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| << | < | > | >> |Pagina 13 [ inizio libro ]Arrivò in Corea in mezzo a una bufera di neve su un aereo panciuto soprannominato Thin Man («Lo smilzo»). Poco più di una settimana prima aveva scritto una lettera d'addio all'uomo di cui era stato il discepolo riluttante per un lungo e strano anno e, al momento della separazione, aveva abbracciato sua zia e suo zio e la ragazza che pensava di sposare.Era stato allevato dalla zia e dallo zio, il fratello di suo padre. Alloggiava da loro quando i suoi genitori morirono, e lì era rimasto. Dormiva in un lettino in una stanza squallida e angusta. Abitavano a Brooklyn, in un tetro appartamento al piano terra di un vecchio caseggiato in mattoni a cinque piani, dove suo zio riscuoteva gli affitti a nome di un proprietario che non si faceva mai vedere. Quel caseggiato era lo zimbello del quartiere. Aveva qualcosa di strano, qualcosa era andato storto sin dall'inizio. La caldaia era capricciosa e aveva il vezzo di spegnersi proprio al momento del bisogno; le valvole si otturavano, i tubi gocciolavano, i rubinetti sputavano fiotti d'acqua, oppure eruttavano aria; l'impianto elettrico andava misteriosamente in corto circuito; i mattoni si staccavano e cadevano sul marciapiede; la copertura in carta catramata del tetto si deformava, si inarcava e si screpolava, anche se era stata sostituita da poco. Ma gli affitti erano bassi, gli appartamenti sempre occupati, e suo zio, che si guadagnava a stento da vivere gestendo una decrepita libreria ebraica, era sempre indaffarato. Spesso toccava a lui accendere la caldaia in quelle albe invernali in cui il custode era tanto stordito dall'alcol da non riuscire a scuotersi. I custodi cambiavano in continuazione. Suo zio non aveva una vita facile. Aveva otto anni quando i suoi genitori morirono. Il suo ricordo più nitido del padre risaliva al giorno in cui erano saliti insieme in cima alla Statua della Libertà. «Vuoi salire in ascensore o fare le scale? Scegli», gli aveva detto lui in tono allegro. Scelse le scale. Aveva sette anni e suo padre lo portò in braccio per l'ultima mezza dozzina di rampe. Si strinse a lui e inalò l'aroma della sua forza. Era una giornata tersa e luminosa e ammirarono la curva lontana della costa di Brooklyn al di là dell'acqua. «È lì che abitiamo noi, Gershon», aveva detto suo padre. «Sì, il mondo è meraviglioso. Ma devi imparare a fare le scelte giuste, altrimenti ti farà patire.» Più tardi quella sera fecero un puzzile insieme. Era il regalo che aveva appena ricevuto dalla madre per il suo settimo compleanno, un puzzle che riproduceva un planisfero. Lui e suo padre sparpagliarono i pezzi sul tappeto del soggiorno e ci lavorarono insieme fino a completarlo. Sua madre rise e lo abbracciò, e lui ricordava il bacio, il tepore del volto di lei e la dolcezza del suo profumo. | << | < | > | >> |Pagina 114Attraversarono una laterale e proseguirono a passo spedito. Gershon doveva quasi correre per stare dietro a Jakob Keter. Davanti a loro si stagliava il monumento ai Vigili del fuoco, con i cavalli e le statue bianche dei caduti. Scesero i gradini fino al parapetto in pietra e si fermarono a guardare l'ampio livello inferiore di Riverside Drive, l'erba scura, gli alberi spogli e la superficie inquieta del fiume. Gershon rabbrividì.«Quando entrerà nell'esercito, signor Loran?» gli domandò Jakob Keter. «A giugno dell'anno prossimo.» «Le mie congratulazioni per il Premio Leiden.» «Grazie.» «Lo merita. C'è stato un momento della mia vita in cui un anno di studio si è rivelato cruciale. Sì. È fuori dubbio che lei lo merita.» «Grazie.» «L'anno prossimo leggeremo insieme alcuni testi. Al momento sto preparando l'edizione critica di un'opera strabiliante scritta in Provenza. La studieremo insieme, sì? Dovrà imparare un po' di arabo. Quest'estate dovrebbe iniziare a studiarlo, e anche il greco.» Gershon si sentiva il vento in faccia mentre ascoltava la voce asciutta e inespressiva di Jakob Keter. «È un testo interessante. Numerologia, angeli, emanazioni e luci. Moltissime luci. Il Libro delle luci nascoste e rivelate. Senza dubbio un'opera gnostica, piena di allusioni alla concezione del Dio nascosto. Sicuramente alcuni rabbini devono averlo considerato eretico. Il manoscritto è conservato nella biblioteca del seminario. Nella sala dei libri rari, non lontano da dove di solito siede lei, per la precisione. Luci. Erano ossessionati dalle luci, i nostri mistici. Gerusalemme, la Provenza, la Spagna. Luci. Si è mai chiesto perché si interessassero tanto alla luce?» «No.» «È sostanza incorporea, così pensavano. Appropriata a descrivere Dio e le emanazioni. Oggi parliamo di onde e particelle. Ma è anche possibile che avesse a che fare con il sole mediterraneo. Lei non lo conosce, il nostre sole. La sua luce ha una qualità tutta speciale. In Polonia il sole non aveva nulla di speciale, e gli ebrei si lasciarono ossessionare dal regno del Sitrà achrà. Si imbarcarono in una grande guerra contro il mondo demoniaco del Sitrà achrà. Ovunque vedevano male, corruzione e spiriti maligni. Probabilmente a causa dei pogrom. Ma forse aveva anche a che vedere con la mancanza di sole. Sì. Ma questa è psicologia ed è irrilevante per il nostro lavoro. Secondo lei, quale tipo di misticismo produrrà l'ebraismo americano? Ogni forma di ebraismo ha elaborato un proprio misticismo. Gli antichi palestinesi parlavano di angeli e di nomi sacri, vedevano il Trono divino sul carro e i palazzi celesti nelle loro visioni; gli ebrei dell'Europa meridionale e occidentale ci hanno lasciato visioni del mondo superiore e inferiore, Dio e la presenza femminile, le emanazioni e la Creazione; i mistici di Safed ci hanno insegnato come usare le scintille e i gusci di questo mondo in frantumi; gli ebrei dell'Europa orientale ci hanno parlato del regno del male. Pensa che gli ebrei americani fonderanno mai una tradizione mistica? Questa terra della gomma da masticare, del cinema, di McCarthy, del bingo, dei grandi crogiuoli urbani di immigranti? Che cosa ne pensa, signor Loran? Sì? È una domanda interessante. Il misticismo dell'ebraismo americano. Intrigante. A ogni modo, studieremo insieme l'anno prossimo, sì? Ora le farò alcune domande e lei risponderà. Giusto per poter dire all'amministrazione che ha sostenuto l'esame. Mi dica, signor Loran, come giudica il tentativo di Belkin di ridurre il Midrash ha-Ne'elam dello Zòhar a una composizione ellenistica?» Gershon udì la propria sintetica risposta: «Un fallimento». «Mi spieghi perché.» Gershon glielo spiegò. | << | < | > | >> |Pagina 132Nel silenzio giungevano, affievoliti, i rumori del traffico della domenica pomeriggio in Riverside Drive. Una brezza tiepida agitava l'aria. Einstein era in piedi sul podio. Il giallo del cappuccio riluceva nel sole e un lampo di luce colpì Gershon agli occhi. Einstein parlò con voce a malapena udibile e con il forte accento della natia Germania. Quello era un giorno di ironie e risanamenti, disse. Un giorno in cui molti opposti si ricongiungevano. Un giorno in cui molte rotture erano state riparate, se non in modo permanente almeno momentaneamente. «Per tutta la mia vita ho odiato la guerra. È la peggiore maledizione nella storia dell'uomo. La guerra. Nasce dall'ignoranza assoluta, dall'avidità assoluta, dalla crudeltà assoluta. Sono fuggito dalla Germania nazista perché i nazisti erano tutti questi assoluti fusi insieme. La mia brillante, scintillante, civile Germania scelse la via contraria, che portava alle tenebre della barbarie. Non farò ritorno là. Vi sono sentieri che un uomo non può ripercorrere, azioni che non possono essere cancellate.»La voce acuta e sottile, debole, veleggiava con una strana potenza nel luminoso silenzio della corte. Gershon sentì una morsa di gelo alla base del collo. Tutte le persone sedute sul palco ascoltavano attentamente. «Vi sono momenti, devo confessare, in cui rimpiango una certa mia azione. Forse ho compiuto un grave errore nella mia vita quando firmai la lettera indirizzata al presidente Roosevelt in cui gli raccomandavo di costruire la bomba atomica. Il mio gesto era in parte giustificato dal timore che la costruissero i tedeschi. Non vi riuscirono. Noi sì, e le sganciammo sul Giappone. Ciò pose fine a una guerra terribile, ma ci ha marchiati per sempre. Tutto questo non può essere cancellato. È un danno che gli esseri umani hanno procurato a sé stessi e che non può essere riparato. Volete sapere ciò che un mio caro amico, un uomo che conosco da decenni, mi ha detto prima di tornare a vivere in Germania dopo la guerra? Mi disse: "Einstein, gli americani hanno dimostrato a Dresda, Hiroshima e Nagasaki che in fatto di stermini rapidi superano persino i nazisti". L'analogia è, ovviamente, sbagliata. Ma la macchia di quell'azione rimane. Forse venne scelto il male minore. Forse è proprio questa la vera natura di una scelta. Ciò nonostante, sento che siamo tutti marchiati.» I volti degli uomini sul palco erano impassibili. Immobile sulla sedia, Truman fissava la schiena di Einstein, la toga nera, il tocco nero, il cappuccio giallo. Gershon udì che Arthur tirava un respiro profondo e tremulo. Minuscoli insetti ronzavano nell'aria immota. Einstein proseguì, alzando di poco la voce. «Forse sapete che i nazisti chiamavano la fisica teorica "fisica ebrea". Forse dovremmo ringraziare Hitler perché, con il suo odio per gli ebrei, ha privato la Germania dei suoi fisici migliori e a lui stesso non interessava la possibilità di ottenere la fissione nucleare. Quanto a me, desideravo solo comprendere meglio l'universo in cui vivo, non contribuire alla costruzione delle bombe. I miei colleghi e io - non tutti ebrei - abbiamo regalato l'energia atomica a un paese buono, l'America. Sta ai politici decidere come usare questo dono. Cerco di dire la mia, ma questa è solo la voce di un vecchio che ama la sua poltrona, il suo maglione e i suoi libri più del tumulto del mondo.» Tacque, si passò una mano sugli occhi e rimase in silenzio. Guardò il bordo del podio e, per un istante, sembrò perso nei pensieri, lontano dalla corte quadrangolare, dal palco, dal sole e dalla semplice religiosità espressa nella cerimonia dell'ordinazione. Gershon avvertiva distintamente la tensione dell'attesa collettiva. Einstein alzò il capo e batté le palpebre. Sì. Si era allontanato. Gershon avvertì nuovamente il gelo alla base del collo. Einstein proseguì. «Se davvero ci siamo sbagliati facendo questo dono al mondo, abbiamo in parte corretto il nostro errore con il gesto che abbiamo compiuto oggi. Noi tutti qui riuniti, ebrei e gentili, rendiamo omaggio alla visione di una famiglia. Al cuore della tradizione del popolo ebraico vi è l'amore della giustizia e della ragione. La famiglia Leiden ci dà prova di questo amore. Così facendo, contribuisce a controbilanciare le scelte sbagliate compiute in passato, il male che facciamo e che ci viene fatto; contribuisce ad alleggerire la vita della sua pesantezza terrestre. Da decenni l'amicizia lega le famiglie Leiden e Einstein, dai giorni dell'Istituto Kaiser Wilhelm dove un giovane americano venne a studiare la fisica. Non voglio tediarvi con i ricordi di un vecchio. Questa buona famiglia ha perso un figlio nella guerra contro i nazisti. Dopo molti anni di dolore ha deciso di trasformare le ceneri del cordoglio in una luce di speranza. Studiare, insegnare: questa è la speranza. È un modo di favorire il superamento dell'ignoranza, dell'avidità e della crudeltà. La famiglia ha dato il nome del figlio caduto a una borsa di studio per dottorandi che oggi è stata assegnata per la prima volta al signor... al rabbino Gershon Loran. Loran. Credo si tratti anche del nome di uno strumento per la navigazione, vero? Vedete? Non sono poi tanto amante della vita tranquilla e contemplativa da non accorgermi del mondo che mi circonda.» Qualcuno si mosse e si udirono delle risatine. Gershon sentiva il rombo del sangue nelle orecchie. Vide il flebile sorriso di Arthur. «Con questo gesto la famiglia Leiden dimostra di essere rimasta fedele alla tradizione morale che ha consentito al popolo ebraico di sopravvivere per migliaia di anni a dispetto delle violente tempeste che si sono scatenate sopra le nostre teste. Ed è per me un onore personale essere qui e partecipare a questo gesto di risanamento, con cui si stende un abito di grazia sulle macchie passate.» | << | < | > | >> |Pagina 262«A proposito del nuovo cappellano, ho sentito dire che suo padre è Charles Leiden.»Gershon fissò Meron. «Chi te l'ha detto?» «Non ricordo.» «Sì, è suo padre.» «Uau. Charles Leiden. Il cappellano si intende di fisica?» «L'ha studiata a Harvard.» «E poi ha sentito la vocazione?» «Qualcosa del genere,John. Dio, non riesco a tenere gli occhi aperti. Scusami. Non sono riuscito a dormire al campo.» «All'inizio mi ero iscritto a fisica ma poi sono passato a ingegneria. Non riuscivo a seguire i ragionamenti. I suoi genitori... i suoi genitori conoscevano Albert Einstein?» «Sì. Lui lo chiamava zio Albert.» «Davvero? Mio Dio! Zio Albert!» «Buonanotte,John.» «Buonanotte, cappellano. Tra poco spengo la luce. Ho quasi terminato la mia serale.» «La luce non mi dà fastidio, John. Sono abituato alla luce.» «Zio Albert. Mio Dio.» Il mattino dopo, nel suo ufficio, Gershon disse a Howard Morten: «Non è necessario che tu vada a dire a tutti chi è il padre del cappellano Leiden». La faccia dell'attendente si fece di fuoco. «Credevo che tu fossi un tipo riservato, Howard.» «Sono orgoglioso che sia suo padre, signore.» «Allora lascia che sia lui a dirlo. D'accordo?» «Sì, signore.» «Non pensavo che avessi la lingua lunga, Howard. Che cosa devo fare stamattina? Una lezione di assistenza spirituale ai ricognitori?» «Sì, signore. Suo padre ha salvato la vita di mio fratello. Io voglio bene a mio fratello. Lo sa quante volte mia madre, mio padre e io abbiamo ringraziato Einstein, Szilard, Oppenheimer, Fermi, Teller e Leiden e tutti quelli che hanno lavorato alla bomba? Mio padre si inventò una preghiera speciale di ringraziamento che recitammo il primo Yom Kippur dopo la guerra. Io ero poco più che un bambino. Lo vidi piangere in sinagoga. Me lo ricordo ancora, signore. Me lo ricordo come se fosse lo scorso Yom Kippur. Piangeva come un bambino, mio padre, mentre ringraziava tutti quegli scienziati per aver costruito la bomba e posto fine alla guerra. Inventò anche una preghiera di ringraziamento per il presidente Truman. Vuole sentire cosa dicevano le sue preghiere?» «No.» «Le ricordo ancora. Le conosco a memoria.» «Howard.» «Sì, signore?» «Prepara la jeep.» «Sì, signore.» | << | < | > | >> |Pagina 336Più tardi quella mattina raggiunsero Hong Kong su un traghetto affollato di cinesi vocianti. Percorsero a piedi vie ampie e strette, piene del clamore di negozi e folla e degli odori dei cibi cotti all'aperto. Camminarono, guardarono, ascoltarono e si parlarono poco. Avevano indossato il cappotto perché l'aria era frizzante e avevano portato le macchine fotografiche. La maggior parte dei cinesi che immortalarono sorrise loro mentre alcuni parvero imbarazzati. Una donna, che stava mangiando riso con le bacchette da una ciotola laccata di bianco al riparo di ceste di patate in un mercato di ortaggi, prese a strillare e si voltò di schiena quando vide le macchine fotografiche puntate su di lei. Videro alti caseggiati di cemento costeggiare molte delle vie che si inerpicavano verso le montagne. Alle finestre era appesa la biancheria ad asciugare. Un enorme cartellone decorato con caratteri orientali annunciava uno spettacolo teatrale. Lì accanto c'era un manifesto pubblicitario della Coca-Cola e, alla stazione di servizio più avanti nella via, il cavallo alato rosso della Mobilgas sospeso in aria sullo sfondo grigio di caseggiati a tre piani con i porticati e il tetto a terrazza. Dai marciapiedi crescevano palme alte e sottili. Un ragazzino con un berretto da baseball rosso scintillante rise timidamente quando Gershon lo fotografò. Un altro lo fissò a occhi sgranati da sopra una ciotola di riso. Visioni congelate sulla pellicola. La sua mente faceva la stessa cosa, congelava le visioni sulla pellicola della memoria? Come funzionava, la memoria? Nessuno lo sapeva veramente. I giapponesi che aveva visto fotografare il monte Fuji che cosa ne facevano delle fotografie? Le veneravano come fossero icone? Non lo sapeva. Non sapeva nulla del mondo in cui viveva da un anno ormai. Ne conosceva la periferia, i volti che gli era concesso fotografare. Era un soldato, e i soldati erano la più periferica delle merci che una cultura potesse esportare. Arthur aveva iniziato a insinuarsi oltre la periferia partecipando alle riunioni degli studenti. Che cosa significava per lui: un gesto di espiazione per suo padre, la cui bomba aveva cancellato periferia e cuore di due città orientali? Gershon non lo sapeva. Perché gli tornavano alla mente tutte queste cose nel clangore di una via di Hong Kong? Non lo sapeva. L'emicrania era ricomparsa e aveva freddo.| << | < | |