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| << | < | > | >> |Indice7 Prefazione 11 Un mondo in equilibrio 19 La rivoluzione neolitica 33 La colonizzazione romana 55 L'Alto Medioevo e la reazione selvosa 71 L'età dei Comuni 93 La natura nel Rinascimento 115 La Controriforma e l'età dei Lumi 139 Il secolo delle cacce e delle bonifiche 161 Il Novecento 183 La natura oggi 207 Il colore della natura nella storia 233 Note 241 Dibliografia |
| << | < | > | >> |Pagina 11Per potersi render conto delle trasformazioni indotte dall'attività umana nell'ambiente naturale è indispensabile fornire un'idea, sia pure grossolana e superficiale, di come dovesse presentarsi il nostro paese dopo l'ultima glaciazione, cioè dopo l'8000 avanti Cristo, alla fine del tardo Glaciale wurmiano. In quell'epoca la presenza umana, ridotta al minimo, era costituita da pochi e sparsi nuclei di cacciatori-raccoglitori del Paleolitico superiore e del Mesolitico, periodo quest'ultimo che giunge fino al 6500 a.C. Secondo una stima approssimativa basata sull'analogia con popolazioni attuali di cacciatori-raccoglitori in ambienti simili, l'intera popolazione italica non avrebbe dovuto superare, nel Paleolitico superiore, i 60.000 individui (pari a un individuo ogní 5 km quadrati). Il nostro territorio - uscito da una fase climatica fredda in cui predominavano paesaggi di tundra e di boscaglie a betulla e pino silvestre - appariva come un'unica immensa foresta da cui emergevano solo le falesie rocciose e le vette montuose al di sopra dei 2000-2500 metri, altezza che rappresenta l'attuale limite della vegetazione arborea. In pianura le uniche aree non ricoperte dai boschi erano le grandi lagune salmastre costiere, le paludi profonde, i laghi, i corsi dei fiumi. Le ricerche polliniche eseguite nelle torbiere (veri archivi della storia della vegetazione) ci offrono notizie abbastanza esaurienti sulla composizione della grande selva italica alle soglie del Neolitico. Sulle Alpi i larici, i pini silvestri, gli abeti, i cembri costituivano foreste non dissimili da quelle che i primi esploratori europei trovarono sulla costa occidentale degli Stati Uniti. Abeti rossi e larici alti fino a 50 metri, abeti bianchi di 65 metri e piú, su un sottobosco umido e ombroso formato da felci, licheni, muschi e mirtilli. E poi faggi, roveri, betulle, aceri, pini silvestri, tutti di notevoli moli e altezze, che occupavano areali a diversa situazione pedologica e climatica. E dove l'altitudine non consentiva piú l'insediarsi della vegetazione arborea, una fascia di folti arbusteti di pini mughi, rododendri, ontani, segnava il trapasso alle praterie alpine, ai brecciai e ai ghiacciai. Nella Pianura Padana - in molte zone paludose per il divagare del Po e dei suoi affluenti e per il lento ritiro del mare terziario - dominavano le latifoglie: ontani, farnie, tigli, olmi, spesso con il pedale immerso nell'acqua. Anche in questi casi le dimensioni degli esemplari apparivano ingenti: farnie e roveri potevano raggiungere i 50 metri dal suolo su uno strato arbustivo composto da noccioli, sambuchi, evonimi, viburni, ligustri che emergevano su un denso spessore di felci e piante erbacee. L'Appennino appariva coperto fin quasi sulle cime piú alte da una folta foresta di faggi e aceri spesso misti con abeti bianchi: i primi due allargavano le chiome fino a 40 metri di altezza (come un edificio di 12 piani), superate solo da quelle piú scure degli abeti. Nelle aree altitudinali piú basse regnava la foresta mesofila con cerri, ornielli, aceri campestri, carpini, roverelle. I territori piú prossimi al mare o sottoposti al suo influsso climatico, erano occupati dalla selva sempreverde con lecci alti anche 20-25 metri, sughere immani, in qualche luogo forse anche pini marittimi e d'Aleppo. Una associazione che, negli areali piú caldi e aridi del meridione e delle isole, era in parte sostituita da foreste di oleastri, carrubi e lentischi anche grandissimi, mentre nei settori rocciosi piú esposti si stendevano macchie impenetrabili di palme nane e di ginepri di Fenicia. Le specie classiche della macchia mediterranea (mirto, fillirea, corbezzolo, alaterno, erica) interessavano, anche con esemplari colossali, le fasce marginali e le aree ove il fuoco generato dai fulmini e il successivo pascolo degli erbivori selvatici (cervi, daini, caprioli e mufloni) non avessero consentito lo svilupparsi della lecceta. Le grandi paludi costiere e interne erano caratterizzate dalla foresta umida con farnie, frassini, pioppi, salici, ontani. I corsi d'acqua, che presentavano dimensioni, portate e regimi ben piú stabili e superiori agli attuali (molti di essi, oggi ridotti a torrenti, erano navigabili fino in età storica) apparivano spesso coperti dalle scure arcate della foresta ripariale a galleria che ne accompagnava il distendersi nelle pianure paludose e boscose. | << | < | > | >> |Pagina 204[...] L'aumento delle aree protette (che nel 2000 hanno raggiunto una percentuale di circa il 10% del territorio nazionale), la diminuzione del numero dei cacciatori (nel 2000 sono stati circa 800.000), la cessazione (dal 1970) del prosciugamento delle paludi e la loro messa in protezione per una percentuale notevole, un atteggiamento generale piú «amichevole» nei confronti degli animali, hanno portato, negli ultimi dieci anni, a un graduale recupero della fauna selvatica. Caprioli, cervi e cinghiali stanno lentamente riconquistando gli areali appenninici (dai quali per un secolo erano stati estromessi), grazie anche ad accorte operazioni di reintroduzione. Il lupo ha ormai rioccupato tutti gli spazi possibili, partendo, come si è detto, da una popolazione di soli 100 esemplari nel 1973 e arrivando ai circa 500 esemplari attuali, tornando a fare la sua comparsa sulle Alpi (ultime osservazioni nel Parco Gran Paradiso e in quello dello Stelvio) e anche in Francia e Svizzera. Camosci e stambecchi sono anch'essi in aumento e il cervo sardo, da una situazione di grave sofferenza nei primi anni '80, oggi mostra una considerevole consistenza, superando di molto i 1000 esemplari, come del resto il muflone in Sardegna. Non cattive anche le prospettive per l'istrice. Per gli uccelli, l'aquila ha ormai una situazione consolidata sulle Alpi, mentre desta ancora preoccupazioni sull'Appennino, in Sicilia e Sardegna. Gli avvoltoi, a parte il ritorno, grazie a reintroduzioni sulle Alpi, del gipeto, sono ancora in pericolo, causa soprattutto la vergognosa e vietata pratica dei cosiddetti «bocconi avvelenati». Una piccola popolazione di grifone, estinto nel resto della Sardegna, sopravvive, aiutato da reimmissioni di individui dalla Spagna, sulla costa occidentale. Un'altra è stata da poco creata nell'Appennino abruzzese. Segnali positivi, negli ultimi dieci anni, registrano gli uccelli legati alle zone umide, oggi in gran parte protette. Sono cosí tornati a nidificare in Italia la cicogna bianca, la cicogna nera, il fenicottero, il cavalier d'Italia, l'avocetta, la pittima reale, la volpoca, la spatola, l'airone bianco maggiore, mentre per altre specie il panorama rimane scuro: tra queste la foca monaca, restata in pochissimi individui, la lontra, l'aquila del Bonelli, il capovaccaio, la gallina prataiola, il gobbo rugginoso, il gabbiano corso. Desta preoccupazione, inoltre, il calo numerico grave di specie di alta montagna, minacciate dal cambiamento climatico che riduce le precipitazioni nevose, da una caccia ancora intensa e da un disturbo sempre piú esteso causato dal turismo in alta quota: presentano cosí problemi la pernice bianca, il gallo cedrone, il fagiano di monte, la coturnice, la lepre variabile, tutte specie relitte di altre ere climatiche alle quali dovrebbe essere risparmiata, almeno, la persecuzione esercitata dai cacciatori.
Infine - come accade un po' in tutto il mondo per cause
diverse tra le quali la piú probabile è l'aumento delle
radiazioni ultraviolette a carico degli embrioni - vi sono
gravi timori per il calo apparentemente inarrestabile
mostrato dagli anfibi, soprattutto quelli appartenenti
all'ordine degli urodeli.
Questa, per sommi capi, la storia della natura italiana. Non abbiamo voluto approfondire temi riguardanti, soprattutto negli ultimi anni, l'inquinamento atmosferico e del suolo, il disagio urbano, le modificazioni climatiche. Si è trattato di un rapido e sicuramente superficiale percorso con il solo scopo di tratteggiare l'evoluzione che ha portato a trasformare la primigenia stupenda foresta di 10.000 anni fa nel paesaggio che oggi conosciamo. |
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