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| << | < | > | >> |IndicePresentazione di Roberta Corradin 7 Un debito da saldare 11 Bacari Venezia, 21 dicembre 2006 15 Caffè Torino, 19 gennaio 2007 31 Focaccia di Recco Recco, 5 aprile 2007 52 Lampredotto, Cinque e cinque Firenze, 13 aprile 2007 56 Torta fritta, Carciofa, Pesto di cavallo Parma, 27 aprile 2007 80 Buffet, Osmizza Trieste, 10 maggio 2007 91 Statale 353, Meschio, Formaggi alpini Mortegliano, 7 luglio 2007 108 Porchetta, Tortello alla lastra, Grifi Monte San Savino, 7 novembre 2007 130 Farinata gialla e bianca Savona, 1° dicembre 2007 144 Olive all'ascolana, Crescia, Pan Nociato, Ciauscolo, Moscioli, Formaggio di Fossa Ascoli Piceno, 5 febbraio 2008 150 Pànera, Trippa, Focaccia Genova, 22 febbraio 2008 189 Caldarroste, Altri ambulanti Milano, 29 febbraio 2008 200 Miasse Settimo Vittone, 12 marzo 2008 210 Panini Milano, 14 marzo 2008 224 Piadine Cesena, 19 marzo 2008 236 Salumi, Crescia di Gubbio, Moscioli, Chiosco dei frutti di mare Gubbio, 10 aprile 2008 250 Crotti Chiavenna, 21 aprile 2008 259 Würstel Bolzano, 2 maggio 2008 266 Mensa dell'opera di San Francesco Milano, 6 maggio 2008 272 Ringraziamenti 276 Indice dei nomi 278 |
| << | < | > | >> |Pagina 11Sebbene l'Italia sia un paese estremamente variegato, la fame di un liceale è un archetipo presente in tutte le sue culture. Mi si capirà da Courmayeur a Leuca, perciò, quando dico che uscendo intorno all'una dal Genovesi – Napoli, piazza del Gesù, primi anni Settanta – avrei mangiato intero il portone del vicino Palazzo Filomarino, già residenza di don Benedetto. Per fortuna, la zona offriva numerose alternative più gustose e sufficientemente economiche da essere alla portata delle mie tasche. Proprio in piazza, presso la salumeria, avrei potuto comprare una rosetta con la mortadella; panino che di tanto in tanto arrivava via bidello direttamente a scuola nell'intervallo delle dieci e mezzo. Sulla vicina via Benedetto Croce c'era la vecchia pizzeria Lombardi, che per altro è ancora lì e resta una delle migliori della città. A quei tempi offriva da un bancone sulla strada pizze in tutto simili a quelle servite nei piatti, ma di diametro un po' più ridotto, da ripiegare in quattro (chi dice a portafoglio, chi a libretto), infilare in un foglio di carta e addentare sulla pubblica via. Spingendomi oltre, avrei trovato fumanti pizze fritte al pomodoro o ripiene di ricotta in più di una friggitoria. Avviandomi, invece, verso lo Spirito Santo e via Roma – quella che ora ha ripreso il suo nome borbonico di via Toledo – mi sarei potuto fermare in piazza Carità alla gelateria La Scimmia per mangiare un gelato artigianale tra i biscotti, oppure inoltrarmi nel rutilante mercato della Pignasecca, dove attingere alle bancarelle dei carnacottari o dei purpari. I primi mi avrebbero offerto 'o per' e 'o muss', zampetto suino e muso bovino lessati e tagliati a tocchetti; un bel cartoccio, sale, pepe, limone e via. I secondi, una tazza di bror'e purp', brodo di polpo, con qualche frammento di tentacolo flottante. Potevo anche tenermi leggero con qualche tarallo al pepe, ciambellina intrecciata croccante, insaporita anche dallo strutto e da numerose mandorle. Se avessi preferito fare il signorino, mi sarei fermato nell'elegante negozio Motta di via Roma, per dedicarmi ad arancine di riso e supplì e timbaletti di maccheroni e crocchè di patate e sfoglie salate; quelli che a Napoli si chiamano rustici, in opposizione ai dolci. Fossi stato in vena di questi ultimi, pochi passi ancora e la grande pasticceria di origine svizzera Caflisch avrebbe brillantemente provveduto alla bisogna con paste di tutti i generi, se prima non mi fossi fermato da Pintauro, minuscolo negozio dalle grandissime sfogliatelle. Ricce e frolle perfette e per giunta sempre calde. Non mi faceva né caldo né freddo, invece, il vicino Gay Odin, paradiso dell'amante del cioccolato, per il quale impazziva mia cugina. Questa sopponta era indispensabile per affrontare il lungo e tortuoso percorso del Centoventi, autobus sparito dalla memoria dei più; ma anche ai tempi, vista la sua rarità da araba fenice, pochi avrebbero giurato sulla sua esistenza. Al termine del viaggio, perché di vera odissea si trattava, mi aspettava il pranzo casalingo. Mai prima delle due e mezzo, anzi, verso le tre e oltre. È da allora che devo molto ai cibi di strada. Mi hanno aiutato a sopravvivere fino all'ora di pranzo per tutto il liceo e l'università, mi hanno sostenuto e corroborato anche a Milano nel periodo impiegatizio e adesso, che lavoro così vicino a casa da tornarvi per il pranzo quasi ogni giorno, ho deciso di saldare il debito dedicando loro una ricerca ad ampio spettro. Questa forma di ristorazione, in verità, merita attenzione di per sé: è la più antica, essendo nata insieme ai concetti di mercato e di città. Ovunque si siano raccolte persone per scambiarsi merci, infatti, si è creata la necessità di punti di ristoro per chi veniva da lontano a barattare, a comprare o a vendere. Oggi i cibi di strada continuano a soddisfare esigenze pratiche in maniera onesta ed economica, ma sono diventati molto di più. I loro sapori semplici, netti, antichi sono i simboli della tradizione alimentare di un luogo. Se sei del posto, ti mettono in contatto fisico con la tua identità. Se non fai parte della comunità, raccontano ai tuoi sensi la sua cultura. La differenza tra loro e il fast food non riguarda la modalità di fruizione, spesso altrettanto rapida; è che sono proprio mondi diversi. Da una parte c'è l'artigianato, la manualità, l'uomo; dall'altra l'industria, la produzione in serie, il franchising, come sostiene Giuseppe Parente on line (http://www.storicamente.org/03parente.htm). Vedremo nei prossimi anni in quali modalità questi mondi entreranno in contatto. Ora, un libro sui cibi di strada italiani si poteva fare in tanti modi. Per esempio un saggio sui vari piatti in questione, con interessanti approfondimenti storici; ma l'aveva già scritto Carlo G. Valli (Gli antichi sapori dei mangiari di strada, 2003, Cierre edizioni). Oppure una guida, per trovare a colpo sicuro la merenda tipica di ogni luogo; ma ce n'erano già due in libreria: quella di Carlo Cambi, comoda e tascabile (Street Food, 2006, Istituto Geografico De Agostini) e quella di Flavia Amabile, che preferisco nonostante la mole (Mangiare per strada, 2004, Airplane). Ho scelto il diario di viaggio, forma a me più consona, perché permette uno stile narrativo, prevede programmaticamente l'irruzione della vita nel testo e non fa sconti, nel senso che chi scrive è costretto (si fa per dire) ad assaggiare in prima persona. Questo purché uno non s'inventi tutto; ma lo trovo più faticoso che andare in giro e lasciare che le cose accadano. Il mio metodo? Identificata una serie d'aree geografiche interessanti per il tema, ho cercato un esperto del territorio che mi guidasse in loco. Ci sono riuscito quasi sempre. Insieme ai miei ciceroni, o se necessario da solo, sono andato in chioschi, in altri esercizi o presso produttori. Per assaggiare, chiacchierare, rendermi conto e annotare sul mio taccuino. I capitoli sono intitolati ai cibi di strada indagati o al particolare tipo di spaccio esplorato, perché — ed è un altro importante criterio a monte della ricerca — ho inteso l'espressione "cibi di strada" in senso lato. Ovvero, mi sono occupato anche degli spuntini che si possono fare in piedi davanti a un banco o seduti a un tavolaccio; esperienze che considero strette parenti di quelle vissute davanti ai chioschetti all'aperto: rifocillano, senza pretendere l'attenzione totalizzante di una tavola imbandita. Se poi, per avventura, durante le mie peregrinazioni i miei ospiti mi hanno coinvolto in pranzi luculliani o cene creative, non mi sono tirato indietro e ho continuato a raccontare, per completezza d'informazione. Dal mio metodo deriva incompiutezza e parzialità, cosa di cui mi scuso con i perfezionisti; ma, sebbene sia io stesso ossessionato dal demone dell'enciclopedismo, di tanto in tanto mi lascio affascinare dalle sirene del caso, perché sono convinto che la loro opera imparziale spesso soccorra mirabilmente l'umana imperfezione. Vi lascio, perciò, alla prima parte della mia fatica, i cibi di strada dell'Italia del Nord, della Toscana, dell'Umbria e delle Marche. La seconda arriverà a breve. Giusto il tempo di digerire. | << | < | > | >> |Pagina 52La focaccia di Recco è un mito. Anche a Milano è ben vivo il suo culto, e non solo perché molti autoctoni (si fa per dire: siamo immigrati al 90%) amano passare l'estate in Liguria. Il capoluogo lombardo è addirittura un centro di produzione di focaccia tipo Recco. Per quanto ne so, a Milano il locale più amato è la Focacceria Genovese di via Plinio 5, che a ora di pranzo registra sempre una discreta coda. Ma una cosa è la copia, un'altra l'originale. E allora, approfittando del bel tempo, puntiamo la prua della nostra macchina verso Recco, per concederci un assaggio doc. In loco, chiediamo in giro e ci viene indicato il panificio Moltedo, che ha la sede storica in via XX Settembre 2/4 e un'altra in via Assereto 15. È quest'ultima che abbiamo visitato, per biechi motivi di parcheggio. Il locale è tirato a lucido; nel tempo in cui ci siamo trattenuti hanno lavato il pavimento più di una volta. Oltre a pani di vario genere vende anche dolci, biscotti, pasta, alimentari e tiene i soliti frigoriferi sponsorizzati con acqua minerale e Coca-Cola. Questo per dire che non è un luogo di particolare suggestione, ma un forno da piccolo centro, con un'offerta un po' indifferenziata. Di focacce, però, ha un bell'assortimento. C'è quella classica a taglio, del tipo amatissimo a Genova e dintorni: qui ha la parte superiore croccante e quella inferiore morbida; molto fragrante. C'è quella fritta ripiena di stracchino, in pezzature singole, di forma quadrangolare; provata fredda, non è un granché. Il meglio è sicuramente la focaccia di Recco. È contenuta in una teglia rotonda, del diametro di 40-50 cm, venduta a taglio. Consiste di due sottili sfoglie d'acqua e farina senza lievito, inframmezzate da uno strato di stracchino. Per curiosità ho chiesto la marca del formaggio: Invernizzi (!). Sotto la sfoglia bassa si avvertono granuli croccanti: è farina da polenta, sparsa sul fondo della teglia per non far attaccare la focaccia. Quella che proviamo è calda, appena fatta. È gustosissima, nonostante il formaggio industriale. Replicheremmo, se non sapessimo che ci attendono altri assaggi. I prezzi sono decisamente abbordabili. Una porzione di focaccia classica: 0,50 euro. Una focaccia fritta ripiena: 1,00 euro. Due porzioni di focaccia di Recco più una bottiglietta d'acqua: 3,35 euro. Solo più tardi avrei scoperto che l'inventrice di questa specialità ha un nome: Manuelina, l'ostessa che un tempo gestiva l'omonimo locale, ancora oggi in attività in via Roma 278. Oltre al formaggio molle, lei utilizzava anche siero cagliato. | << | < | > | >> |Pagina 56Guns and Roses, la canzone di Bob Dylan, risuona dalle casse dell'auto. Una stazione di servizio Esso sfreccia via sulla destra, al lato della superstrada. È notte. Mentre il sei cilindri ronza docile, alimentato con generosità dal piede destro di Massimo, ripenso agli eventi degli ultimi due giorni toscani. Arrivato venerdì a Firenze in treno, sul presto, mi dirigo subito al mercato di San Lorenzo. Per uno che ama mangiare, visitarlo senza fare acquisti è una sofferenza. C'è troppo di tutto. E buona parte della merce esposta è toscana. Ovvero, mitica. Non sai dove fermare l'occhio. Al piano terra, banchi di carne con fiorentine che ipnotizzano, salumerie con finocchione tentatrici, enoteche con etichette da sogno. Al piano di sopra ci sono le verdure. Ho contato una decina di tipi di carciofi e altrettanti di porcini secchi. Un banco espone strepitosa frutta secca e candita. Ma io sono qui per altri motivi e torno al piano di sotto. Il banco di Oreste Carocci è l'unico che venda soltanto trippa. Sembra un altare. È di marmo di Carrara, con inserti di marmo nero. Al centro reca una stella a otto punte, inscritta in un cerchio di marmo nero. A sua volta la stella contiene un cerchio. Le otto punte e il cerchio sono divisi in sedici spicchi, alternativamente di marmo bianco e rosso. Non pretendo che capiate com'è fatto il disegno, voglio solo rendere la complessità della fattura di questo banco di trippaio, che è qui probabilmente da quando è stato aperto il mercato al coperto, intorno al 1885.
Ho preso nota di tutto quello che appare nella sua vetrina e dei suoi
prezzi:
Lingua cotta di vitella 10,00 Arrotolato di guancia cotta 8,00 Poppa cotta nostrale 6,00 Musetto cotto di vitella 6,00 Nervetti cotti di vitella 6,00 Matrice cotta di vitella 6,00 Trippa cotta nostrale 6,00 Centopelle cotto nostrale 6,00 Zuppa cotta di vitella 3,62 Lampredotto cotto nostrale 6,00 Il lampredotto, oggetto della mia ricerca, è il terzo stomaco bovino, mi dice Valentina, la dipendente al banco. Decantato anche da Vasco Pratolini ne Il Quartiere ("Il trippaio è davanti al suo carretto: fuma nella sua vaschetta il lampredotto appena bollito; gli si affollano attorno i garzoni del Quartiere col pane croccante fra le mani, per la prima colazione: si puliscono le dita sul fondo dei calzoni per servirsi un pizzico di sale..."), è da tempo immemorabile il classico del cibo di strada fiorentino. Chiedo a Valentina dove posso mangiare un panino. Lei mi consiglia Nerbone, l'osteria che è qui nel mercato, oppure il banco di Beatrice, appena fuori dal mercato, che lei preferisce. Nerbone ha una situazione logistica peculiare, ma coerente con il mercato: da un lato del corridoio c'è il banco, dall'altro i tavoli. Sulle pareti, piastrelle bianche da macelleria tradizionale, quadri conviviali, lampadine con maxiglobo, forse per rimarcare che siamo in un mercato. Seduti ai tavolini di marmo sono prevalentemente lavoratori del braccio. Bicchieri di vino bianco e piatti robusti: ribollita, rognoni, ossibuchi, prosciutto arrosto. Mi tenta, anche per la sua frequentazione apparentemente tradizionale, ma Valentina preferiva il banchetto esterno. E siccome mi aspettano diversi assaggi, dovendo scegliere mi affido al suo giudizio di addetta ai lavori. Uscito dal mercato, mi avvio tra la calca dei turisti verso la mia meta, che trovo in via dell'Ariento, angolo via Sant'Agostino. La Trippaia, al secolo Beatrice Trambusti, dimostra trentacinque-quarant'anni. Indossa un paio di occhiali con lenti allungate e montatura rossa, molto up-to-date. Un fazzoletto azzurro annodato sulla testa trattiene i capelli e un grembiule bianco la avvolge, lasciando intravedere una maglia azzurro pallido. Accanto a lei, il marito Riccardo, con camicia a quadretti. Mi racconta che è davanti al mercato al coperto con il suo banco dal 1987, ma pratica la sua nobile arte dal 1985. Il banco stesso è lì da tempo immemorabile. Secondo lei il lampredotto non è il terzo, ma il quarto stomaco bovino. «Non compro al mercato, mi rifornisco da mio cognato, produttore di trippa appena fuori Firenze. Ma ora facciamo anche il lesso – il bollito, in italiano. Qui a Firenze "il lesso" sono anche i soldi» aggiunge sorridendo. «Il lampredotto è cotto in un brodo vegetale: carota, sedano, cipolla e un ingrediente che non le dico» e scoppia in una risata. Non indago oltre sull'ingrediente segreto, mi sembra indelicato; e poi, non me lo direbbe. «Capisco chi dice: non mi piace il lampredotto. Un sacco di gente non apprezza. C'è invece chi disprezza. È una cosa che non mi piace». Nel frattempo è arrivato un cameriere del Baglioni, l'hotel a cinque stelle più celebre di Firenze, e ordina due panini con il lampredotto. Saranno per lui e un collega, o per due sofisticatissimi clienti? Si ferma al banco anche una coppia di fidanzatini e poi un giovane arabo. «Facciamo anche la trippa alla fiorentina». Come mai tante scritte in cinese? «Da quando una tv di Hong-Kong ha fatto un servizio su di noi, siamo pieni di clienti cinesi». Puntuale, si presenta una ragazza cinese. Parla inglese, è qui per turismo. Dopo averla servita, Beatrice mi si rivolge di nuovo. «Non ho visto mai un cinese che dice: ih, che schifo. Nei mesi estivi ce n'è tantissimi». Beatrice ha partecipato anche a una trasmissione RAI, in compagnia di Dario Cecchini, macellaio showman di Panzano in Chianti. Lei faceva un'opera di divulgazione a favore del lampredotto. A proposito, le chiedo, e i panini? «Sono bolognesi o rosette. Non si usano più i sèmelli» I che cosa?
«I sèmelli. Li chiamavamo anche passerine» sorride un
po' imbarazzata «sa, per il taglio».
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