acqua... / non ha polpa / non ha niente / ahi, non ha niente...", perché ormai non possedevo le forze per arrivare a zero. Credo che l'idea di arrivare a zero mi spaventasse. Mi sentivo esattamente come il cocco, afflitta da un concerto di maracas nello stomaco, perché se c'è qualcosa che deprime noi ciccioni, sono i problemi che riguardano il vettovagliamento. Come molta altra gente, avevo cercato di allevare un maialino. Iniziativa funesta. Il mio maialino rispondeva al nome di Grulli, a cui aggiunsi i miei cognomi in un attacco di affetto materno. Ecco il primo errore: dargli un nome. Non avevo fatto caso al rigoroso anonimato a cui erano sottomesse, senza eccezione, le bestiole dei miei vicini. Perché nominare equivale a individualizzare. Nome equivale a spirito, a personalità propria. A qualcosa di cui prendersi cura, perché in qualche modo e unico e insostituibile. In proposito, c'è una domanda assai capziosa che dice: "tra la Monna Lisa e un bebè, se dovessi sceglierne uno solo, chi salveresti in caso di incendio?" Ho la mia risposta, ma non la dirò. Meglio formulare la domanda in un altro modo: "tra la Monna Lisa e Juan Carlos, il nipotino della signora che vive nell'altro isolato e vende lecca lecca, se dovessi..." E allora? Certo, ci sono sempre persone che disprezzano l'essere umano esattamente come le sue creazioni, che collocherebbero il dilemma nel suo insieme sotto la scritta di "merdoso umanesimo" poiché considerano che il mondo starebbe molto meglio senza l'esecrabile Monna Lisa e senza quell'imbecille di Juan Carlos, e non muoverebbero un dito per preservare nessuno dei due. Ma torniamo al maialino. Dolce e affettuoso, Gruñi Álvarez La Fronde adorava che lo accarezzassi dietro le orecchie. Viveva in camera mia, al sicuro. Non lo lasciai mai uscire in corridoio perché il perverso megaterio anonimo non lo oltraggiasse. Mangiava come me, qualsiasi cosa, quello che si trovava. Dormiva nel letto con me. A volte con me e con qualche amante occasionale, anche se questo invariabilmente protestava e faceva la faccia schifata, si dichiarava allergico a un simile compagno di letto, diceva che quella era una porcata inaccettabile e approfittava del mio sonno per mettere Gruñi per terra. Angioletto, quanti patrigni insensibili hai dovuto sopportare. Uno cercò di buttarlo giù dalla finestra, ma lo afferrai per un pelo. Gridai al ruffiano "Giù le mani!" e ripresi il piccolino terrorizzato. Che casino con quella finestra del cazzo, si direbbe che le sue dimensioni fuori dal comune tendono a risvegliare i peggiori istinti umani. E pensare che Gruñi non puzzava, perché gli facevo il bagno e lo spazzolavo tutti i giorni, anche a costo di portare i secchi d'acqua su per le scale. Fummo felici fino a che, ancora molto piccolo, si ammalò e morì. Piansi come la Maddalena, ma forse fu la cosa migliore, perché non sarei mai riuscita a mettere insieme abbastanza coraggio per vendere o assassinare la mia mascotte. Non so perché ho l'impressione di non essere molto portata per l'allevamento dei suini. Il fatto è che morivo di fame nel bel mezzo di una città con diversi milioni di abitanti senza nessuno a cui chiedere aiuto. Il mio prozio W, nipote del marchese, dopo aver sbattuto con la Peugeot contro un albero e averla ridotta a un rottame, si stava riprendendo da non so quante fratture a Camagüey, con la famiglia della tinozza, da dove mi mandò un telegramma per avvisarmi che Urano girava lì intorno, in agguato, disposto, l'infame, a lanciare le reti del maleficio cosmico sulle nostre misere esistenze. Urano (forse Nettuno o Plutone, non ricordo bene), gli aveva fatto perdere il controllo del veicolo ed era, pertanto, colpevole dell'incidente. Col pianto nel cuore supposi che ormai l'astrologo, tanto cieco da non distinguere un albero a tre passi da lui e tanto suonato da mettersi a guidare alla sua età, stesse sparando le ultime cartucce e che gli mancasse poco per andare all'altro mondo. Invece no. Grazie a Dio e forse a qualche pianeta benevolo, il mio prozio, nipote del marchese, è quel che si dice un sopravvissuto. È ancora là, senza la Peugeot e con un bastone, impossibilitato a suonare lo xilofono, ma vivo, a fare predizioni e oroscopi. Padre Ignacio a volte rimediava qualcosa da mangiare attraverso la chiesa (senza dare nell'occhio i verbi "rimediare" e "ottenere" avevano spodestato il verbo "comprare" nel lessico della crisi) ma da lui dipendeva una lista di vecchiette senza speranze e un po' matte, con il velo nero, il rosario e il crocifisso. Tutti se la vedevano proprio nera, come i veli delle vecchiette, come certi personaggi inventati da quello svergognato di Luis Buñuel. Roba da spezzare il cuore. Non che mi paresse brutto vivere di elemosina, perché ciò che importa è vivere (non importa come, non bisogna domandarselo, solo vivere), ma non era giusto né fattibile chiedere al mio confessore che si facesse carico anche di una persona giovane e sana. La donazione di papà, a cui io avevo aggiunto altri duecento dollari, gli era servita davvero, anche se mi astenni dal consegnargli le avventure statunitensi del pacifista. Dove si è mai vista una confessione per corrispondenza? Adesso, tuttavia, mi viene in mente che i cattolici dei paesi sviluppati forse ormai si confessano via Internet, chissà. Pancholo era nelle mie stesse condizioni, affamato, macilento e senza un soldo in tasca, in piena crisi, solo che a lui non gliene poteva fregar di meno del cibo. Perché tanto casino per quella idiozia di masticare e mandar giù? Che perdita di tempo. A lui importava dell'alcol, che mi offriva gratis nella mia condizione di "amica del cuore" (in realtà gli amici del cuore sono tutti maschi, formano una specie di loggia o società fraterna dove non c'è spazio per gli equivoci né per le donne, di modo che io sono "amica del cuore" solo per lui e che non si sappia in giro), con l'aggiunta di alcune erbe per sopportare questa sfiga che ci è toccata in sorte e continuare a trascinare la triste pellaccia per gli squallidi sobborghi di questa porca vita. Mi pare che rum e marijuana facciano bene, come no. Fanno bene fino a quando di fatto fanno male, fino a quando si tratta di mescolare scintilla ferroviaria e erba, ma in quella circostanza famelica servivano solo ad alimentare il concerto del mio stomaco. I postumi erano infernali. | << | < | > | >> |Pagina 91Rinchiusa nello studio di questo superbo attico, lei continua a scrivere il suo nuovo romanzo, Cento bottiglie sul muretto, quello dei due omicidi. Mi ha detto di non disturbarla. Per nessun motivo. Ho sentito bene? Per nessun motivo! Nemmeno se entrasse un dinosauro da quella porta – il dito puntato e lo sguardo fulminante. – Nemmeno se esplode una bomba all'idrogeno, nemmeno se ci attaccano i marziani o se cade il governo, non devo interrompere il suo lavoro! Chiaro? Nella dispensa c'è un cavolfiore. Posso mangiarlo. Cavolfiore? Puah. Cervelli verdi. O prendere un succo d'arancia dal frigo. O leggere qualcosa, magari mi faccio un po' di cultura. O ascoltare musica (con le cuffie, ovvio). O vedere un film in cassetta. O fumare, anche se non dovrei. O risolvere un cruciverba. O guardare il soffitto. Qualsiasi cosa eccetto darle fastidio. Guai a me se la interrompo. Mi ucciderebbe. La mia amica non è una perfetta padrona di casa, non le interessa perdere tempo in chiacchiere inutili. Disprezza tutto ciò che puzza di ciarla, salotto o pettegolezzo. Il tempo, il suo tempo, è sacro. Lo capirei anche io – dice lei – se la mia vita avesse un senso che va oltre al semplice fatto di esistere, di gingillarsi. Ci sono libri ovunque. Su scaffali alti dal pavimento al soffitto, che tappezzano intere pareti. Sopra e sotto i mobili. Appoggiati sul pianoforte verticale, confusi con gli spartiti. In cucina, mescolati a ogni tipo di carne e verdura. Perfino in bagno. Una volta trovai uno dei suoi preferiti, Il falcone maltese, nel frigorifero. Mi assicurò di non avercelo mai messo, che si trattava certo di un dispetto di Félix. A ogni modo, non ho mai visto nulla di simile. Centinaia e centinaia, migliaia di libri in cinque lingue oltre allo spagnolo (Linda, la bestia poliglotta, ormai legge il russo, ma ancora non osa, come dice lei, fare a meno dell'ausilio del dizionario). Ha amici in tutti i continenti, incluso in Australia, e le regalano sempre libri, li mettono nella sua valigia quando è in viaggio o li spediscono per posta. Insomma, i libri. E le riviste. Ma quel topo di biblioteca li avrà letti tutti? Forse. Avrà divorato, uno per uno, come minimo i gialli, che tra classici, contemporanei e rarità formano una legione. Ne sono certa. Perché le sue conoscenze di letteratura sensazionalista, come Sherlock Holmes, sono ampie ed esatte allo stesso tempo, profonde, erudite. Non importa se mi lascia sola, abbandonata al mio destino come un cane randagio. Vengo qui perché c'è silenzio. Qui nell'appartamento 20, vicino al cielo, dove nessuno si infila in casa tua a venderti di tutto o a romperti le scatole con Geova o a chiederti in prestito un po' di zucchero. Ormai è passata l'epoca delle nausee e delle vertigini. Tuttavia non oso ancora affacciarmi alla finestra. Prima lo facevo. Mi affacciavo per dare un'occhiata alla città, così bianca e bella da lontano, dall'altezza che nasconde la devastazione, che stende un velo pietoso sulla miseria e sull'orrore, L'Avana cangiante nel crepuscolo rosa, con le auto come scarabei, i passanti delle dimensioni di formiche, il Malecón interrotto dalla torre del Focsa e, più in là, la baia. Aria pura, sensazione di pienezza. Vertigine. A portarmi qui non fu Linda, ma Félix. Ossia, lei mi invitò nell'attico (anche Yadelis, che però non ci venne mai, era troppo occupata con i problemi di Pancholo e con altre questioni) ma ci muovevamo solo tra questa sala e la sua stanza, enorme, luminosa, con un vecchio grammofono dalla tromba acustica a forma di fiore, una felce appesa a un macramè, una foto di Duna Barnes con Thelma Wood (definitoria e emblematica, posteriore al viaggio a New York, come quella di Gertrude Stein con Alice B. Toklas, anche se questa la eliminò presto, in quanto per quale buona ragione bisogna vedere brutte facce appena sveglie?), varie librerie piene zeppe e altri libri sotto il letto. Ecco lo spazio più intimo di Linda, la sua stanza. La mia amica è un animale sedentario, una donna-serpente, una bestiolina acquattata che si lancia nella battaglia solo quando è sicura di vincerla. Fu il violinista a mostrarmi il mondo dalla terrazza, l'insolita prospettiva del paesaggio urbano, con il gesto maestoso e un po' ironico di chi offre un regno da conquistare. Non ero mai salita tanto in alto. Mi sedetti sulla ringhiera con le gambe verso l'esterno, dondolando nel vuoto, senza appoggiare le mani. Lui mi sosteneva. Se mi avesse lasciato andare, sarebbe stata la fine. Per fare qualcosa del genere, credo, è necessaria molta fiducia nell'altro. Io mi fidavo di Félix Roth, non so perché. Ma l'ultima volta che mi affacciai, sola, forse qualche mese fa, mi venne voglia di volare. Un brivido in tutto il corpo, fragrante desiderio di sedermi di nuovo sulla ringhiera, di mettermi in piedi sul cornicione, lentamente, tutto molto lentamente, al rallentatore, di respirare profondo e poi... volare. Ascoltavo la voce del precipizio, seduttrice come quella di Félix o di Moisés, una tentazione quasi irresistibile. Il brutto è che non avevo neppure paura. O forse sì, ma mi piaceva. Il piacere della paura. Un diavoletto con la coda attorcigliata. Lo raccontai a Linda, che alzò il sopracciglio mentre asseriva che avevo bisogno di un aiuto professionale. Urgente. Uno psichiatra e un esorcista (per cacciare via il diavoletto). Malgrado la sua incredulità, la mia amica non esita a "prendere precauzioni" quando le circostanze lo richiedono. Non si considera atea, ma agnostica, ovvero secondo lei Dio non esiste, ma forse sì. Questo, per padre Ignacio, è una sfrontatezza, un opportunismo e un imbroglio intellettuale. Ma di esorcisti non ne trovammo, eccetto un babalao, uno stregone locale. Da parte sua, il dott. Frumento dissertò sulla mia personalità, tendente alla depressione, con episodi maniacali e non so che altro, qualcosa di latente e oscuro che si sarebbe potuto benissimo scatenare dopo la spaventosa esperienza all'Esquina del Martillo Alegre. Ossia, che sono più matta di un cavallo. Mi prescrisse pastiglie che non si trovano nelle farmacie locali (l'agente di Linda le spedisce dalla Spagna) e mi raccomandò di evitare situazioni pericolose. Cosa poteva considerarsi una "situazione pericolosa"? Non lo so. Penso alle persone, uomini e donne, all'equivoco sentimento che chiamiamo gratitudine. Allo sconvolgente tatuaggio di Alix Ostión. Alla finestra di camera mia, quel finestrone da cattedrale... Comunque sulla terrazza non ci sono tornata, non si sa mai. Così, rimango in salotto. Non ho voglia di leggere qualcosa per farmi un po' di cultura. Né di ficcarmi le cuffie o affrontare un cruciverba. Vorrei fumare, ma non posso. Per la creatura. Non è facile, si sa, rinunciare alle sigarette. Uno diventa ansioso, inquieto, un disastro, con i nervi a fior di pelle. Magari potrei mangiarmi un cervello verde... No. Non se ne parla. Questo mai. Forse è meglio vedere un film. Frugo tra le cassette. Ah, sempre le stesse. Una pila di cassette, ma sempre le stesse: classici del giallo, versioni di romanzi polizieschi, thriller di serie B, sparatorie, impiccagioni, sequestri, inseguimenti, pugnalate, sangue, viscere, orrori e altri orrori... Che ossessione. A volte mi domando come faccia la mia amica a dormire la notte. E poi dicono che la matta sono io. Be', confesso che prima piacevano anche a me queste cose. Ora non più. Di truculenze ne ho già abbastanza nella vita reale. | << | < | > | >> |Pagina 154Il primo romanzo di Linda, che si intitola proprio così, L'anno prossimo a Gerusalemme, apparve a metà del 1997, pubblicato da una modesta casa editrice di Barcellona. Il contratto, secondo lei, fu capestro. Lo sapeva quando lo firmò, dunque non ci fu malafede da parte di nessuno. Una scrittrice giovane, forse troppo giovane, quasi sconosciuta e proveniente da un paese periferico, sì, periferico, sottosviluppato, primitivo, silvestre, perché lei era cubana anche se il suo passaporto riportava un'altra nazionalità, ma su un documento si può scrivere qualsiasi cosa, mi spiego, non poteva aspirare ad altro nel suo primo contratto. Così, concluse, vanno gli affari e a volte, di fronte al più forte, non ci sono che due scelte: conformità o rinuncia. Prendere o lasciare. Senza coinvolgere, naturalmente, sentimenti di alcun tipo. La mia amica è solita trovarsi a proprio agio negli ambienti freddi, aridi, insensibili, per qualche ragione le sembrano più onesti e a partire da questo principio si mise d'accordo con il proprietario della piccola azienda. Come criticarlo se lei al suo posto, riconobbe, avrebbe agito allo stesso modo? Quel tipo, inoltre, le indorò la pillola. Cioè, le pagò il viaggio in Spagna, la alloggiò in alberghi costosi, la invitò nel suo yacht, a vedere una corrida e un concerto di tre tenori, le regalò un bel mazzo di rose bulgare (i fiori non le interessano, ma apprezzò il gesto), la presentò ai suoi amici, si comportò insomma come un gentleman. E nulla di tutto questo figurava nel disgraziato contratto.Con l'editore, un politico di sinistra, fu tutta un'altra storia. La mia amica, come padre Ignacio, assicura di non avere pregiudizi contro quella gente. Detesta soltanto la mera citazione del termine "sinistra". Le sa di sgabuzzino polveroso, le viene subito voglia di starnutire. Era giusto difendere i diritti delle minoranze etniche o religiose, le donne, i gay, gli handicappati, i bambini, gli animali e... le piante, sorrise da vegetariana e mi fece ricordare il triste destino della pianta di mango. Era giusto che gli operai scioperassero e i contadini dei paesi sottosviluppati lottassero per la riforma agraria. Era giusto opporsi alla proliferazione del nucleare. Sì, tutto questo era molto giusto. Ma un politico di sinistra poteva anche essere, secondo lei, un individuo che procedeva negli affari allo stesso modo del "capitalista selvaggio", assaporò quelle due parole: a coltellate, a morsi, con l'unica differenza che bisognava sopportare i suoi scrupoli di coscienza, veri o meno che fossero. Le sue continue giustificazioni. La sua paranoia. Le sue seghe mentali. La sua necessità di credersi buono, disinteressato, nobile e generoso, un filantropo, un angelo sceso dal cielo, anche se in quel caso bisognerebbe sovvertire i significati di tutte le parole. Quando quell'editore arrivò a esigere gratitudine dalla mia amica, dato che le avevano fatto un favore immenso pubblicandole il romanzo, lei scoppiò a ridere. Intanto, sotto il tavolo, in un bar con una bellissima vista sulla Sagrada Familia, stringeva i pugni per non schiaffeggiarlo. Ringraziare per cosa? Per un contratto implacabile? Per un'edizione raffazzonata, infettata da refusi, con una copertina davvero brutta e una prefazione nauseabonda? Ah, se le contraddizioni interiori del soggetto in questione non fossero state tanto evidenti, sospirò, lei avrebbe pensato che si trattava di un cinico. La prefazione, tra l'altro, era stata redatta da un nemico della mia amica, un nemico coi fiocchi, un ipocrita della peggior specie, autore di un romanzetto schifoso che (fece un'espressione di ripugnanza, come se si fosse mangiata un rospo crudo e senza zucchero), per pura casualità, aveva ottenuto un certo successo. Un figlio di puttana invidioso miserabile porco meschino imbecille egocentrico che, disse lei, sfruttava ogni opportunità, anche la più improbabile, per parlare di sé. Aveva detto alla mia amica, in tono accondiscendente, che la considerava sua pari (lei sorrise di nuovo), un'affermazione, da un certo punto di vista, proprio divertente. Lei, molto gentile, gli aveva risposto di no, non erano affatto uguali. Lui, ah ah, si era sentito lusingato. Che deficiente. Il gentleman e il politico di sinistra erano catalani. L'ipocrita della peggior specie, cubano. Logico. Anche se lei non aveva pregiudizi contro le nazionalità, chiarì, perché non mi confondessi, non c'era peggior stampo di quello della propria razza. Ma non lo prese di petto. Mettersi a litigare per una simile scemenza? Nossignore. Sferrò tre pugni sul tavolo (quello di casa sua, non quello del bar). Poi ritenne la questione conclusa. Si cercò un'agente letteraria (in realtà gliela presentò il politico di sinistra, opponendosi al gentleman, perché la vita era davvero complessa e multicolore, quasi mai in bianco e nero) e iniziò a scrivere un altro romanzo, molto sarcastico e ancora più pessimista del precedente. Io ascolto tutto questo, senza contare la sequela di casini che ci furono in seguito, e rimango perplessa. Come può essere complicata l'esistenza di una scrittrice vera. Lei aveva bisogno di soldi, un'entrata fissa prima che il suo conto arrivasse in rosso. L'attico necessitava di manutenzione per non finire come quello del ten. Leví, malinconico, pieno di magagne e infiltrazioni, trasformato in rovina senza il minimo interesse archeologico. Anche la Mercedes aveva bisogno di manutenzione. Con tanta buona volontà mi offrii per occuparmene io, gratis, ma lei non accettò. Non voleva approfittare di me solo perché eravamo amiche, disse, e a proposito da dove cazzo prendevo tutti quei mobili nuovi? La donna delle pulizie, una vecchietta mezza sorda che due volte alla settimana la aiutava nelle faccende domestiche, aveva uno stipendio, com'è logico. E poi la luce, la benzina, il telefono, la verdura, così cara... Che fastidio. E per soprammercato, appena era tornata dall'Europa (un viaggio lampo tra Madrid, Barcellona, Parigi e Bruxelles, che riservò a me uno splendido album con riproduzioni di Velàzquez e a Leidi una penna stilografica a forma di Torre Eiffel) Alix si trasferì da lei senza portare nulla, nemmeno un cazzo fritto diviso a metà. Non era colpa sua. Aveva solo diciassette anni, era appena arrivata dalla campagna, dai campi, da qualche stamberga sperduta tra gli arbusti e le palme della Cuba più profonda, per studiare giornalismo all'università e la mia amica non avrebbe permesso che soffrisse la fame nella residenza per studenti tra G e Malecón. Non quella ragazzina dai capelli neri, senza malizia, risorse, astuzia necessarie per sopravvivere nella capitale del disastro, disse la mia amica, dove risultava piuttosto difficile scavare la terra e tirar fuori una patata o una yucca. Devo confessare che una simile generosità da parte di Linda mi sorprese. Non voleva disfarsi della casa, né dell'auto, né della vecchietta mezza sorda, né di Alix, nemmeno del suo Rolex d'oro, e non le restò altro che ottenere un incarico come insegnante di lingue. Spagnolo per figli di diplomatici, grazie a un funzionario dell'Ambasciata austriaca. Inglese, francese e italiano per una truppa di trafficoni, grazie alla Gofia. Tutto underground, naturalmente, e senza tasse.
Da una prospettiva molto egoista, lo ammetto, mi rallegrai del
fatto che in quei giorni la sua vita fosse tanto ingarbugliata. Presa dai
suoi casini, non aveva tempo per venirmi a trovare e conoscere Moisés,
istallatosi con tutta la sua follia all'Esquina del Martillo Alegre.
Be', "istallato" è un modo di dire. Perché Alix si appiccicò a Linda come un
polpo, una calamita, una decalcomania, come il vichingo a Yadelis, ma il mio
amante non fece lo stesso con me. Una settimana dopo la scaramuccia al Parco
John Lennon, quando tornò per rimanere
(disse semplicemente: "Sono venuto per restare, sciocchina, qui ci sono venti
dollari, ma fammi il sacrosanto favore di chiudere quella cazzo di finestra,
perché tanta luce?"), io immaginai che si sarebbe comportato in modo possessivo,
geloso, indagatore. Molti uomini agiscono così anche se della loro donna non
gliene importa un fico secco.
Non so perché lo facciano. Forse perché si divertono. Nel caso di
Moisés, la mia congettura fu forse influenzata dalla sua maniera brutale di
afferrarsi
fisicamente.
La prima volta che andammo a letto insieme, per non dire altro, quasi mi
strangola. Mentre mi penetrava gli venne la brillante idea di stringermi il
collo con una delle sue manacce. Anche se non penso fosse un'intenzione, ma
piuttosto un istinto.
Niente di più eccitante per lui che sentire qualcosa (perché questo ero
per Moisés: "qualcosa") agonizzare tra le sue mani. Un corpo che si
contrae, si concede, succhia, asseconda, insomma, lotta per sopravvivere. Un
essere assolutamente indifeso che dipendesse da lui, dalla sua
sola volontà, anche se soltanto per un attimo, per continuare a vivere.
È possibile che il dott. Frumento abbia ragione e che qualcosa nella
mia testa non funzioni bene, perché quello stile barbaro, quell'atteggiamento
sadomaso, mi piaceva da matti. Al punto che iniziai a prendere il vizio, ad
averne bisogno come fosse una droga. Avevo paura,
certo, ma provavo anche il piacere della paura. Un diavoletto dalla
coda attorcigliata.
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