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| << | < | > | >> |IndiceLA GRANDE HOLLYWOOD 9 Introduzione 17 Le teorie sul cinema classico americano, dal 1970 a oggi 19 Il subversive text: lo stile oltre la storia 22 Feminist Film Theory e cinema classico: perdita e riconquista del piacere 28 I dispositivi formali del film classico: la teoria di Raymond Bellour 31 La proposta di David Bordwell & Co.: il modello classico come film ordinario 36 Metacritica e nuove proposte di fine anni ottanta: il film classico e la tradizione melodrammatica 44 Cinema classico e «modernità» 49 Il cinema dei primi anni trenta: modernità e autoaffermazione femminile 51 Cinema e New Woman: desiderio, affermazione, attrazione 55 Il dinamismo visivo e la sovrimpressione 67 Sessualità/Maternità/Esibizione: L'eccesso di 'Venere Bionda' 72 Visionarietà e mobilità sociale: 'La danza delle luci' 79 Ordine, parola, razionalità: l'apogeo del modello classico 79 Verso desideri normativi e sobrietà visive 86 'Accadde una notte': la flapper si sposa 94 Screwball comedy e scrittura classica: 'Susanna' 103 Uomini forti e film biografico: 'Emilio Zola' 110 Uomini forti e film d'avventura: 'Avventurieri dell'aria' 121 Il soggetto maschile del noir: tra sguardo impotente e desiderio di conoscenza 121 Crisi del soggetto, crisi della rappresentazione 126 Visione/Soggettività/Modernità 135 Sguardo e conoscenza: 'L'ombra del passato' e 'La fuga' 142 Parola, verità, Edipo: 'La fiamma del peccato' e 'Notte senza fine' 148 Profondità di campo e spazio urbano: 'Sui marciapiedi' 157 Le (dis)avventure del desiderio femminile nel woman's film degli anni quaranta 157 Dinamiche psichiche e scenari sociali del femminile 170 Edipo I. Il rapporto figlia/madre in 'Perdutamente tua' 180 Edipo II. Il rapporto madre/figlia in 'Il romanzo di Mildred' 186 Edipo III. Il rapporto figlia/padre in 'Notorious' 190 Lo sguardo desiderante dello donna in 'Perdutamente' 195 Eccesso, spettacolo, sensazione. Il family melodrama degli anni cinquanta 195 Forme del melodramma 202 Corpo, gender, classe: l'identità maschile negli anni cinquanta 214 Stile, tecniche, identità 220 Sensazione e situazione: 'Picnic' e 'Come le foglie al vento' 223 Doppio stile e modernità: 'A casa dopo l'uragano' 231 Corpo performativo e immagine non-referenziale: gli eccessi del musical 234 La forma del musical: film classico vs film di genere 244 Artificio e soggettività I: 'Le ragazze di Harvey' 251 Artificio e soggettività II: 'Gli uomini preferiscono le bionde' 258 L'immagine non-referenziale: 'Cantando sotto la pioggia' 267 Bibliografia 279 Indice dei nomi 285 Indice dei film |
| << | < | > | >> |Pagina 17Tra la fine degli anni cinquanta e l'inizio degli anni sessanta il critico Andrew Sarris reinterpreta il movimento della politique des auteurs per il contesto americano, contribuendo più di ogni altro all'affermarsi negli Stati Uniti della auteur theory, ovvero la formazione di un canone di autori del cinema hollywoodiano. Sarris è l'esponente più influente di un movimento che, come in Inghilterra, ridisegna la pratica critica cinematografica. Particolarmente forte a New York, la critica autoriale si diffonde attraverso retrospettive e soprattutto sulle pagine di riviste come «Film Culture» e «Film Comment». Anticipata nel famoso saggio di Manny Farber, Underground Films (1957), grazie ai contributi di Sarris in «The Village Voice» e in The American Cinema (1968) questo metodo critico si istituzionalizza. Come Truffaut, Sarris si scaglia polemicamente contro la «tradizione di qualità» e la critica dominante che difendeva il cinema del «realismo sociale» e «l'arte seria», dando invece rilievo, da un lato, a questioni stilistiche e formali, dall'altro, al cinema popolare. Sarris si batte affinché venga riconosciuto il valore artistico del cinema hollywoodiano, stabilendo in The American Cinema una sorta di graduatoria capeggiata dai pantheon directors, i registi più significativi. Come i «giovani turchi», riconosce nel regista l'autore del film e, in sintonia con la prospettiva francese, propone di valutare l'autorialità considerando «la competenza tecnica, la presenza di uno stile visivo distinto e di un significato che nasce dalla tensione tra il regista e le condizioni di produzione in cui lavora». Mentre una più articolata disamina del lavoro di Sarris e della critica autoriale negli anni sessanta va rinviata ad altra sede, ci interessa ricordare come la moderna teoria del testo, che emerge attorno al 1968, si configuri come un vero e proprio «salto di paradigma» rispetto alla auteur theory. In quegli stessi anni lo strutturalismo decreta «la morte dell'autore» e sostiene che l'analisi dei prodotti culturali deve interessarsi alle relazioni che si istituiscono tra gli elementi del testo, ovvero ai modi di produzione del senso. Poiché è il linguaggio a produrre il soggetto, e non viceversa, la nozione di autore entra fortemente in crisi. Il concetto, tuttavia, non scompare, ma viene riproposto da alcuni in chiave strutturalista: si pensi alle proposte di Geoffrey Nowell-Smith su Visconti e di Peter Wollen su Hawks (e Ford). Sotto l'influenza dello strutturalismo lo studio del cinema, e in particolare del cinema classico americano, vive, attorno al 1970, una trasformazione radicale. I modelli di analisi che emergono in questo ambito costituiscono, cronologicamente, i primi riferimenti teorico-metodologici per questo studio. Mentre la convergenza tra lo strutturalismo e la «questione dell'ideologia» è alla base dell'opposizione tra classic realist text e subversive text, l'incontro tra il paradigma strutturalista, la semiologia e la psicoanalisi guida il lavoro di Raymond Bellour. Infine, la riconfigurazione di questi parametri in una prospettiva di gender ispira il saggio di Laura Mulvey Piacere visivo e cinema narrativo e la nascente Feminist Film Theory. | << | < | > | >> |Pagina 49Il cinema americano degli anni trenta presenta due modelli narrativi e due modalità della relazione soggetto/desiderio: il primo caratterizza, in linea di massima, il periodo che va dall'avvento del sonoro alla stagione 1933-1934, il secondo si sviluppa negli anni successivi e continua sino alla fine del decennio. Tale periodizzazione indica delle dominanti, più che delle cesure nette, e soprattutto nel periodo «attorno al 1933-1934» i due modelli coesistono. Tuttavia è indubbio che lo svolgersi del decennio segna un progressivo affermarsi del modello classico. Già Robert Brasillach e Maurice Bardèche, nel 1943, parlavano di classicismo del talkie riferendosi al cinema americano del periodo 1933-1939. Più recentemente, in una prospettiva culturale attenta soprattutto alle forme dell'immaginario cinematografico, Robert Sklar ha parlato di due Golden Age nel cinema degli anni trenta: mentre gli anni della Grande Depressione, «l'età della turbolenza», rappresenterebbero una delle sfide più significative ai valori tradizionali nella storia dell'intrattenimento di massa negli Stati Uniti, nella stagione 1933-1934 il cinema accorre in sostegno del nuovo corso rooseveltiano e comincia a dirigere i propri sforzi nella direzione opposta, promuovendo i valori americani tradizionali, in particolare il patriottismo e l'unità nazionale e, più in generale, l'ordine sociale. Integrata da analisi di ordine estetico-formale e di gender, l'ipotesi di Sklar rimane una tesi valida su cui riflettere ulteriormente. Le configurazioni dominanti del desiderio e della soggettività nelle due epoche sono assai diverse, soprattutto per quanto riguarda il soggetto femminile e il suo rapporto con il maschile. In secondo luogo, i principi estetico-rappresentativi del cinema dei primi anni trenta mostrano elementi residuali del cinema muto, con la presenza di componenti visive e attrazionali che contrastano con la classicità più compiuta, in cui l'aspetto visionario del cinema è sostanzialmente eliminato mentre diventano centrali il dialogo, una marcata sobrietà visiva e una concatenazione più precisa e razionale del racconto. La transizione dall'età della turbolenza a quella dell'ordine si verifica dunque attraverso cambiamenti stilistico-formali che, a loro volta, trovano riscontro in un diverso immaginario che testimonia mutate modalità di essere del soggetto. La modernità urbana emersa nei decenni fra Otto e Novecento ha rivoluzionato la condizione femminile con il passaggio, più che epocale, da una concezione vittoriana della donna e del rapporto tra i sessi, a una visione moderna che ha implicato, in primo luogo, l'abbandono della sfera domestica e l'entrata del soggetto femminile nella sfera pubblica. Il lavoro delle storiche americane ha investigato in modo mirabile, e al tempo stesso affascinante, questo periodo con ricerche che hanno riguardato tutti i fenomeni e le esperienze del «quotidiano femminile» in ambito privato e pubblico, dalle condizioni professionali a quelle abitative, dai rapporti tra donne a quelli con gli uomini, dalle forme del tempo lavorativo alle dinamiche del tempo libero, con particolare attenzione ai modi della fruizione dell'intrattenimento e dell'acquisto di beni di consumo e prodotti di bellezza. Proprio l'ambito dell'intrattenimento e del consumo, secondo gli studi più avanzati, è stato visto come il locus primario dell'emergenza e del consolidarsi di nuove forme del desiderio e dell'identità femminile. In questo processo il cinema, medium visivo per eccellenza del periodo, ha rivestito un ruolo fondamentale. Nancy Cott, studiosa di punta del «moderno femminismo americano», ha mostrato che negli anni venti vi fu «una uniformazione culturale senza precedenti» e che l'immagine della donna emancipata, esportata con successo soprattutto in Germania, fu un elemento imprescindibile di tale fenomeno. Quando radio e cinema diventano, negli anni venti, forme di comunicazione dominanti, diventa possibile rivendicare e diffondere «un unico "modo di vita americano"». Peraltro le star del cinema cominciano a sostituire leader politici, uomini d'affari e artisti nell'ammirazione dei giovani americani.
La nostra analisi si fonda sul presupposto che la fusione dei saperi
relativi alla storia sociale e culturale con quelli estetico-comunicativi è in
grado di spiegare in modo più efficace il cinema americano del periodo,
cinema di massa per eccellenza. Pertanto, l'analisi di tecniche narrative
e formali sarà vista in relazione a quella delle forme della soggettività
dominanti. La scelta di porre maggior enfasi sulle questioni femminili
è dovuta anche alla constatazione che la donna in questo periodo vive
processi di trasformazione ben più importanti e interessanti del soggetto
maschile, divenendo così, nei testi culturali, la figura privilegiata
dell'investigazione narrativa e simbolica.
Negli anni immediatamente successivi all'avvento del sonoro l'immaginario cinematografico si nutre ancora delle figure che avevano popolato gli schermi nei Roaring '20s, oltre a presentare nuovi tipi sociali e modelli comportamentali. Il cinema continua a essere la forma più efficace per rappresentare la vita moderna urbana: in particolare, esso dà voce e visibilità al desiderio di emancipazione e autoaffermazione del soggetto femminile, in piena continuità con il decennio precedente. Studi e indagini dell'epoca, ma anche ricerche recenti sull'audience, hanno rivelato che il pubblico femminile costituiva, negli anni venti e nei primi anni trenta, la maggioranza del pubblico cinematografico, e che l'industria operava in tal senso, investendo maggiormente nei film che attraevano le donne. Melvyn Stokes ha notato che le ricerche sulla composizione dell'audience dell'epoca erano piuttosto impressionistiche, e che probabilmente quasi tutte le indagini compiute avevano dati imprecisi. Tuttavia, la frequenza con cui commentatori e analisti, in pubblicazioni di largo consumo o accademiche, rimarcavano questa convinzione, indica che in realtà esistevano prove convincenti sul predominio dell'audience femminile. E, in ultima analisi, secondo Stokes appare meno importante che le donne fossero veramente la maggioranza che «il fatto che Hollywood comunque credesse che tramite la loro diretta partecipazione o la loro capacità di influenzare gli uomini costituissero il target primario». Questa convinzione ebbe effetti importanti se consideriamo che una grande parte dei film degli anni venti erano melodrammi con protagoniste femminili o storie di romance, mentre nel decennio successivo nacque il woman's film, genere che nella prima metà degli anni trenta rappresentava un quarto delle pellicole in testa al box-office. In un'ottica simile va letta la maggiore rilevanza del divismo femminile su quello maschile nei primi anni trenta, fenomeno alimentato in particolare dalle fan magazine, il cui pubblico era quasi esclusivamente femminile. Altrettanto significativo è che nella seconda metà del decennio il box-office sia invece dominato da bambini e adolescenti, come Shirley Temple e Mickey Rooney, e da divi maschili. I film che le donne inurbate amavano vedere e su cui, dunque, investivano con profitto il proprio desiderio, erano film in cui l'immagine della New Woman palesava tutta la sua forza e la sua attrattiva. La figura della flapper, in particolare, mostra i tratti più innovativi e diventa il modello di riferimento primario. La flapper, impersonata da attrici come Gloria Swanson, Clara Bow e Joan Crawford, è caratterizzata da una grande energia e vitalità. Che si tratti della donna altolocata o della working girl, «l'immagine della nuova donna emana innanzitutto un senso di libertà fisica, movimento non controllato, andatura sicura, grande energia [...] queste donne si muovevano con grande sicurezza nel mondo un tempo riservato agli uomini. Con una spontaneità esplosiva si lanciavano sulle piste da ballo, si tuffavano nelle piscine e accettavano qualsiasi sfida bere, fare sport e spogliarsi , entravano in qualsiasi ambiente lavorativo, ma anche al college e nei circoli sociali, correndo nelle strade della città verso l'ufficio o il negozio con grande baldanza». Segnata dallo spirito di indipendenza e dal desiderio di autoaffermazione, perseguiti anche con un uso libero del corpo e della sessualità, la nuova donna eclissa l'immagine del modello vittoriano, rappresentato sullo schermo dalle eroine deboli, sofferenti e pure del cinema di Griffith interpretate da Lillian Gish e Mary Pickford. Questa dicotomia esprime quella transizione epocale, per la condizione femminile, che gli storici hanno felicemente definito il passaggio dalla «True Womanhood» vittoriana alla «New Womanhood» moderna. Il culto della vera femminilità, affermatosi nella prima metà dell'Ottocento, si fondava su quattro attributi fondamentali, cui la donna doveva sottomettersi pena la sua emarginazione sociale: religiosità, purezza sessuale, sottomissione all'uomo e domesticità. Θ evidente che la nuova femminilità rovescia tutti i valori, promuovendo in particolare l'autodeterminazione, l'abbandono della sfera domestica, l'entrata nel mondo del lavoro, e una certa libertà sessuale. Θ significativo, infatti, che l'atmosfera restauratrice dei secondi anni trenta porti a condannare esplicitamente questi comportamenti auspicando una minore libertà per la donna. L'evento del fallen woman cycle rappresenta il contributo di Hollywood più visibile a questo fenomeno. I film del ciclo, come per esempio i famosi Stella Dallas (Amore sublime, K. Vidor, 1937) e Kitty Foyle (Kitty Foyle ragazza innamorata, S. Wood, 1940) e il meno noto The Bride Walks Out (La forza dell'amore, L. Jason, 1936), e molti altri, mostrano che la donna ribelle viene socialmente marginalizzata e che l'unica possibilità, dopo la trasgressione, è il ritorno nella sfera domestica, la rinuncia all'ascesa sociale e spesso al vero amore, a favore di un marito senza glamour (Kitty Foyle e La forza dell'amore) o della felicità dei figli (Amore sublime). Le nuove libertà sembrano possibili solo per un breve periodo, gli anni eccitanti tra il momento in cui le giovani donne abbandonano la famiglia di origine e il momento in cui si sposano. Evidentemente, la nuova immagine non implica la scomparsa delle precedenti: come altre forme culturali del periodo, il cinema degli anni venti e trenta mette in scena immagini alternative della femminilità (e della mascolinità). Se a inizio anni trenta la figura di riferimento è la donna emancipata, nella seconda parte del decennio l'immagine femminile viene cooptata in un sistema di valori più tradizionali. | << | < | > | >> |Pagina 121La letteratura critica su The Classical Hollywood Cinema ha sottolineato, senza mancare di indicarne i pregi e l'originalità, che la discussione di Bordwell sul noir (e sul melodramma degli anni cinquanta) dimostra in modo palese i limiti della sua stessa teoria sul cinema classico. Contrariamente all'idea che il noir rappresenti un esempio di cinema sovversivo, rispetto al cinema degli anni trenta, Bordwell afferma che esso può essere perfettamente integrato all'interno della classicità. Per lo studioso americano le innovazioni del noir sono motivate dal suo rapporto storico con la detective fiction o con «nuove forme di realismo». Poiché questi parametri sono puramente formali, non possono essere utili a definire la «sovversività» o meno del noir: per questo scopo è necessario, come afferma Douglas Pye, affrontare il cinema in termini di rappresentazione, ovvero considerare «come valori e istituzioni dominanti vengono raffigurati», e quali forme materiali assume la rappresentazione. Dunque, discutere il grado di sovversività di un film richiede l'attivazione di «parametri rappresentativi e stilistici nel senso più stretto». In termini simili, Barton Palmer suggerisce che l'approccio neoformalista di Bordwell non coglie la «questione noir», in quanto questi film, «come unità "socialmente collettiva" nel senso bakhtiniano, interrogano le normali strutture del film hollywoodiano producendone di nuove. L'importanza di queste differenze è, in definitiva, sociale e va vista in relazione alle forme ideologiche e della ricezione. Ma al modello neoformalista, così come allo strutturalismo classico, manca una componente semantica, che dovrebbe interrogare le questioni relative al "significato"». La centralità della nozione di rappresentazione nella nostra analisi è già ampiamente emersa nei capitoli precedenti, dove lo stile e le strutture formali del film sono stati messi in relazione con particolari modelli di soggettività e del rapporto individuo/mondo. Nel film classico il ruolo dominante della narrazione omnisciente e della ripresa oggettiva esprime una rappresentazione unitaria del mondo in perfetta sintonia con la causalità narrativa del racconto. Tali strategie configurano mondi rappresentati altamente leggibili, in cui ruoli e funzioni dei soggetti sono parimenti riconducibili a posizioni previste e codificate. Il personaggio classico esprime la sua essenza nell'azione che traduce in modo a-problematico il suo desiderio. La leggibilità del mondo e dell'azione individuale è sostenuta da una dinamica ulteriore, quella del conflitto e della dialettica, costruita da precise strategie narrative e di regia. Da ultimo, il rapporto spazio/individuo si declina nel controllo del primo da parte del secondo. Il noir e il woman's film rovesciano tutti i paradigmi elencati. Sovente i due generi sono stati giustamente visti «come le due facce della stessa medaglia nel lavoro simbolico prodotto a Hollywood negli anni '40», il primo teso a rappresentare la crisi del soggetto maschile, il secondo quella del soggetto femminile. Si tratta di generi paralleli sia nelle forme dell'immaginario che in quelle retorico-formali: basti pensare alla presenza quasi strutturale, in entrambi, della narrazione in prima persona in voice-over, del flashback e del rapporto tra presente e passato. Frank Krutnik sostiene che «il thriller tende a trattare il dramma dell'eroe "dislocato" in modo serio [...l. Come la rappresentazione drammatica del regno femminile - questioni legate alla famiglia, la casa, l'amore romantico, la maternità, l'identità e il desiderio - è stata affrontata in termini di genere dal melodramma femminile, si può considerare il thriller come una forma di melodramma maschile». Tuttavia, esiste a mio avviso una fondamentale differenza tra i due modelli. Nel noir il soggetto maschile compie una ricerca sul mondo, e spesso, ma non sempre, sulla donna, che sostituisce la ricerca sull'io e sul proprio desiderio. Nel woman's film, invece, la ricerca del soggetto femminile è sempre su se stessa, in particolare sulla propria identità sessuale. Il rapporto tra pubblico e privato risulta dunque rovesciato, a confermare la tradizionale suddivisione dei ruoli di gender. In entrambi i generi domina lo scenario edipico, maschile o femminile, e la frammentarietà o discontinuità del racconto risponde alla non-linearità dei percorsi del desiderio del protagonista, dominato dal «ritorno del rimosso». In un'epoca che ha visto «la sostituzione dell'etica protestante con l'etica freudiana», o il passaggio dall'età dell'innocenza a quella adulta, non si può non partire dal discorso psicoanalitico per affrontare il cinema degli anni quaranta. Questo passaggio appare cruciale e, debitamente articolato, ci aiuta a declinare l'irriducibile differenza tra il cinema degli anni trenta e quello del decennio successivo. Il cinema dei secondi anni trenta appare infatti del tutto dominato dall'etica protestante: tale condizione si riscontra nella struttura narrativa, nel rapporto spazio/personaggio e nella sostanziale oggettività del racconto. Inoltre, anche la funzione della differenza di classe, in rapporto a quella di gender, può essere inserita nello stesso paradigma, e anzi sembra costituire la categoria primaria della differenza. Ovviamente non mancano i conflitti di gender, come ben mostra la screwball comedy. Nella commedia sofisticata, il conflitto di gender è strutturale, ma è in parte un falso conflitto, nel senso che, pur configurando, almeno negli esempi più avanzati, un rapporto paritario tra maschile e femminile, proprio il fatto di raccontare il milieu alto borghese, invalida in parte la carica eversiva del genere. In secondo luogo, nella commedia, e più in generale nei film del periodo, il soggetto accetta la posizione che occupa: non vi è, in altre parole, una rivendicazione dell'identità di gender diversa da quella dominante. Per questo è così rilevante la questione della posizionalità, secondo cui l'identità è data a priori dall'ordine simbolico e non dipende in alcun modo da un autonomo percorso individuale. Θ anche per questo che il soggetto degli anni trenta è un soggetto che appare senza inconscio, definito solo dalle proprie azioni, inconsapevole di sé come soggetto. Si tratta di un soggetto pre-freudiano, per il quale la rimozione, paradossalmente, riesce alla perfezione. L'emergenza della soggettività come processo, piuttosto che come fatto o dato, è visibile nel cinema prodotto durante la guerra e negli anni successivi. L'esperienza dell'io non è più questione di inconsapevole posizionalità, ma si attua in una dialettica continua e serrata tra le pulsioni individuali e le richieste del sociale, non è riconducibile a una generalizzata identità strutturale, ovvero collettiva, ma si esplica nell'assoluta singolarità dell'io. Come in psicoanalisi, dove «alla domanda che fonda ogni cura, "chi sono Io?", l'analista risponde infatti: "tu sei la tua storia", inaugurando così la costruzione narrativa del soggetto moderno», allo stesso modo il noir e il woman's film narrano, ancora più il secondo del primo, storie ossessivamente individuali. In entrambi i generi un personaggio adulto deve venire a patti con il proprio desiderio, in una oscillazione continua tra presente e passato, tra esperienze traumatiche e tentativi di abreazione, tra l'imposizione di una corretta mascolinità o femminilità e il desiderio di essere altro da ciò, secondo scenari che riprendono, ancorché in forma semplificata, le formulazioni freudiane. Nel noir e nel woman's film le rimozioni non hanno mai successo del resto l'insuccesso della rimozione è iscritto nel suo stesso dispositivo e il soggetto è per sua natura scisso. Tali scenari si sviluppano non solo secondo linee temporali discontinue e contorte, ma anche in spazi particolari. Entrambi generi urbani, il noir ha come set privilegiato le strade notturne, illuminate al neon, della metropoli non qualsiasi città, ma, in ordine di importanza, New York, Los Angeles, San Francisco, Chicago e Las Vegas , i luoghi dell'intrattenimento popolare e borghese night-club e luna park, ristoranti e bische, palasport per gli incontri di boxe , ma anche gli uffici di detective squattrinati in palazzi fatiscenti e in prossimità di stazioni ferroviarie rumorose valga per tutti l'ufficio di Bradford Galt in The Dark Corner (Grattacielo tragico, H. Hathaway, 1946) situato presso la stazione sopraelevata di Third Avenue a New York -, i diners hopperiani à la Nighthawks (1942) e i complessi popolari lontani dal centro urbano, come il tenement house in cui Gene Tierney vive con il padre tassista in Where the Sidewalk Ends (Sui marciapiedi, O. Preminger, 1950), titolo che ben descrive questo luogo topico del noir. | << | < | > | >> |Pagina 195Nel capitolo introduttivo abbiamo analizzato la funzione del melodramma nel dibattito teorico sul cinema del periodo classico. Secondo le linee di ricerca più innovative e articolate il melodramma, o meglio il modo melodrammatico, non ha costituito uno dei tanti generi della variegata produzione hollywoodiana, ma un metodo di rappresentazione alternativo a quello classico, dotato di strategie estetico-comunicative proprie, che danno risalto alle componenti emotive e pre-simboliche dell'immagine e ridimensionano la logica narrativa causale fondata, in primo luogo, sull'azione motivata del personaggio principale. In questo studio abbiamo sostenuto come i cambiamenti, l'evoluzione delle forme e del linguaggio del cinema americano, durante i tre decenni del periodo «classico» sonoro, possano essere considerati alla luce dei mutevoli rapporti tra classico e melodrammatico, nel senso che, mentre la classicità domina la seconda metà degli anni trenta, il registro melodrammatico e attrazionale caratterizza il cinema più innovativo degli anni quaranta e cinquanta. Questa mutazione si esprime attraverso nuove modalità di rappresentazione del soggetto umano,in particolare una rinnovata attenzione al corpo e alla sessualità. Il soggetto diviene il locus del desiderio inappagato, della scissione tra desiderio conscio e inconscio, dell'incapacità di agire. Ma che cosa si intende per melodramma e melodrammatico? Nonostante il termine sembri rinviare a un oggetto vasto, ma dai contorni piuttosto certi, in realtà l'analisi dell'uso e della diffusione del termine indica che il suo significato non è univoco e che esso dipende dal contesto, dal discorso in cui si viene a trovare. In ambito anglo-americano vi è una differenza sostanziale tra l'uso emerso nei primi anni settanta, contestualmente all'istituzionalizzarsi dei Film Studies e diffusosi negli anni successivi, sino a diventare il fenomeno più dibattuto e studiato degli anni settanta e ottanta , e il significato che il termine melodramma ha assunto per l'industria cinematografica e la stampa professionale sin dagli anni dieci. Nel primo caso, a partire dal famoso saggio di Thomas Elsaesser, Tales of Sound and Fury. Observations on the Family Melodrama (1972) cui si deve la prima e imprescindibile articolazione del fenomeno , ci si riferisce ad alcuni generi o sottogeneri in cui domina il registro emotivo e sentimentale: questi film affrontano problematiche legate alle dinamiche familiari, in particolare il rapporto genitori/figli o, nella versione del melodramma materno, incentrate sulla figura della madre sofferente e spesso non sposata. Da un punto di vista formale, il family melodrama degli anni cinquanta, cui è dedicato esplicitamente il saggio di Elsaesser, mostra uno stile altamente espressivo e in cui il senso è veicolato più dagli elementi visivi e sonori che da quelli verbali e narrativi. Questo aspetto è particolarmente significativo in quanto rende conto, come vedremo in seguito, dello statuto anti-classico del genere. In secondo luogo, l'eccesso visivo del melodramma che sfrutta in modo mirabile anche le novità tecnologico-spettacolari del periodo, come il Technicolor e i formati panoramici è stato interpretato alla luce di dinamiche e processi psicoanalitici, contribuendo in modo determinante a sviluppare quel metodo così produttivo, per l'analisi del film, nato dalla convergenza tra estetica cinematografica, narratologia e psicoanalisi. La validità di questa proposta viene confermata da una seconda e altrettanto importante convergenza: l'ipotesi formulata dagli studiosi di cinema e quella avanzata negli stessi anni da Peter Brooks nel suo influente The Melodramatic Imagination (1976), condividono molti elementi fondativi. Oltre che per gli studi teatrali e letterari, lo studio di Brooks si è rivelato estremamente influente per quelli cinematografici. Va tuttavia sottolineato che in alcuni interventi sul family melodrama vengono elaborate in modo assolutamente autonomo alcune delle intuizioni concettuali e metodologiche che stanno alla base del lavoro di Brooks. Si pensi proprio all'intervento di Elsaesser, che in realtà precede quello di Brooks, ma anche a saggi di Geoffrey Nowell-Smith e Laura Mulvey (1977) che, contemporaneamente ma autonomamente da Brooks, pongono più direttamente la questione del rapporto tra estetica e psicoanalisi. | << | < | |