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| << | < | > | >> |Pagina 9Sotto il primo sole del mattino, l'acciottolato fuori dall'ingresso di servizio del Museo di Storia Naturale di New York brillava di riflessi dorati. Davanti al portale di granito, la luce inondava la guardiola vetrata in cui un uomo anziano sedeva scomposto su una poltroncina. Era una figura familiare a tutto il personale. Fumava compiaciuto una pipa di calebasse e si godeva il tepore di uno di quei giorni ingannevolmente primaverili che capitano talvolta nel febbraio newyorkese e fanno fiorire prematuramente narcisi, crochi e alberi da frutto, solo per farli morire con il ritorno del gelo. "'Giorno, dottore", ripeteva Curly a tutti quelli che entravano, che fossero gli ultimi tra gli impiegati o i primi tra gli studiosi. I curatori avevano i loro momenti di gloria e di declino; i direttori potevano far carriera, vivere un trionfo e sprofondare nell'oblio; gli uomini un giorno aravano il campo e un altro vi si facevano seppellire; ma sembrava che Curly non sarebbe mai stato scalzato dalla sua guardiola. Faceva parte del Museo, né più né meno dei dinosauri che accoglievano i visitatori nella Grande Rotonda. "Ecco qui, nonno!". Il guardiano alzò lo sguardo, indispettito da quel tono colloquiale, giusto in tempo per vedere un giovanotto che infilava un pacco nella finestrella, facendolo piombare sulla mensola su cui Curly teneva il tabacco e i guanti. "Mi scusi", disse il vecchietto, richiamandolo con un cenno. "Ehi!" Ma il ragazzo era già in sella alla sua mountain bike, con in spalla uno zaino nero traboccante di pacchetti. "Cielo", borbottò Curly, guardando il pacco: una scatola trenta centimetri per ventiquattro per ventiquattro, confezionata in carta marroncina e legata con abbondanza di spago, come si usava una volta. Il pacco era così ammaccato che c'era da chiedersi se il fattorino non fosse finito sotto un camion mentre glielo portava. L'indirizzo era scritto con grafia infantile: Per il curatore di rocce e minerali, Museo di Storia Naturale. Il guardiano ripulì la pipa mentre studiava il pacco. Il Museo riceveva ogni settimana centinaia di "donazioni" da parte di bambini, che andavano da insetti spiaccicati a sassi insignificanti, da punte di freccia ad animali morti raccolti per strada. Curly sospirò, rinunciò dolorosamente alla comodità della sua poltroncina e mise il pacchetto sottobraccio. Depose la pipa, aprì la porta della guardiola e uscì sotto il sole, battendo le palpebre alla luce. Si diresse verso l'ufficio di smistamento della posta, sul vialetto, a poche decine di metri dall'ingresso di servizio. "Che cos'abbiamo lì, signor Tuttle?" domandò una voce. Curly si voltò. Era Digby Greenlaw, il nuovo vicedirettore dell'amministrazione, che stava arrivando dal parcheggio del personale. Il guardiano non gli rispose subito. Greenlaw non gli era simpatico, né gli andava a genio l'aria condiscendente con cui diceva signor Tuttle. Qualche settimana prima aveva anche avuto da ridire su come Curly controllava i tesserini dei dipendenti. "Non li guarda con attenzione", aveva sostenuto. Accidenti, non aveva davvero bisogno di guardarli: conosceva di persona ogni singolo impiegato del Museo. "Un pacchetto", bofonchiò. La voce di Greenlaw assunse un tono ufficiale: "I pacchi andrebbero consegnati direttamente allo smistamento. E lei non dovrebbe lasciare la guardiola". Curly non si fermò. Alla sua età aveva imparato che il modo migliore per affrontare le persone spiacevoli è ignorarle. Sentì alle sue spalle il vicedirettore che affrettava il passo e alzava la voce, dando per scontato che fosse duro d'orecchi. "Signor Tuttle? Le ho detto che non deve lasciare la guardiola incustodita." Curly si fermò, si voltò e gli porse il pacco. "Grazie, dottore, lei è molto gentile." Greenlaw lo fissò, gli occhi ridotti a due fessure. "Non ho detto che lo consegnavo io." Il guardiano non si mosse. "Oh, per l'amor del cielo!" Greenlaw, seccato, fece per prendere il pacco, ma le sue mani si fermarono a mezz'aria. "Curioso. Che cosa sarà?" "Non lo so, dottore. L'ha portato un fattorino." "E tutto ammaccato." Il vecchietto si strinse nelle spalle. Il vicedirettore non si decideva. Si chinò a osservare meglio. "È rotto. C'è un buco... Vede? Sta uscendo qualcosa." Curly guardò. C'era effettivamente un buco in un angolo, e fuoriusciva un fiotto sottile di polvere marrone. "Che diamine?..." Greenlaw fece un passo indietro. "È una specie di polvere", constatò in tono acuto. "Oh, Signore, che cos'è?" Il guardiano non si spostò di un millimetro. "Buon Dio, Curly, lo butti via! È antrace!" Greenalw indietreggiò, malfermo sulle gambe, il volto distorto dal panico. "È un attacco terrorista! Qualcuno chiami la polizia! Io sono stato esposto! Oh, mio Dio, sono stato esposto!" Il vicedirettore inciampò sull'acciottolato e cadde all'indietro, ma si rialzò di scatto e corse via. Quasi all'istante, due guardie uscirono dalla porta sull'altro lato. Una intercettò Greenlaw l'altra si diresse verso Curly. "Ma che fate?" strillava Greenlaw. "State lontani! Chiamate il 911!" Il guardiano rimase dov'era, con il pacco in mano. Era un'esperienza così insolita che la sua mente sembrava aver smesso di funzionare. Le guardie tornarono indietro, tallonate da Greenlaw. Per un istante, nel vialetto regnò un silenzio irreale. Poi si mise a suonare un campanello d'allarme, assordante in quello spazio ristretto. In meno di cinque minuti nell'aria riecheggiavano le sirene e ben presto fu tutto un fervore di attività: auto della polizia, lampeggiatori, radio che crepitavano, megafoni e agenti in uniforme che correvano da ogni parte circondando la zona con il nastro giallo che indicava il pericolo di contaminazione, per tenere alla larga la folla crescente. I poliziotti ordinarono a Curly di buttare a terra il pacco e allontanarsi, buttare a terra il pacco e allontanarsi. Ma lui non buttò a terra il pacco e non si allontanò. Era paralizzato, in totale confusione, mentre fissava il fiotto marrone che continuava a sgorgare dallo strappo nella carta formando un mucchietto tra i ciottoli ai suoi piedi. E poi due strani individui con indosso rigonfie tute bianche e cappucci con visori di plastica gli si avvicinarono con passo lento, protendendo le mani in avanti, come nei vecchi film di fantascienza. Uno gli appoggiò una mano sulla spalla, l'altro gli prese gentilmente il pacco dalle dita e, con estrema cura, lo depose in una scatola blu. Il primo condusse Curly da parte e gli passò addosso la bocchetta di un buffo aspirapolvere. Poi fecero indossare anche a lui una di quelle tute, ripetendogli con le loro basse voci elettroniche che tutto sarebbe andato bene, che lo avrebbero portato in ospedale per fare qualche controllo e che non si doveva preoccupare. Mentre gli mettevano il cappuccio in testa, il vecchietto sentì il cervello che tornava in funzione e il corpo che riprendeva a muoversi. "Mi scusi, dottore", disse a uno dei due. "Sì?" "La mia pipa." Indicò la guardiola. "Non scordatevi di prendermi la pipa." | << | < | > | >> |Pagina 17Frederick Watson Collopy, direttore del Museo di Storia Naturale di New York, sentiva un fastidioso prurito alla nuca mentre usciva dall'ascensore al sotterraneo. Erano passati mesi dall'ultima volta che era stato là sotto e si domandava perché diavolo Wilfred Sherman, curatore del dipartimento di Mineralogia, avesse insistito perché fosse lui a raggiungerlo, anziché presentarsi nel suo ufficio. Svoltò l'angolo con passo rapido, sentendo scricchiolare sotto le scarpe la polvere di pietre sparsa sul pavimento, e si fermò davanti alla porta del laboratorio. Era chiusa. Provò la maniglia. Bloccata. In preda a una crescente irritazione, bussò con decisione. La porta si aprì quasi immediatamente. Sherman lo fece entrare e richiuse a chiave subito dopo. Il curatore era sudato, spettinato, in poche parole un disastro. Figuriamoci, si disse Collopy. Si guardò intorno e localizzò subito il maledetto pacco: sporco, lacero, avviluppato nel cellophan, eccolo lì accanto a un microscopio e a una mezza dozzina di buste bianche "Dottor Sherman" cominciò "il modo in cui questo materiale è stato consegnato al Museo ci ha provocato un serio imbarazzo. Tutto ciò è estremamente offensivo. Voglio il nome del mittente. Voglio sapere perché non è stato inviato attraverso gli appositi canali. E voglio sapere perché del materiale tanto prezioso è stato maneggiato con così poca cura e consegnato in modo tale da scatenare il panico. A quanto ne so, la polvere di diamanti industriali vale parecchie migliaia di dollari al chilo." Sherman non rispose. Sudava e basta. "Mi vedo già i titoli dei giornali di domani: Allarme bioterrorismo al Museo di Storia Naturale. Non oso immaginare che cosa scriveranno. Mi ha appena telefonato un reporter del Times, un certo Harriman, mi pare. Devo richiamarlo tra mezz'ora per dargli qualche spiegazione." Sherman deglutì, ma continuò a tacere. Una goccia di sudore gli scese lungo la fronte e lui si affrettò ad asciugarla con un fazzoletto. "Ebbene? Ha qualcosa da dirmi? C'è una ragione per cui ha insistito per farmi venire in laboratorio?" "Sì", riuscì a dire l'altro. Fece un cenno al microscopio. "Vorrei che desse... desse un'occhiata." Collopy andò al microscopio, si tolse gli occhiali e si chinò sull'oculare. Scorse solo un'immagine confusa. "Non si vede niente." "Bisogna mettere a fuoco." Il direttore regolò la manopola, avanti e indietro. Fino a che gli apparve una spettacolare distesa di frammenti di cristallo multicolori illuminati da dietro, come una vetrata a mosaico. "Che cos'è?" "Un campione della polvere contenuta nel pacco." Collopy si risollevò. "E con ciò? L'ha ordinata qualcuno del suo dipartimento?" Sherman esitò. "No. Nessuno." "Allora mi dica, dottore, come mai polvere di diamanti per migliaia di dollari è stata spedita al suo dipartimento?" "Ho una spiegazione..." Sherman si interruppe. Con mano tremante, prese una delle buste bianche. Collopy attese, ma il curatore sembrava essersi paralizzato. "Dottor Sherman?" Nessuna risposta. Il curatore del dipartimento si tamponò il viso con il fazzoletto. "Si sente male?" Sherman deglutì. "Non so come dirglielo." Collopy a quel punto era infastidito. "Abbiamo un problema. E adesso mi rimangono..." guardò l'orologio, "solo venticinque minuti per richiamare questo Harriman. Quindi veda di spiegarmi." Sherman annuì, incerto. Si asciugò un'altra volta il viso. Nonostante lo irritasse, il direttore provava compassione per quell'individuo: in fondo era un uomo di mezz'età che continuava a collezionare minerali come quando era ragazzino. D'un tratto si accorse che non era solo sudore quello che Sherman si stava asciugando. Dagli occhi gli scendevano lacrime. Finalmente parlò. "Non è polvere di diamanti industriali." Collopy aggrottò la fronte. "Prego?" Sherman inspirò a fondo, quasi si preparasse a un impatto imminente. "La polvere di diamanti a uso industriale è ricavata da diamanti neri o marroni privi di qualsiasi valore estetico. Al microscopio appare sottoforma di particelle cristalline scure. Ma quando si guardano queste al microscopio, si vedono i colori." La voce gli tremava. "Infatti è ciò che ho visto." Sherman assentì. "Piccoli frammenti e cristalli di tutti i colori dell'arcobaleno. Ho verificato che erano veramente diamanti e mi sono chiesto..." La voce sfumò. "Dottor Sherman?" "Mi sono chiesto: come fa un sacco di polvere a contenere oltre un chilo di frammenti di diamanti multicolori?" Nel laboratorio calò il silenzio. Collopy si sentì raggelare. "Non capisco." "Questa non è polvere di diamanti industriali. Questa è la collezione dei diamanti del Museo." "Che diavolo sta dicendo?" "L'uomo che ci ha rubato i diamanti il mese scorso... deve averli polverizzati. Tutti quanti." Ora le lacrime scorrevano libere, Sherman non si preoccupava più di asciugarle. "Polverizzati?" Collopy era sconvolto. "Come si fa a polverizzare un diamante?" "A colpi di mazza." "Ma sono quanto di più duro c'è al mondo!" "Duro, sì. Fragile, però." "Come fa a esserne sicuro?" "Molti dei nostri diamanti hanno un colore unico. Prenda la Regina di Narnia, per esempio. Nessun diamante è dello stesso azzurro, e con le stesse sfumature viola e verdi. Sono riuscito a identificare ogni singolo frammento. È questo che stavo facendo. Li stavo separando." Dalla busta che teneva in mano estrasse un foglio di carta e lo depose sul tavolo. Ne fuoriuscì un mucchietto di polvere azzurrina. "La Regina di Narnia." Prese un'altra busta. Ne venne fuori della polvere viola. "Il Cuore dell'Eternità." Una dopo l'altra, svuotò tutte le buste. "Lo Spirito Indaco, l'Ultima Thule, il Quattro di Luglio, il Verde di Zanzibar." Era come il battito ritmato di un tamburo, un colpo dopo l'altro, dritto al cuore. Collopy contemplava con orrore i mucchietti di sabbia lucente. "Questo è un brutto scherzo. Non possono essere i diamanti del Museo." "Le sfumature cromatiche di molti di questi diamanti famosi sono misurabili", ribatté Sherman. "Posseggo i dati. Li ho confrontati con i test sui frammenti. Corrispondono. Non possono essere altro." "Ma di sicuro non tutti", ritentò Collopy. "Non può averli distrutti tutti quanti." "Il pacco conteneva un chilo e duecento grammi di polvere, equivalente a cinquemilacinquecento carati. Considerando che un po' è stata dispersa, il contenuto originale poteva essere intorno ai seimila carati. Ho sommato i carati dei diamanti rubati..." Si zittì di nuovo. "Ebbene?" chiese Collopy, impaziente. "Il peso totale era di seimilaquarantadue carati", sussurrò Sherman. Nel laboratorio scese il silenzio. L'unico rumore era il sommesso ronzio delle luci fluorescenti. Finalmente Collopy alzò la testa e guardò negli occhi lo studioso. "Dottor Sherman..." cominciò, ma la voce gli venne meno e dovette ripetere: "Dottor Sherman, questa informazione non deve uscire dal laboratorio". Sherman, già pallido, divenne bianchissimo, come un fantasma. Dopo un momento annuì, silenzioso. | << | < | > | >> |Pagina 59Discesero la scalinata verso la Tomba di Senef lasciando impronte nella polvere come se fosse neve fresca. Wicherly si fermò, guardandosi intorno alla luce della torcia. "Ah, questo è ciò che gli egizi chiamavano 'Primo Passaggio del Dio lungo il Cammino del Sole'." Si voltò verso Nora e Menzies. "Vi interessa, o vi annoio?" "Prego", lo invitò il direttore di Antropologia. "Ci faccia da cicerone." I denti di Wicherly brillarono nella semioscurità. "Il problema è che buona parte del significato di queste tombe antiche ancora ci sfugge. Sono piuttosto facili da datare, per esempio questa sembra un tipico esempio di tomba del Nuovo Regno, direi Diciottesima Dinastia." "Ha proprio ragione", confermò Menzies. "Senef era visir e reggente di Tutmosi IV." "Grazie", disse l'inglese, gratificato dal complimento. "La maggior parte delle tombe del Nuovo Regno era composta di tre parti: esterna, intermedia e interna, divise in un totale di dodici stanze che insieme rappresentavano il passaggio del Dio Sole nel mondo sotterraneo durante le dodici ore della notte. Il faraone era sepolto al tramonto e la sua anima accompagnava il Dio sulla barca del sole, in un pericoloso viaggio sottoterra verso la sua gloriosa rinascita all'alba." Puntò la torcia su un portale in fondo. "Questa scala doveva essere riempita di pietrisco e giungere fino a una porta sigillata." Continuarono la discesa, arrivando a un massiccio portale sormontato da un'architrave su cui era inciso un grande Occhio di Horus circondato da iscrizioni. "Sa leggere questi geroglifici?" chiese Menzies. Wicherly sorrise. "Me la so cavare. Questa è una maledizione." Fece l'occhiolino a Nora. "'Chiunque varchi questa soglia possa Ammut ingoiare il suo cuore.'" Nessuno osò parlare. McCorkle fece una risata acuta. "Tutto qui?" "Più che abbastanza, per gli antichi saccheggiatori di tombe", spiegò Wicherly. "Era una maledizione terribile, per gli antichi egizi." "Chi è Ammut?" domandò Nora. "Il Mangiatore dei Dannati." L'inglese puntò la torcia verso un dipinto sbiadito sulla parete più lontana, raffigurante un mostro con testa di coccodrillo, corpo di leopardo e un grottesco deretano da ippopotamo: se ne stava accovacciato nella sabbia, con le fauci spalancate, pronto a divorare una fila di cuori umani. "Le azioni e le parole dei malvagi rendono il loro cuore più pesante della Piuma di Maat sulla bilancia. Se il vostro cuore pesa più della Piuma, il dio dalla testa di babbuino, Thoth, lo getta ad Ammut perché lo mangi. Poi Ammut viaggia fino alle sabbie dell'ovest per defecare ed è lì che finite, se non avete condotto una vita onesta: un escremento cotto dal sole del Deserto Occidentale." "Non c'è bisogno che aggiunga altro. Grazie, dottore." "Per un egizio saccheggiare la tomba di un faraone doveva essere un'esperienza terrificante. Le maledizioni destinate a chi la profanava erano molto reali. Per cancellare il potere del defunto faraone non dovevano solo saccheggiare la tomba, ma anche distruggerla, fare tutto a pezzi. Solo distruggendo gli oggetti potevano disperdere il potere malevolo." "Tutto materiale prezioso per la mostra", mormorò Menzies. Dopo una breve esitazione, McCorkle oltrepassò la soglia, seguito dagli altri. "Il Secondo Passaggio del Dio", riprese Wicherly, illuminando i geroglifici. "Le pareti sono coperte da iscrizioni dal Reunupertemhru, il Libro dei Morti degli antichi egizi." "Oh, interessante!" fece Menzies. "Ci legga qualcosa, Adrian." A bassa voce, Wicherly recitò: "'Il Reggente Senef, la cui parola è verità, disse: Lode e grazie a te, Ra, o tu che brilli come l'oro, tu Illuminatore delle Due Terre, il giorno della tua nascita. Tua madre ti ha portato di sua mano e tu accendesti di splendore il cerchio su cui viaggia il Disco. O Grande Luce che attraversi Nu, tu che sorgi da generazioni di uomini dalle profonde fonti dell'acqua...' È un'invocazione a Ra, il Dio Sole, da parte del defunto, Senef. È piuttosto tipica del Libro dei Morti". "Ne ho sentito parlare", disse Nora. "Ma non ne so molto." "Era sostanzialmente una raccolta di invocazioni magiche e incantesimi. Aiutava i morti a intraprendere il rischioso viaggio sotterraneo alla volta dei Campi di Giunco, l'idea egizia del paradiso. La gente attendeva con timore per tutta la notte dopo la sepoltura di un faraone, perché, se qualcosa non fosse andato per il verso giusto durante il viaggio, il sole non sarebbe sorto mai più. Il re morto doveva conoscere tutti gli incantesimi, i nomi segreti dei serpenti e altre sapienze arcane per completare il tragitto. Per questo tutto era scritto sulle pareti della tomba: il Libro dei Morti era un manuale per il raggiungimento della vita eterna." L'inglese ridacchiò, puntando la torcia su quattro righe di geroglifici dipinti in rosso e bianco. Andarono in quella direzione, sollevando nubi di densa polvere grigia. "Ecco la Prima Porta dei Morti", riprese Wicherly. "Mostra il faraone che sale sulla barca solare e viaggia nell'oltretomba, dove è accolto da una folla di defunti... Qui, alla Quarta Porta, arriva al temuto Deserto di Sokor e la barca si trasforma per magia in un serpente che lo trasporta sulle sabbie roventi. E qui... Questo è un momento molto drammatico. A mezzanotte l'anima di Ra si ricongiunge con il corpo, rappresentato dalla figura mummificata..." "Mi scusi se lo dico, dottore", lo interruppe McCorkle, "ma abbiamo ancora otto stanze da attraversare." "Giusto, è vero, scusatemi." Proseguirono fino al fondo della stanza, dove una voragine oscura rivelava una scalinata che sprofondava nel buio. "Anche questo passaggio", disse Wicherly, "doveva essere riempito di pietrisco. Per fermare i ladri." "Fate attenzione", raccomandò McCorkle, aprendo la strada. L'inglese si voltò verso Nora e le tese una mano dalle unghie ben curate. "Permetti?" "Posso farcela da sola", rispose lei, divertita da quella cortesia da Vecchio Mondo. Guardò Wicherly che scendeva i gradini con cautela esagerata. Le sue scarpe lucidissime erano ormai coperte da uno strato di polvere. Forse rischiava più di lei di scivolare e rompersi l'osso del collo. "Attenzione!" avvisò l'inglese. "Se questa tomba segue il solito schema, poco più avanti c'è il pozzo." "Il pozzo?" fece McCorkle. "Profondo e destinato tanto a far precipitare i ladri incauti verso la morte, quanto a evitare che l'acqua riempisse la tomba durante le rare ma improvvise inondazioni della Valle dei Re." "Anche se intatto, di sicuro il pozzo sarà coperto", fece loro presente Menzies. "Non dimenticate che una volta questa tomba era accessibile ai visitatori del Museo." Proseguirono con cautela fino a quando le torce illuminarono un traballante ponte di legno sopra un pozzo che doveva essere profondo almeno cinque metri. McCorkle fece cenno agli altri di restare indietro, poi vi mise piede. D'un tratto si udì un crack che fece sobbalzare Nora. McCorkle si aggrappò disperatamente al corrimano, ma era solo il rumore del legno che si assestava. Il ponte reggeva ancora. "Potete passare", disse la guida. "Uno alla volta." Nora percorse esitante la stretta passerella. "Non riesco a credere che questo posto fosse accessibile al pubblico. Come hanno fatto a mettere un pozzo come questo nel sotterraneo del Museo?" "Dev'essere stato scavato nella roccia su cui sorge Manhattan", rispose Menzies. "Dovremo adeguare questo tratto alla normativa di sicurezza vigente." Dall'altra parte del ponte, oltre una nuova soglia, li attendeva la parte intermedia della Tomba. "In origine qui doveva esserci un'altra porta sigillata", spiegò Wicherly. "Che affreschi meravigliosi! Qui si vede Senef che incontra gli dèi. E si leggono altri versi del Libro dei Morti." "Ancora maledizioni?" si informò Nora, notando un altro Occhio di Horus sopra il portale, un tempo chiuso. Wicherly illuminò le iscrizioni. "Hmmm. Non ho mai visto niente del genere. Il luogo che è sigillato. Ciò che giace nel luogo chiuso è rinato grazie all'anima-Ba che è in esso. Ciò che cammina nello spazio chiuso è privato dell'anima-Ba. Per l'Occhio di Horus sono salvato o dannato. O grande dio Osiride.'" "A me sembra proprio una maledizione", commentò McCorkle. "Direi piuttosto un altro oscuro passaggio del Libro dei Morti: consta di duecento capitoli e nessuno lo ha ancora decifrato per intero." La tomba si apriva ora su una sala sfarzosa, con il soffitto a volta e sei grandi pilastri di pietra interamente coperti di affreschi e geroglifici. A Nora sembrava incredibile che quel vasto spazio riccamente ornato avesse potuto dormire nelle viscere del Museo per oltre mezzo secolo, praticamente dimenticato da tutti. | << | < | > | >> |Pagina 131Il detenuto conosciuto unicamente come A sedeva sulla sua branda nella cella 44 nell'unità di detenzione federale preprocessuale per criminali violenti ad alto rischio di Herkmoor. Il Buco Nero. Era praticamente una cella monastica di due metri e mezzo per tre, con pareti imbiancate di fresco, un pavimento di cemento con uno scarico centrale, un gabinetto in un angolo, un lavandino, un radiatore e un angusto letto metallico. Una lampadina a fluorescenza, inserita nel soffitto e protetta da una rete metallica, era l'unica fonte luminosa. Non esisteva interruttore: si accendeva alle sei del mattino e si spegneva alle dieci di sera. L'unica finestra della cella, profonda e munita di sbarre, era larga cinque centimetri e alta quarantacinque e si trovava in alto sulla parete opposta. Il detenuto, con indosso una tuta grigia ben stirata, era seduto, immobile, da parecchie ore. Il suo viso magro era pallido e inespressivo, con gli occhi color argento semichiusi e i capelli biondi, quasi bianchi, pettinati all'indietro. Niente si muoveva, neppure gli occhi, mentre ascoltava la rapida successione di suoni proveniente dalla cella d'isolamento 45. Erano percussioni di rara complessità ritmica, che aumentavano e diminuivano di volume, acceleravano e rallentavano, passando dalla sponda metallica del letto al materasso, alle pareti, al gabinetto, al lavandino e alle sbarre, per poi ricominciare daccapo. In quel momento il detenuto stava suonando la testiera della branda, con qualche occasionale colpo al materasso, accompagnandosi con schiocchi delle labbra e della lingua. Il ritmo interminabile, come un'incessante corrente d'aria, era a tratti frenetico quanto una mitragliatrice, a tratti pigramente sincopato. E in certi momenti sembrava fermarsi, ma non proprio: continuava con un ostinato tap... tap... tap... a indicare che la musica non era finita. Un appassionato di percussioni avrebbe potuto riconoscere la straordinaria diversità di schemi e stili provenienti dalla cella d'isolamento 45: dal ritmo kassagbe del Congo al funk al pop-and-lock, passando in sequenza per lo shakeout, il wormhole e il glam per poi diventare un riff pseudo-electro-clash, quindi un veloce eurostomp che si concludeva con un nasty, seguito da un hip-pop twist-stick e da un tom club. Un momento di silenzio e poi attaccava un lento blues di Chicago che si evolveva in innumerevoli altri ritmi, con o senza definizioni specifiche, che si interconnettevano in una treccia sonora senza fine. Il detenuto conosciuto come A, tuttavia, non era un appassionato di percussioni. Era un uomo che conosceva molte cose, ma l'arte della batteria non era tra queste. Eppure ascoltava. Un'ora e mezza prima che le luci si spegnessero, il detenuto conosciuto come A cambiò posizione sulla branda. Si girò verso la testiera e vi batté cautamente sopra con l'indice sinistro, una volta, poi un'altra. Dopo di che cominciò un semplice tap... tap... in quattro quarti. Mentre scorrevano i minuti, passò al materasso, poi al muro e al lavandino, come se stesse provando timbro, tono e ampiezza, prima di tornare alla testiera. Continuò a seguire un tempo di quattro quarti con l'indice sinistro, mentre con il destro dava inizio a un secondo ritmo. E intanto ascoltava i virtuosismi dalla cella accanto. Giunsero le dieci e, con esse, il buio. Passò un'ora, e poi un'altra. L'approccio musicale del detenuto cambiò. Seguendo con attenzione l'andamento del batterista, introdusse un ritmo sincopato qui, un tre-contro-due là, aggiungendoli al suo semplice repertorio. Si adattava sempre di più alla rete di suoni che arrivava dalla porta accanto, prendendo suggerimento dal vicino, raccogliendo un tempo e rallentando in accordo con il batterista. Era mezzanotte e il prigioniero della cella 45 continuava, assieme a quello della cella 44. Il detenuto chiamato A trovava che le percussioni, che aveva sempre considerato un'attività grezza e primitiva, fossero stranamente piacevoli all'udito. Aprivano, nella triste e ristretta realtà della sua cella, una porta su un ampio spazio astratto di precisione e complessità matematiche. Continuò, sempre seguendo le direttive dell'uomo nella cella 45, arricchendo la complessità del proprio schema ritmico. La notte si faceva più fonda. I pochi altri detenuti in isolamento, non molti e in fondo al corridoio, si erano da tempo addormentati. I due uomini nelle celle attigue, la 44 e la 45, continuavano a suonare. Mentre esplorava sempre di più quello strano nuovo mondo di ritmi interni ed esterni, A cominciava a intuire qualcosa del suo vicino e della sua malattia mentale. Era quello l'intento. Non era qualcosa che si potesse esprimere a parole. Non erano concetti accessibili al linguaggio. Non erano raggiungibili da una teoria psicologica, dalla psicoterapia o dalla medicina in genere. Eppure, attraverso quell'attenta emulazione delle percussioni, l'uomo nella cella 44 cominciava a penetrare nel mondo tutto personale del batterista. A un livello neurologico di base, imparava a capirlo: che cosa lo motivava, perché faceva quello che faceva. Lentamente, con molta cura, A si avventurò a modificare il ritmo seguendo certi percorsi sperimentali, per vedere se sarebbe riuscito a prendere il comando e indurre il batterista a seguirlo per un momento. Quando l'esperimento riuscì, provò ad alterare il tempo in modo sottile. Niente avveniva troppo in fretta: ogni nuovo elemento, ogni modifica, era controllata attentamente e calcolata in modo da condurre al risultato che lui desiderava. Nel corso dell'ora successiva, la dinamica tra i due detenuti iniziò a cambiare. Senza rendersene conto, il batterista non aveva più il controllo della situazione, ma obbediva alle regole dell'altro. Il detenuto A continuò ad alterare il proprio ritmo, rallentando e accelerando all'infinito, finché ebbe la certezza assoluta di essere lui a dettare legge e che il batterista della cella accanto lo seguiva inconsciamente. Con estrema cautela, allora, cominciò a ridurre il ritmo, non in modo costante bensì con accelerazioni e rallentamenti improvvisi, attraverso riff e variazioni che aveva appreso dal vicino. Ma ogni volta terminava con un tempo più lento, fino a ridurlo al minimo. E a quel punto si fermò. L'uomo nella cella 45, dopo qualche tentativo, perse i colpi e si fermò a sua volta. Poi ci fu un lungo silenzio. | << | < | > | >> |Pagina 427[...] Gerald Boscomb oltrepassò Palazzo Antinori e svoltò in Via Tornabuoni, inspirando la fredda aria invernale di Firenze con amara nostalgia. Molte cose erano cambiate da quando vi era stato l'ultima volta, parecchi mesi prima, con tanti piani in mente. Ora non gli restava niente, neppure i suoi vestiti, che aveva dovuto abbandonare sul treno. Neppure la sua preziosa valigia.
Passò davanti a Max Mara, ricordando con dispiacere
quando al suo posto vi era la bella e antica Libreria Seeber. Si
fermò da Pineider per procurarsi alcuni articoli di cartoleria,
poi da Beltrami per comprare valigie nuove e quindi da Allegri per l'acquisto di
un impermeabile e un ombrello, pagando in contanti. Infine si sedette a un
tavolino da Procacci, affollato come sempre, e ordinò un sandwich al tartufo e
un bicchiere di vernaccia. Bevve pensoso il vino, osservando i passanti fuori
dalla vetrina.
Fourmillante cité, cité pleine de rêves Où le spectre en plein jour raccroche le passant. Il cielo minacciava pioggia, la città appariva buia e angusta. Forse era per questo che gli era sempre piaciuta Firenze: era monocromatica, con i suoi edifici pallidi, con le colline intorno come gobbe grigie irte di cipressi, con il fiume che scorreva limaccioso come ferro opaco sotto i ponti quasi neri. Lasciò cadere una banconota sul tavolino e uscì dal caffè, continuando la sua passeggiata. Si fermò davanti alle vetrine di Valentino, servendosi del riflesso per controllare l'altro lato della strada. Poi entrò a comprare un vestito in seta e un doppiopetto nero gessato, che gli piaceva perché gli ricordava vagamente i gangster degli anni Trenta. Se li fece mandare in albergo, come tutto il resto. Di nuovo in strada diresse i suoi passi verso la tetra facciata medievale di Palazzo Ferroni, un imponente castello di pietra con torri e merli, che ora era il quartier generale mondiale di Ferragamo. Attraversò la piazza antistante e superò la colonna romana in marmo. Poco prima di entrare nel palazzo, con una rapida occhiata identificò la donna trasandata con i capelli castani. Lei. Proprio in quel momento stava entrando nella chiesa di Santa Trinità. Soddisfatto, [...] varcò la soglia di Ferragamo e vi passò diverso tempo a esaminare le scarpe. Ne comprò due paia, completando il suo guardaroba con l'acquisto di biancheria intima, calzini, pigiama e accappatoio. Come prima, richiese che gli articoli gli fossero mandati in albergo e uscì senza sacchetti, solo con l'impermeabile sul braccio e l'ombrello pieghevole chiuso. Andò verso il fiume e si fermò sul Lungarno, contemplando la curva perfetta del Ponte Santa Trinità progettato dall'Ammannati, una curva che aveva mandato in confusione i matematici. Il suo occhio ingiallito esaminò le statue delle quattro stagioni ai due capi del ponte. Ormai nessuna di queste cose riusciva a dargli piacere. Era tutto futile e superfluo.
L'Arno sotto di lui, gonfiato dalle piogge dell'inverno, si
muoveva a scossoni come il dorso di un serpente. Si udiva il
rombo dell'acqua sulla pescaia, qualche centinaio di metri più
avanti. [...] sentì una goccia di pioggia sul viso, poi un'altra. Gli ombrelli
spuntarono immediatamente tra i passanti e procedettero sobbalzando sul ponte
come lanterne nere...
e dietro le venìa sì lunga tratta di gente, ch'i' non avrei creduto che morte tanta n'avesse disfatta. [...] indossò l'impermeabile, stringendo con forza la cintura, aprì l'ombrello e, quando si mescolò alla gente sul ponte, provò un certo brivido nichilista. Sul lato opposto, si voltò indietro a guardare il fiume. Udiva il ticchettio delle gocce di pioggia sulla tela dell'ombrello. Lei non era in vista, ma lui ne avvertiva la presenza. Sapeva che lo stava seguendo, da qualche parte in quel mare di ombrelli in movimento. Girò sui tacchi, attraversò la piazzetta che si apriva da quel lato del ponte, svoltò a destra in Via Santo Spirito e poi subito a sinistra verso Borgo Tegolaio. Si fermò a guardare la vetrina di uno dei bei negozi di antiquariato su Via Maggio, traboccante di candelabri dorati, saliere d'argento e oscure nature morte. Attese finché ebbe la certezza che lei lo avesse visto: la scorse di sfuggita nei riflessi della vetrina. Aveva un sacchetto di Max Mara e nessuno avrebbe saputo distinguerla da una di quelle ignobili turiste americane che calavano a fare shopping su Firenze a orde. | << | < | > | >> |Pagina 488Alla fine di maggio, sull'isola di Capraia, un uomo e una donna erano seduti sulla terrazza di una casa dipinta di bianco, vicina a una scogliera di roccia vulcanica lambita dalle onde del Mediterraneo. Davanti a loro l'immensità azzurra del mare si estendeva a perdita d'occhio. Su un vecchio tavolino erano disposti pane nero, un tagliere di salame, una bottiglia di olio, un piattino di olive e due bicchieri di vino bianco. Il profumo dei limoni in fiore aleggiava nell'aria, mescolandosi a quello del rosmarino selvatico e dell'acqua salata. Sulle colline sopra la terrazza le viti estendevano i loro viticci verdeggianti. Gli unici rumori erano le grida dei gabbiani e la brezza che scuoteva la buganvillea. I due se ne stavano seduti a sorseggiare vino e a parlare a bassa voce. La donna indossava pantaloni consunti di tela e una vecchia camicia da lavoro, in contrasto con i suoi lineamenti finissimi e i lucidi capelli color mogano che le scendevano sulla schiena. L'abbigliamento dell'uomo era tanto formale quanto informale era quello di lei: un vestito nero di sartoria italiana, una camicia bianchissima e una cravatta poco appariscente.
Entrambi guardavano una terza persona, una bella ragazza
con un vestito giallo chiaro che passeggiava senza meta tra gli
ulivi adiacenti al vigneto, strappando distrattamente i petali
dai fiori che stringeva in mano.
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