Copertina
Autore Richard Powers
Titolo Tre contadini che vanno a ballare...
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 1991, Varianti , pag. 374, cop.fle., dim. 138x217x21 mm , Isbn 978-88-339-1540-1
OriginaleThree Farmers on Their Way to a Dance
EdizioneBeech Tree Books, New York, 1985
TraduttoreLuigi Schenoni
LettoreElisabetta Cavalli, 2004
Classe narrativa statunitense
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Indice

  9  1. Mi preparo per andare a Saint Ives
 18  2. Contadini del Westerwald in marcia verso il ballo, 1914
 31  3. La sistemazione dell'armistizio
 38  4. Il volto del nostro tempo
 50  5. Trois Vierges
 70  6. Due indizi per una Fata Morgana
 81  7. Ritratti in gomma arabica
 94  8. Fronte statico
107  9. Sottovalutare il mercato
122 10. L'utopia navigante
136 11. Complotto di uguali
152 12. L'interesse amoroso
172 13. Celebrità della prima guerra mondiale
184 14. Arruolamento e vocazione
199 15. L'inganno biografico
213 16. Abito nel possibile
225 17. Una nazione occupata
242 18. Sulle tracce della manna piovuta dal cielo
262 19. La riproduzione accessibile e a buon mercato
278 20. Notizie da fuori città
298 21. Prendere una coincidenza
312 22. La prova dell'immigrante
324 23. C'è sempre una possibilità
339 24. E abbiamo preso possesso della nostra eredità
349 25. Guardare
355 26. Il momento meccanico
364 27. Arrivo al ballo
 

 

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Pagina 9

Capitolo 1

Mi preparo per andare a Saint Ives


                Gatti, gattini, sacchi, mogli:
                quanti stavano andando a Saint Ives?


Per un terzo di secolo sono andato avanti benissimo facendo a meno di Detroit. Prima di tutto, le automobili non mi piacciono e non ne ho mai avuta una. L'odore di qualche cosa che assomigli anche lontanamente a quello dei sedili di una macchina mi fa venire la chinetosi. Solo per questo la Città dei Motori è sempre stata decisamente al terz'ultimo posto nell'elenco delle città-americane-che-mi-piacerebbe-visitare. Per attenuare il disagio del viaggio ho sempre contato sul panorama, e il «panorama di Detroit» mi sembrava una contraddizione in termini, come «attrice del cinema», «tumore benigno», «signori della stampa» o «diplomazia americana». Avevo ignorato con successo quella città dall'età della ragione, ma un giorno di due anni fa Detroit mi tese una trappola prima che potessi scansarmi dalla sua strada.

L'Early Riser, il primo treno del mattino proveniente da Chicago, mi depositò alla Grand Trunk Station, un bellissimo edificio inaugurato tra i marmi ma ora sepolto nel compensato. Lasciai la mia borsona al deposito bagagli, un luogo pubblico semibuio che puzzava di urina e di storia. Parenti chiamati da un mandato di comparizione aspettavano i viaggiatori in arrivo sotto il fragore di un altoparlante da cui sgorgavano melodie familiari e rassicuranti.

Cento anni fa la Grand Trunk Station doveva aver fatto accelerare le pulsazioni. Pilastri dell'American Municipal sostenevano una volta alta più di quindici metri con complicati capitelli corinzi: l'America che copia l'Inghilterra che copia la Francia che copia Roma che copia i greci. Sulla cupola di rame con una decorazione floreale in ceramica si vedevano le scritte d'obbligo di Cicerone e di Bill Taft. In quel momento la sua opulenza faceva sembrare la stazione un mausoleo, vuoto a parte i dirigenti scesi dall'Early Riser che si facevano strada nella sala rotonda in fila indiana.

Mi accodai automaticamente, sensibile al tracciato della stazione. Il soffitto che si librava in alto sembrava sproporzionato per le dimensioni della sala. Quando gli occhi si abituarono alla luce di Detroit, a intensità industriale, mi venne un colpo, lo stesso tipo di colpo che avevo provato quando, da bambino, in una piscina pubblica, avevo visto un mutilato di guerra togliersi la gamba prima di tuffarsi. Anche l'antica stazione era stata amputata in modo simile: il corridoio che percorrevo non aveva la lunghezza della stazione ma solo la sua larghezza. La Grand Trunk Station era stata mandata a fare i bagagli: delle assi di compensato escludevano ali suntuose e cancelli multipli, lasciando solo questa corsia per i polli tra il solitario marciapiede di arrivo e l'uscita principale.

Cambiare treno a Detroit era il modo più economico, se non il più rapido, di andare da Chicago a Boston. Tariffe drasticamente ridotte pubblicizzavano un nuovo treno, il Technoliner, per il primo mese di funzionamento. In seguito questa linea venne chiusa, perché i frequentatori del Technoliner hanno dimenticato Detroit molto tempo fa per Houston e per la California settentrionale, e ancora prima hanno dimenticato il treno per l'aereo. Un altro caso in cui le nostre ferrovie sono in ritardo. Comunque scesi fino all'altezza di Toledo per approfittare della tariffa ridotta.

Quando sono in quattrini posso anche lasciare il pasto a metà, nei ristoranti, come ogni ricco che si rispetti. Ho lottato molto per superare la mia naturale tirchieria. Ma quando sono a corto di soldi - un avvenimento ciclico analogo agli alti e bassi dell'economia americana dell'ultimo secolo - ritorno facilmente alle vecchie abitudini. Questo viaggio mi aveva trovato di nuovo al verde, perché avevo appena passato un anno nella parte più fuori mano dell'Illinois a inseguire un affaruccio che non aveva reso neanche una pepita. «Pepita» deriva, suppongo, dall'epoca dei cercatori d'oro. Lampi nel crivello. Ho passato la prima parte dei miei trent'anni nell'isolamento, a caccia di pepite.

Con la mia preparazione tecnica sapevo che avrei potuto trovare lavoro a Boston purché fossi stato in grado di versare una caparra per un monolocale ammobiliato e avere ancora abbastanza liquidi per far pulire in lavanderia il vestito che mettevo per i colloqui. Il mio margine monetario, molto marginale in questo caso, non mi preoccupava tanto quanto il problema immediato di come passare le sei ore tra l'Early Riser e il Technoliner in una città che fino a quel momento avevo esaltato evitandola. Ero io contro la chinetosi nella Città delle Auto.

Ma come succede qualche volta quando si ammazza il tempo, nella mia breve sosta a Detroit dovevo imbattermi in qualche cosa che non avrebbe ammazzato solo sei ore, ma tutto l'anno successivo e anche di più, prima che potessi venirci a patti. Setacciando il centro per trovare qualche novità che mi potesse far passare dieci minuti, non immaginavo che i dieci mesi successivi mi avrebbero visto ossessionato da tutto quello che potevo imparare sulla Città dei Motori e sul contadino, che aveva fatto solo le elementari, il quale l'aveva messa sulla carta geografica.

Quando feci quella sosta, già da qualche tempo Detroit stava vivendo una rinascita prefabbricata e molto pubblicizzata. Il simbolo di questo nuovo periodo era il Renaissance Center, forse il più ambizioso progetto edilizio degli ultimi tempi. Le sue cinque torri nere riducono le dimensioni del resto della città nello stesso modo in cui la cattedrale di Chartres fa sembrare piccola la città che la circonda. Quattro cilindri fiancheggiano un massiccio pilastro centrale, e tutti sono rivestiti da lastre di vetro nero che sembrano pendere dalle travi, in Stile Internazionale camuffato.

Ma se la città non fosse stata già morta, avrebbe avuto bisogno di una rinascita? Il nome «Renaissance Center» fa pensare a una campagna pubblicitaria che presenti una marca di detersivo come «il prodotto che cercavi da tempo», o a un ristorante che proclami in tono rassicurante «Qui serviamo veri pasti». E, proprio come diciamo a un vecchio vedovo «Ha proprio un bell'aspetto, sa?» per dire che non dovrebbe forzare la propria sorte, i cittadini più eminenti di Detroit, battezzando in quel modo il Renaissance Center, avevano implicato che sarebbero stati contenti se la città, a questo punto, avesse potuto chiudere in parità.

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Pagina 81

Capitolo 7

Ritratti in gomma arabica


            Il mondo che esisteva e le idee che l'hanno formato
            sono scomparsi (...) lungo i corridoi di agosto e
            dei mesi seguenti.
                            BARBARA TUCHMAN, The Guns o/ August


E così dopo aver passato appena un po' di tempo a Boston avevo perduto sia l'impressione mistica sia il senso fisico di quella fotografia di Detroit. Mi ero imbattuto in quei volti per caso, ma era stato anche il graduale accumulo degli avvenimenti quotidiani che li avevano offuscati e sovraesposti. Perché le tre figure sulla strada fangosa non avevano un nome che li ancorasse a un più solido strato di associazione. I racconti rimangono in mente più a lungo delle sensazioni quasi religiose.

E, lo devo ammettere, la dimenticanza rendeva la mia vita meno ansiosa, più tranquilla. Siamo fortunati che i nostri ricordi abbiano una persistenza fisica di tanto inferiore a quella che ci si potrebbe aspettare. Riuscire a dimenticare un braccio rotto di solito compensa il fastidio della cattiva memoria. Ma quella volta l'alternanza non era certo una buona cosa. Se anche protegge dalla ripetizione del taglio, la debolezza della memoria rimanda anche il taglio necessario del chirurgo.

Non riuscivo più a richiamare alla mente con un atto volontario il soggetto della foto in bianco e nero che mi aveva turbato tanto profondamente. Eppure c'erano dei momenti, sia pure sempre più isolati, apparentemente spontanei o provocati da deboli associazioni, in cui l'insistenza e la chiarezza di quei tre contadini che guardavano sopra la spalla destra ritornavano a me con tutta la loro forza. Mi sentivo come il vecchio vedovo che, quindici anni dopo la morte della moglie, si chiede che cosa può trattenerla tanto a lungo in una mattina tanto bella.

Ma non potevo conservare quei momenti di un quarto d'ora di chiarezza, in cui i contadini scendevano di nuovo la strada, più a lungo di quanto il vedovo possa conservare la sua confusione. Quando riuscivo a distinguere la forma di quei vestiti scuri e di quei bastoni le mie sensazioni rivivevano tanto forti da sembrare l'unico istante di lucidità in settimane di tempo perduto. In ufficio sentendo pronunciare il nome «Revere» da un bostoniano autentico, capii per errore il cognome Rivera e mi sentii ritornare immediatamente dentro i murales della linea di montaggio a Detroit. La mia sensazione di essere ritornato mentalmente sano era stata tanto forte che prima che la mia decisione potesse sfuggirmi andai immediatamente al telefono e prenotai un posto sul primo volo per il Michigan. Avevo quasi completato l'operazione quando l'impiegato mi fece attendere in linea. La musica trasmessa via cavo, pura morfina tecnologica, non era decisamente There's a Long, Long Night of Waiting. Mi sentii piuttosto sciocco e riattaccai.

Convinto che la mia memoria stesse deteriorandosi, cominciai a tenere un taccuino di appunti. Stavo alzato fino a tardi, e sotto l'influenza del caffè nero riempivo pagine e pagine di ricordi forzati e di esercizi di concentrazione. Mi svegliavo la mattina, desideroso di vedere, scritte a mano sulle pagine, delle rivelazioni che aspettavano solo me. Mi allungavo per prendere il taccuino ancora aperto e rileggevo quello che avevo scritto la sera prima. Quella piccola parte che era leggibile la trovavo romanticamente incongruente.

La maggior parte del tempo la passavo in un tranquillo disinteresse. Mentre non riuscivo a ricordare l'urgenza della fotografia avevo anche dimenticato di prendermela troppo per il fatto di aver dimenticato. Di sera continuavo a fare ricerche su quegli elementi che riuscivo a ricordare dalla mia lacuna di Detroit, ma avevo perso di vista lo scopo. Non si rivelava nessun complotto. Nei fine settimana mi attaccavo alla guida e giravo a piedi per Boston. Il Freedom Trail era la mia felice monotonia.

Le interruzioni della memoria, per quanto scarse, erano abbastanza violente da costringere a notarle. Tre uomini camminano lungo una strada fangosa di pomeriggio inoltrato, due evidentemente giovani, l'altro di età indefinita. Quando mi ritornava alla mente quella riproduzione meccanica sentivo la vergogna della trascuratezza che provo sempre in quei sogni in cui mio padre, che ha ceduto al cancro quando avevo ventun'anni, viene a sedersi sulla punta del mio letto e dice: «Mi hai dimenticato? Che cosa credi che sia, morto?» I contadini, guardando al di sopra della spalla destra, mi accusavano dello stesso delitto. Il loro sguardo verso l'obiettivo, quando mi era chiaro, sembrava un invito a sperimentare qualche cosa di cui non sapevo niente.

Più forte della loro accusa era la mia paura che qualsiasi mossa improvvisa da parte mia potesse dissolvere ancora una volta l'immagine. Ma di solito la paura se ne andava da sola. Sembrava che fossi diretto verso un periodo in cui l'ansietà del ricordo sarebbe presto stata presente senza nessun senso dell'immagine che la costituiva.

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Pagina 136

Capitolo 11

Complotto di uguali


        Dal sonno di mia madre caddi dentro allo Stato.
        RANDAL JARRELL, The Death of the Ball Turret Gunner


Fino allo scoppio della guerra la vita militare aveva fatto poco per arrestare in Adolphe il cambiamento che era iniziato quando i due stranieri avevano invaso la sua casa ed erano diventati tedeschi. In particolar modo l'aveva contagiato Peter, bambino irresponsabile che influenzava un ragazzo più vecchio, precocemente maturato. Il padre adottivo di Adolphe gli aveva insegnato molto presto che la disorganizzazione e il piacere erano forme di pazzia. La routine quotidiana della fattoria nel Westerwald, più disgustosa per la noia che per lo sforzo fisico, aveva portato l'età del ragazzo direttamente da dodici a diciotto anni, facendogli saltare gli anni intermedi. Ma quando Peter e Hubert arrivarono alla conquista del vecchio mondo Adolphe cominciò a ricuperare il tempo perduto.

Nella fattoria il suo cambiamento era rimasto nascosto. Inclinava il cappello per imitare il modo in cui lo portava Peter e diceva un paio di oscenità ridendo sotto i baffi, ma quando veniva messo alla prova, quando i suoi genitori si rivolgevano a lui per sostenere la Croce e la Corona lui si comportava splendidamente. Il vecchio incantesimo dell'ordine teneva ancora sotto chiave il profumo dell'alterità. Se non fosse arrivato al momento opportuno il reclutamento obbligatorio, Adolphe sarebbe diventato adulto avendo raggiunto un compromesso più o meno insoddisfacente tra le due tendenze. Ma la guerra, per definizione, semina il bisogno di compromessi.

Venendo per la prima volta a contatto con la vivacità del suo battaglione Adolphe fu piacevolmente sorpreso. Trovò molto più facile disubbidire ai suoi superiori di quanto non era stato sfidare i suoi genitori. Dopo tutto questi ultimi gli avevano dato tutto; il caporale del suo reparto, invece, gli diede solo tre pezzi di sapone che puzzavano di animali in decomposizione, una brandina portatile troppo pesante perché valesse la pena di trasportarla e un corredo metallico per la mensa, i cui piatti, cucchiai e tazze in lamiera stampata si accatastavano ordinatamente uno dentro l'altro e si potevano riporre in pochissimo spazio. Per due ore, dopo averlo ricevuto in dotazione, Adolphe scompose e ricompose il corredo, deliziato dall'abilità del progettista che aveva ideato una simile meraviglia di economia.

Ma la gioia di Adolphe finì, e il suo disprezzo per il grassoccio caporale aumentò quando scoprì, guardando la branda vicina, su cui era sdraiato un altro diciannovenne, profondamente concentrato sul proprio corredo, che a lui mancava un pezzo: una ciotola per la minestra di dieci centimetri di diametro. Adolphe protestò immediatamente. Il caporale disse che i corredi venivano distribuiti completi; Adolphe doveva avere perduto la sua ciotola. Non avrebbe potuto ottenerne una nuova a meno che non fosse morto, non fosse risuscitato e non si fosse arruolato di nuovo. Adolphe gli diede del porco e per la prima volta venne deferito alla commissione disciplinare.

Invece di avere solo un Peter e un Hubert a provocarlo, adesso Adolphe mangiava, si lavava, dormiva, faceva le esercitazioni e soffriva con un centinaio di entrambi. La Germania, incapace di prevedere le implicazioni della guerra integrale, commise lo stesso errore delle altre grandi potenze. Ogni nazione ammassava la fanteria secondo il luogo di origine dei soldati. Una conversione sbagliata alla Somme e si perdevano intere città. Così il reparto di Adolphe era costituito esclusivamente da diciannovenni del Westerwald, molti dei quali erano stati al ballo del Primo Maggio soltanto due mesi prima. L'addestramento di base fu effettuato nel campo estivo. Perfino le severe esercitazioni erano meglio dell'agricoltura: quale ragazzo non avrebbe preferito le ammaccature alla noia?

Poiché tutti i ragazzi si conoscevano, sia pure alla lontana, e poiché tutti erano via da casa per la prima volta, il reparto del Westerwald trasformava ogni sera la caserma in una mischia generale o in quello che poteva tranquillamente passare per tale. Essendo soldati dell'esercito più disciplinato del mondo, le loro baldorie erano in realtà estremamente limitate. Ma per questi ragazzi, e specialmente per Adolphe, rimanere alzati fino alle dieci di sera, far debiti di gioco sulla carta e cantare piano tutti insieme sembrava la cosa più vicina all'anarchia, in quella terra eccessivamente pianificata.

Anzi, cantare e brindare si rivelarono il vero battesimo di Adolphe in un «peterismo» sfrenato. Di solito durante i canti in coro e i tafferugli teutonicamente contenuti Adolphe stava seduto sulla sua branda, nascondendo la sua incapacità di stare in società e sorridendo stupidamente. Poi una sera, dopo circa due settimane di servizio militare, venne invaso da un impulso inconciliabile con il suo carattere fondamentale. Gli vennero spontaneamente in mente dei versi, una parodia dell'inno del battaglione, un vecchio inno protestante che faceva:

            Oh, mio Dio, niente ci capiterà,
            Neppure il più piccolo male
            Se non per Tua volontà.

Ad Adolphe la parodia venne spontaneamente, segno che era destinata al divertimento del pubblico. Aspettò una pausa dei festeggiamenti, poi prese la parola tra la sorpresa generale. In quello che riteneva un buon accento da sala concerti berlinese, ma somigliando di più a un venditore di salsicce di Monaco, annunciò:

- Signore, per il piacere delle vostre orecchie, direttamente da Bayreuth...

E nella sua voce limpida, ancora da tenore d'opera, piena di vibrati classici, cantò a gran voce:

            Oh, mio Dio, che cosa ci capiterà?
            Le più piccole palle
            Sono quelle del nostro sergente.

La camerata esplose, iniziando con una gioia tedesca provocata dalla birra e finendo in un isterismo interamente francese. I giovani batterono i piedi e applaudirono, picchiarono sui loro corredi per la mensa e chiesero il resto. Dato che la manifestazione non accennava a finire, la polizia militare si riversò nella camerata e minacciò di arrestare il primo che avesse aperto bocca. Nel silenzio che seguì qualcuno cominciò a canticchiare l'inno. Immediatamente tutta la truppa si imbarcò in un corale a bocca chiusa per quattro parti, con ostinati ridacchiamenti.

L'ilarità continuò dopo che la polizia militare se ne fu andata, se non altro sul piano più limitato dell'immaginazione condivisa. Ogni ragazzo fece il pellegrinaggio fino alla branda di Adolphe per congratularsi con lui del bel lavoro. Ogni ragazzo, quindi, commise un atto di complicità nell'impresa. Eppure il giorno dopo un ragazzo che non si sarebbe mai rivelato, mettendo in pratica la responsabilità collettiva, indicò alle autorità Adolphe come colui che aveva provocato la baraonda della sera prima. Questa volta la commissione disciplinare lo condannò a un breve periodo di consegna.

In minor tempo di quello trascorso da quando aveva conosciuto suo fratello Peter, Adolphe aveva già messo insieme un passato di agitatore politico dilettante. Ma Adolphe non aveva nessuna ambizione, né politica né di altro genere. E neppure stava diventando cinico o perdendo l'antico rispetto della classe lavoratrice per le autorità. Non stava barattando le buone maniere piene di rispetto con il nichilismo mondano. Aveva solo imparato dal suo fratellastro olandese che in pubblico un po' di pazzia faceva più impressione della serietà.

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Pagina 213

Capitolo 16

Abito nel possibile


        Non esiste nessun modo di esistenza indipendente.
        Ogni entità deve venire compresa solo nei termini
        del modo in cui è interconnessa con il resto
        dell'universo.
                                   ALFRED NORTH WHITEHEAD

La sera della festa di Natale dell'ufficio uscii dalla casa del mio capo molto più tardi di quanto non avessi previsto. Sulla South Shore cadeva dappertutto una neve a fiocchi grossi e lenti. Anche se per tutto il pomeriggio non avevo bevuto niente di più forte di un eggnog, mi sentivo di buonumore per aver vinto, per una volta, le qualità da vecchia zitella che avevo coltivato da quando avevo vent'anni e che di solito trasformavano i miei giorni di festa in esercitazioni di protezione civile.

Se non fossi stato spinto a fare un'apparizione simbolica alla festa non avrei mai conosciuto la signora Schreck, tanto sono distinti il primo e il secondo turno nel mondo del lavoro americano. Oltre agli indizi che potevano finalmente farmi procedere verso il recupero della foto e la sensazione oceanica di quel giorno ormai lontano a Detroit, la signora Schreck mi aveva dato due ore della sua vita, parlando lungamente dei suoi ricordi, della Grande Guerra, dell'esperienza dell'immigrazione. Era più vecchia di mia nonna e non parlava quasi inglese, ma tuttavia avevo acquisito per lei, in poche ore, una simpatia che riservo normalmente agli amici di una vita. Sul treno che mi riportava in città dirigendosi verso nord tra la neve che si stava oscurando ripensai di nuovo a com'ero andato alla ricerca di Zander per mesi, mentre Sander era là nel mio ufficio tutte le sere, un quarto d'ora dopo che me n'ero andato.

Quella sera, quando tornai a casa, presi la decisione di restare in ufficio fino a tardi almeno due sere la settimana, per continuare la mia amicizia con la signora Schreck e vedere che cos'altro potevo imparare da lei. Ma come m'era accaduto con quelle decisioni bene intenzionate e ammesse apertamente che avevo preso il giorno dei murales di Rivera, venni meno quasi immediatamente anche a questa. La mia sensazione di benessere, il mio impulso di vedere più spesso la signora Schreck non durarono per tutta la mattina dopo. Invece, per parecchi giorni lavorativi di seguito, uscii qualche minuto prima proprio per non incontrarla. Dopo avere ascoltato quei racconti penosamente narrati in pidgin english - un'infanzia passata a portata d'orecchio delle trincee, una famiglia decimata dal sistema degli Stati nazionali, una seconda catastrofe e decimazione e il lungo viaggio fino a un'altra nazione su una Nave dei Pazzi - dopo avere udito la storia che mi aveva rivelato, non volevo vederla in divisa da donna delle pulizie sotto le luci fluorescenti del nostro comune ufficio. Non potevo collegare un mondo all'altro, e non volevo vedere entrambi occupare lo stesso spazio.

Forse disorientai o ferii la signora Schreck con questa ritirata, dopo un primo incontro tanto caloroso. Tranquillizzai la mia coscienza sostenendo che non avevamo fatto progetti per incontrarci in futuro, e che risparmiavo anche a lei la vergogna di apparire nell'abito del presente. I miseri cioccolatini che continuavano ad apparire e, l'ultimo giorno lavorativo dell'anno, secondo il costume olandese, la lettera P, la mia ultima iniziale, di cioccolata mi fecero sentire spregevole. Eppure continuai a uscire presto.

Le sue notizie sulla fotografia - le sue conoscenze privilegiate che potevano riempire le lacune della mia ricerca, le sue esperienze personali che potevano finalmente far coagulare le mie letture mi spaventavano quanto il pensiero di vederla sotto le luci fluorescenti. Non che la mia curiosità fosse diminuita. Tutti i giorni, mentre frugavo nel cassetto alla ricerca di un paio di calzini, mentre procedevo faticosamente attraverso i cumuli di neve andando al lavoro, o mi scaldavo qualche cosa da mangiare per cena, pensavo ai nomi che mi aveva detto e a come essi potessero rimpolpare e completare la mia immagine del 1914 e della fotografia. Familiare com'ero diventato con la parte in fondo del secondo piano della biblioteca pubblica, dove tenevano i libri di storia, potevo ormai arrivare, in venti minuti, direttamente a una riproduzione di quei tre contadini. L'idea mi terrorizzava.

Tanto per cominciare, avevo paura che le informazioni della signora Schreck mi avrebbero portato a una foto identica a quella che mi aveva affascinato tanto tempo prima, ma nello stesso tempo differente. Mi ero soffermato tanto a lungo su quella che ricordavo che sicuramente doveva essersi modificata, doveva avere assunto una sua propria autorità. Non mi andava molto provare quanto fosse inattendibile la mia memoria. Inoltre il coinvolgimento personale della signora Schreck nella foto mi portò a credere che ero stato presuntuoso a pensare al ritratto come alla «mia foto» e ai «miei contadini». Ero un egoista che si era occupato a tempo perso e in modo dilettantesco della politica di un'altra epoca - della vita e della morte di dieci milioni di persone - unicamente perché era più interessante del lavoro di tutti i giorni. Infine avevo paura di arrivare allo scopo ultimo di tutti i miei sforzi e, con il successo, di mettere fine a quella che era stata la mia unica distrazione.

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