Copertina
Autore Jan Potocki
Titolo Storia di Zoto
EdizioneColonnese, Napoli, 2006, Lo specchio di Silvia 49 , pag. 136, cop.fle., dim. 93x144x12 mm , Isbn 978-88-87501-70-4
OriginaleManuscrit trouvé à Saragoze [1805]
CuratoreGianandrea de Antonellis
TraduttoreGianandrea de Antonellis
LettoreAngela Razzini, 2006
Classe classici polacchi
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Indice

Introduzione                     7

Note all'Introduzione           36


Storia di Zoto                  45


Note al testo                  126


 

 

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Pagina 7

IL PERSONAGGIO, L'AUTORE, IL TESTO
UN ENIGMA A TRE FACCE
di Gianandrea de Antonellis



[...]

Potocki è certamente più fortunato, almeno grazie al Manoscritto, nonostante la sua curiosa fine catalizzi l'attenzione assai più dei suoi numerosi – e validi – saggi antropologici. Infatti il nobile polacco, uomo di vastissima cultura, che viaggiò moltissimo e descrisse minuziosamente i propri itinerari, finì suicida in maniera particolare: utilizzò per spararsi un proiettile ricavato dal pomello del coperchio della sua zuccheriera. Ogni giorno, prendendo il tè, lo limava, fino a quando non raggiunse la grandezza giusta per entrare nella canna di una pistola e, quindi, nel suo cervello. La fine di Potocki lascia interdetti soprattutto perché inattesa: ben altro comportamento ci saremmo aspettati da un autore che descrive con tanta leggerezza le vicende di Alfonso van Worden, sempre distaccato di fronte ai pur incredibili accidenti che gli capitano. E allora: distacco, disincanto o ironia?

Potocki è ironico quando "militarizza" la banda di tagliagole comandata da Zoto, utilizzando una terminologia tipicamente marziale («comando della truppa», una ferita che rende «inabile a servire ancora» con il conseguente «congedo dalla truppa»)? È difficile credere ad un membro della casta militare – peraltro per breve tempo: fu sottotenente dell'esercito austriaco durante la guerra di successione bavarese nel 1778 e l'anno successivo si dedicò alla caccia ai pirati islamici sotto le insegne dell'Ordine di Malta – tanto preso dal suo mondo da non accorgersi di mettere sulla bocca di banditi da strada vocaboli da accademia militare (se non addirittura considerazioni da accademia platonica). Deliziosa ironia, dunque: ipotesi confortata dal fatto che, a proposito della modesta generosità dei monaci agostiniani (una stuoia sotto il porticato del chiostro ed un piatto di minestra contro una generosa offerta da parte del bandito gravemente ferito che chiede asilo), Potocki sottolinei che «inoltre il cerusico della casa gli medicava le ferite, addirittura!».

Amara ironia soffusa di un neppure tanto velato anticlericalismo (di moda tra i giacobini settecenteschi – per i quali il Conte simpatizzava – come tra i giacobini attuali) che non sorprende di certo. Sorprende invece il palese disprezzo che l'autore riserva ad un'altra usanza popolare: il «presepe realizzato con pupazzetti, costruzioni delicatissime ed altre simili bambinate» (il corsivo è nostro). Potocki – lo vedremo più oltre – era infatti un attento ed obbiettivo osservatore del folclore: possiamo immaginare che, di fronte all'entusiasmo di qualche amatore che gli avrà magnificato la propria collezione di pastori, avrà giudicato tale fervore degno di miglior causa.

[...]

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Pagina 45

STORIA DI ZOTO



Sono nato nella città di Benevento, capitale del ducato omonimo. Mio padre, che si chiamava Zoto come me, era un armaiolo esperto nella sua professione. Ma poiché nella sua città ce n'erano altri due ancor più rinomati, la sua posizione era tale da riuscire appena a mantenere la moglie e tre bambini, cioè me e i miei due fratelli.

Tre anni dopo il matrimonio di mio padre, una sorella minore di mia madre sposò un mercante d'olio di nome Lunardo, che le aveva donato come regalo di nozze un paio di orecchini d'oro e una pesante collana dello stesso metallo. Mia madre, al ritorno dallo sposalizio, sembrava caduta in una profonda melanconia. Suo marito voleva saperne la ragione: ella nicchiò per un pezzo, quindi confessò di morire d'invidia e di desiderare orecchini e collana come quelli della sorella. Mio padre non rispose alcunché. Egli aveva un fucile da caccia della miglior fattura, due pistole della stessa qualità ed un coltello da caccia: il fucile poteva sparare quattro colpi senza essere ricaricato; mio padre ci aveva lavorato quattro anni e valutava questo lavoro trecento once d'oro napoletane Si recò da un amatore e gli cedette tutto quanto per ottanta once. Poi andò a comprare i gioielli che sua moglie desiderava e glieli portò. Mia madre si recò immediatamente a mostrarli alla moglie di Lunardo e quando venne notato che i suoi orecchini erano un po' più ricchi di quelli della sorella, ne ebbe un piacere estremo.

Ma otto giorni dopo la moglie di Lunardo venne a rendere la visita a mia madre. Si presentò con i capelli intrecciati a crocchia e mantenuti da uno spillone d'oro, la cui testa era costituita da una rosa filigranata impreziosita da un piccolo rubino. Quella rosa d'oro lasciò una dura spina nel cuore di mia madre: ella ricadde nella sua melanconia e non ne uscì fino a che mio padre le ebbe promesso di procurarle una rosa simile a quella della sorella. D'altro canto, anch'egli divenne malinconico come la moglie lo era stata in precedenza, dal momento che un simile spillone costava quarantacinque once ed egli non aveva né denaro né mezzi per procurarselo.

In questo frangente, mio padre ricevette la visita di un "bravo" del suo paese, di nome Grillo Monaldi, che si recò da lui per farsi pulire le pistole. Egli, notando la tristezza di mio padre, ne domandò la ragione e mio padre non gliela nascose. Monaldi, dopo aver riflettuto per un momento, gli parlò così:

— Signor Zoto, io vi sono debitore più di quanto non crediate. L'altro giorno, nel corpo di un uomo assassinato sulla via per Napoli, è stato casualmente rinvenuto un mio pugnale. La giustizia lo ha fatto mostrare a tutti gli armaioli e voi avete generosamente attestato che non lo avevate mai visto prima. Al contrario, lo avevate fabbricato voi e lo avevate venduto proprio a me. Nel caso in cui aveste testimoniato la verità, mi avreste potuto causare qualche imbarazzo. Ecco le quarantacinque once di cui avete bisogno e, inoltre, per voi la mia borsa sarà sempre aperta.

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Pagina 82

Lettereo è un nome di battesimo tipico di Messina: deriva da una lettera che la Vergine deve aver scritto agli abitanti di questa città e che deve aver datato «nell'anno 1452 dalla nascita di mio figlio». I Messinesi nutrono nei confronti di questa lettera la stessa devozione che i Napoletani portano al sangue di San Gennaro. Sottolineo questo particolare perché un anno e mezzo dopo ho rivolto alla Madonna della lettera una preghiera che credevo sarebbe stata l'ultima della mia vita.

Ora questo Padron Lettereo era capitano di un veliero armato, destinato ufficialmente alla pesca del corallo, ma in realtà al contrabbando e, all'occasione, alla pirateria – evento che peraltro capitava di rado, perché non aveva cannoni ed era costretto ad attaccare i bastimenti solo sorprendendoli alla fonda presso spiagge deserte.

Tutto ciò a Messina era risaputo, ma Lettereo contrabbandava per conto dei principali mercanti della città. I doganieri avevano la loro fetta e, in più, il comandante era noto per la sua generosità in fatto di coltellade, elemento che convinceva coloro che avessero voluto creargli qualche impiccio. Infine, aveva una figura davvero imponente: l'altezza e le spalle erano sufficienti a farlo risaltare, ma anche il resto dell'aspetto corrispondeva, tanto che le persone timide non potevano guardarlo senza spavento. Il suo volto, dalla carnagione molto bruna, era stato reso ancor più scuro da uno scoppio di polvere da sparo, che gli aveva lasciato molte cicatrici; anche la pelle era ricoperta da tatuaggi molto particolari. I marinai del Mediterraneo hanno quasi tutti l'abitudine di farsi tatuare sulle braccia e sul petto numeri, profili di navi, croci ed altri simili ornamenti. Ma Lettereo si era spinto oltre: aveva fatto incidere su una guancia un Crocifisso e sull'altra una Madonna, ma delle due immagini non si vedeva che la parte superiore, poiché il resto era coperto da una spessa barba, mai toccata dal rasoio e contenuta in limiti accettabili soltanto dalle forbici. Aggiungete a tutto ciò orecchini d'oro, un berretto rosso, una cintura dello stesso colore, un corpetto senza maniche, pantaloni alla marinara, braccia e piedi nudi, tasche ricolme di pezzi d'oro: ed ecco il capitano!

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