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| << | < | > | >> |Pagina 11Piacerebbe anche a me leggere quanto mi accingo a narrare senza l'infausta e ahimè praticamente inevitabile conoscenza anticipata di come andrà a finire. Certo potrei fingere anche con me stesso di aver dimenticato, ogni cosa e per sempre. Basta un attimo però, un solo attimo e tutto torna in mente, una parolina, un'espressione, un lapsus linguae, un errore qualsiasi e torna la memoria. Il proemio dovrebbe dunque servire in qualche modo da anestetico inconscio contro ogni simile dolorosa agnizione. Questo è chiaro. Lo si può capire. Ma a cosa serve (o non serve) per un estraneo, già dubbioso se entrare in relazione con il testo che sta per essergli proposto? E poi, che singolare parola: proemio. Accompagnata da una terminologia inutile, gravosa, scientifica potremmo dire. In ogni caso la mia personale esperienza di lettore mi suggerisce che ogni siffatto discorso introduttivo dovrebbe piuttosto chiudere una narrazione giacché, anticipando qualcosa ancora ignota, ci affligge proprio in virtù dell'informazione anticipatrice, e per giunta alquanto irritante, in esso contenuta. In qualità di autore io verrò forse perdonato. Magari la mia mossa di avvalermene in anticipo apparirà comica. Tanto più se immediatamente dopo fingo di essere all'oscuro di tutto, quasi in docile e remissiva osservazione di una trama che si autosviluppa. Ovvio, questi concetti di "trama che si autosviluppa", di "remissività" e "docilità" sono atti e comportamenti convenzionali e concordati, da personaggio, per così dire: regole di reciproca condotta e buona educazione assunte spontaneamente. Ma nell'attuale galateo che disciplina il rapporto tra autore e lettore rientrano siffatti giochi maliziosi, accordi reciproci in merito ad alcuni parziali distacchi da accordi precedenti brillantemente superati. Qui però tutto si complica senza una vera e propria ragione. Lo riconosco. Lo riconosco. Tutto è di gran lunga più semplice. Come per esempio: — Rabinovic, dove va? — A Berdicev. — A Berdicev, interessante. E perché mi vuole ingannare? — Io? La voglio ingannare? — Certo. Per quale motivo dice che va a Berdicev, quando in realtà va effettivamente a Berdicev? Oppure all'incirca la stessa cosa ma con una piccola variazione sul tema. Per un periodo ho lavorato in un ufficio assieme a due adorabili vecchietti. Si conoscevano da tempo immemorabile e si chiamavano confidenzialmente, quasi familiarmente, Senja e Marusja. Al secolo i loro nomi erano Semën Efimovic e Marja Ivanovna. Convinti e impegnati membri del partito. Anzi: se non ricordo male, erano furiosi e intransigenti segretari di qualche comitato o struttura di partito. Una mattina Semën Efimovic, che non si era ancora messo seriamente al lavoro, fissando pensoso una grande finestra linda per le pulizie di primavera, esordì dicendo: — Ma sai, Marusja, che sogno ho fatto? — Che sogno, Senja? — rispose Marja Ivanovna, senza sollevare gli occhi da un importante documento. — Be', entro dall'ingresso principale... — Semën Efimovic si girò verso l'interlocutrice e prese una posizione più comoda sulla sedia — e mi viene incontro Michail Ivanovic. — Michail Ivanovic era il nostro diretto superiore, e suscitava terrore quasi mistico e grandissimo rispetto nei miei ligi interlocutori. — E?... — Marja Ivanovna staccò gli occhi dalle carte. — Be', capisci Marusja, mi viene incontro con la mano tesa. E sorride. Io comincio quasi a sentirmi a disagio. — Interessante. E non ti ricordi se c'ero pure io? — Non me lo ricordo, Marusja. — Eh no, Senja, cerca di ricordare. È molto importante. — Marja Ivanovna mise definitivamente da parte il documento e si voltò fulminea con tutto il corpo verso quello sconsiderato di Semën Efimovic. — È molto, molto importante. — Non me lo ricordo, Marusja. Guardavo Michail Ivanovic. — No, no Senja, è molto, molto importante. Cerca di ricordare. — Ma Marusja, era solo un sogno. — No, Senja, è molto importante. Cerca di ricordare. — Marja Ivanovna cominciava a perdere la pazienza. — Be', ma io proprio non me lo ricordo — borbottò Semën Efimovic smarrito. — Era un sogno. Non me lo ricordo. Era un sogno. Insomma, sono lì in piedi e c'è Michail Ivanovic. Forse mi stavi alle spalle, non me lo ricordo. — Ma sei davvero un bel tipo, Senja! — Marja Ivanovna si girò sdegnata. Ecco come è andata. Certo, ci sarebbe da sottolineare qualcosa in merito all'opera in questione. Nella storia della letteratura si è spesso prodotto, in prosa, qualcosa di significativo, forse persino di fondamentale, nel genere delle memorie, dei ricordi. Spensierate annotazioni personali assai poco impegnative. È quello che ho cercato di fare anch'io. Tanto più che ricordare è molto più facile che inventare qualcosa con una parvenza di realtà. Mi viene in mente una storiella abbastanza pertinente al tema, che può contribuire a chiarirlo senza ricorrere a metodi pseudo-scientifici. Un europeo arriva in Africa e sulla porta dell'albergo vede appeso un avviso: "Solo per neri!" In un angolino appartato si trucca, torna in albergo, prende una stanza e chiede al portiere di svegliarlo l'indomani alle otto. La mattina successiva, una volta sveglio, l'uomo va al ristorante e lì vede scritto: "Solo per bianchi!" Si precipita di nuovo in camera e inizia a lavare via il trucco senza riuscirci. Si strofina furiosamente con la spugna. All'improvviso ha un'illuminazione e si batte la fronte con il palmo della mano: – Oddio! Il portiere ha svegliato la persona sbagliata! Dite che cose del genere non accadono? Accadono, invece. E ancora. Un'ininterrotta sequela di eventi catastrofici isometrici ed equipotenti può forse suscitare, se non proprio sorpresa, quantomeno una certa stanchezza. Siamo d'accordo. Bisogna accettare e rassegnarsi (se proprio è necessario rassegnarsi a qualcosa). Bisogna cercare di imbroccare il ritmo di questa monotona, ritmica proliferazione di catastrofi reali e inventate (nel mio caso, naturalmente, tutte reali). A suo tempo, anch'io dovetti rassegnarmi. E una volta rassegnato, meravigliato e sereno, lessi fino all'ultima pagina il grande libro Viaggio in Occidente. Se entri nel suo ritmo monotono e regolare, capisci o meglio percepisci che pure la sconfinata vita della storia è solo una smisurata sequela di avvenimenti ripetitivi davanti a uno sguardo indifferente che abbraccia in modo globale tutto lo spazio del grande tempo storico, lo spazio di tragici, monotoni avvenimenti. E in che cosa Mosca non è una visione e uno spazio di questo tipo? Una lente d'ingrandimento. O meglio, continuando a utilizzare metafore ottiche, Mosca è una lente di riduzione, uno strumento ottico che permette, con un solo sguardo, di abbracciare non un ristretto intervallo ma l'intera linea dell'universo, o il cerchio massimo dell'universo. Impossibile forse? Possibilissimo, invece. Mettiamola così. Ma ora basta. Passiamo alla sostanza. | << | < | > | >> |Pagina 15Ricordare è facile. Mi ricordo che poco tempo fa pensavo a Leningrado e mi è venuta in mente Mosca. Per l'esattezza quanto mi era capitato a Mosca in vari anni. E lo stesso, seppure con differenze minime nei nomi delle vie e delle persone – dettagli trascurabili – mi è capitato a Leningrado. E con Leningrado. Poi però mi sono detto: che c'è di strano? Del resto sono io a ricordare, mica qualcun altro. E mi ricordo proprio un caso in merito ai ricordi. In merito all'azione e al processo stesso del ricordare. L'episodio è così indicativo che vale la pena di riportarlo, sebbene appartenga, è ovvio, a un altro periodo, a un contesto diverso e utilizzi parole assolutamente diverse. Ma è davvero assai indicativo. Eccolo. Entro in metropolitana. Prendo la scala mobile. Poco più in basso, uno scalino sotto, ci sono due giovani signore di seconda, insomma, non primissima giovinezza. Vestite niente male. Niente male anche per i nostri tempi di lusso: costose pellicce. Truccate con misura, ma a sufficienza. Con una nota di malinconica indolenza nella voce, una dice all'altra: – Ho fatto tutto come mi hai detto tu, ma mi è rimasto comunque l'amaro in bocca. Drizzo le orecchie, pronto ad ascoltare, prima che termini la discesa, se non proprio tutta almeno una buona parte della romantica storia, sul genere della Signora con il cagnolino di Cechov. Oppure Anna Karenina. Qualcosa di straziante, strappacuore fin ai più profondi, primitivi precordi. - Avrai dimenticato di metterci la foglia di alloro – risponde l'altra con tono grave da maestrina. Oh Signore! Ma vi rendete conto: aveva semplicemente dimenticato di mettere una vile foglia d'alloro! Lo sbigottimento per l'attesa delusa, per la mia stupida, avventata fantasticheria letteraria si manifestò con tale evidenza da costringermi a voltarmi in tutta fretta. Da non crederci. Assolutamente inconcepibile. Tempo dopo ho chiesto chiarimenti ad alcune conoscenti. Donne esperte mi hanno detto che probabilmente si stava parlando di un piatto di pesce. Alcuni pesci tirano fuori un insopportabile sapore amaro che le foglie di alloro in effetti mitigano, aiutano a neutralizzare. E allora? È forse vietato? Ma certo che no! Una normale situazione di vita quotidiana. Niente di naturale è scandaloso. Quando ho raccontato agli amici l'episodio, da più parti mi sono arrivate interessantissime ed efficacissime varianti e interpretazioni della stessa storia. E tutti volevano convincermi, convinti a loro volta, che fosse capitato a loro. Be', niente in contrario. Neanche io ormai sono più sicuro di nulla. Torniamo però a Leningrado. O meglio, a Mosca. Le città sono tutte uguali. Persino i nomi si somigliano tanto da confonderti le idee. Prendete per esempio Mosca e Leningrado. Indistinguibili. Spaventosamente indistinguibili. E comunque, in genere, è sempre tutto uguale. Certo, qualche piccola differenza esiste: in una si usa la parrucca, nell'altra la tunica; da una parte giubbotti, dall'altra berretti con fregi color lampone e con la foglia di alloro di cui sopra. Poco tempo fa però mi è capitato di pensare a Bochum e il ricordo era molto diverso. In genere ricordare è facile. Credere è più complicato. Perché o bisogna credere che tutto sia successo non a te, non qui, in altri tempi, per ragioni non verificabili e con particolari non decifrabili, in presenza di gente non conosciuta, con conseguenze, motivazioni e sofferenze non prevedibili. Oppure, cosa ancora più difficile, esattamente il contrario. Non c'è alternativa. Vero è che esiste sempre quella che io chiamo la trappola gnoseologica del guizzo. Non prendere decisioni definitive ma guizzare tra due poli, rimanendo in una zona di indecisione. Di irresolubilità, di inafferrabilità a un definitivo, imparziale giudizio altrui e, in misura non inferiore, anche al proprio. Il che coincide con tutti i moderni comportamenti e le strategie nelle arti ipercontemporanee. Accessibili a una minoranza per il loro radicalismo e la loro famigerata supermodernità, è vero. Ma così è. In queste arti chi parla si avvale dei più disparati metodi di comunicazione e non rimane invischiato in alcuna particolare stilistica ma, come una pulce su una padella infuocata, saltella dall'una all'altra. Senza mai indugiare troppo a lungo su nessuna in particolare, per non finire impantanato. E al contempo senza involarsi né troppo lontano, né troppo a lungo, proprio per non finire in una zona di non distinzione. Grosso modo in questo senso e con questo taglio si sviluppa, o meglio si svilupperà, la mia narrazione. Dunque. Cosa ricordo? Be', qualcosa ricordo. Ricordo per esempio una piccola, anche se piuttosto nota strada moscovita, via Spiridonievka, che era già stata via Spiridonievka prima di tornare a essere, oggi, via Spiridonievka. Nell'intervallo – che coincise con il mio soggiorno nei suoi confini – fece in tempo a essere per un po' via Aleksej Tolstoj. Ma di questo dirò più avanti. Anche io ci abitai. Molti mi videro. Mi videro però in un aspetto così indecoroso, irriconoscibilmente infantile, che adesso non mi riconoscono più. Mi capita di farmi un giro nei luoghi in cui ho vissuto in passato. Percorro la via, sbircio nelle finestre che un tempo furono nostre, subito dopo l'arco che porta al terzo edificio, a partire dal Sadovoe kol'co, l'Anello dei Giardini. Ci abita qualcuno. La sera vedo luci accese, teste sconosciute, simpaticamente arruffate alla russa, chine sul tavolo. Voglio gridar loro: "Canaglie! Carogne! Ci vivevo io, qui! Proprio nel luogo in cui voi, adesso, occupate illegalmente lo spazio della mia infanzia!" "Dove, quale infanzia?" rispondono quelli guardandosi attorno. "La tua infanzia qui non c'è. Cittadino, lei si sbaglia." "No, no, non mi sbaglio affatto. Si trova proprio qui la mia fragile e indifesa infanzia, calpestata dai vostri piedi insensibili! Avanti, diteglielo, confermateglielo!" mi avvento sui passanti, afferrandoli per le maniche di gabardine. Quelli, senza fare una piega, disgustati, si tolgono le mie dita di dosso, quasi fossi un ubriaco o un furfante, oppure peggio, un verme viscido e mucoso: "No, non ricordiamo!" e proseguono affrettando il passo. "Carogne! Carogne!" singhiozzo. Nessuno crede che io sia stato lì e abbia vissuto in quel posto. Va detto che amnesie simili sono fenomeni diffusi. Tenere a mente e ricordare gente che cresce e cambia in continuazione è un compito ingrato. Di solito ti riconoscono per qualche oggetto astratto ed estraneo. Magari se ti vedono accanto ai tuoi genitori o a un parente, a un accompagnatore o a un tutore, cambiati in modo definitivo e radicale ma tuttavia ancora riconoscibili. A volte ti ricordano associandoti al posto in cui hai sempre vissuto. Altre per un piccolo, toccante o repellente dettaglio: un neo, un ciondolo o un anello, un occhio cavato mentre facevi un gioco pericoloso. Oppure per una gamba, che una granata rimasta lì dai tempi della guerra ti ha staccato mentre giocavi. Nella Mosca di allora però, dopo guerre e guai vari, tutto era così confuso, tante erano le gambe e le braccia strappate, tanti gli occhi cavati e i crani spaccati. Ci si trasferiva così spesso da un posto all'altro, morivano talmente tanti parenti, che identificare le persone diventava proprio impossibile. La gente vagava da un posto all'altro senza riconoscersi, come poveri diavoli disperati, come cespugli secchi sospinti dal vento. I bambini si gettavano al collo dei loro presunti genitori: - Mammina! Mammina! Papà! Nonnina! Costoro, inorriditi, li respingevano: – Ma chi sei, licantropo? Chi ti conosce! – e inorriditi se la davano a gambe. E quelli li rincorrevano. Genitori e figli si scontravano per strada, formando mucchi indistinti. Sopra ci si buttavano altri, isterici, insensibili ormai al dolore, al luogo o al tempo in cui tutto avveniva. Facce inondate di lacrime e storpiate dall'orrore si trascinavano per le strade, incapaci di rialzarsi sotto l'insostenibile peso della sofferenza e dei corpi che gli stavano sopra. Molti così si calmavano, schiacciati sotto quella piramide gigantesca che aveva inghiottito tutti gli abitanti di Mosca. Allora le autorità disposero un potenziamento straordinario, grandioso e senza precedenti delle varie forze di polizia, per incanalare il paese nell'alveo dell'autoidentificazione, della memoria e di una qualsiasi capacità di azione. Affinché i cittadini cominciassero in qualche modo a riconoscersi: dall'aspetto, dall'uniforme, dalle mostrine delle guardie, dai numeri di matricola dei lager o da altri segni distintivi. Pian piano tutto tornò in ordine. Le persone, pur facendo resistenza, di fronte alla tenace pressione delle forze dell'ordine cominciarono a ricordare: le abitudini, l'ambiente, le spalline degli ufficiali, le scuole per allievi ufficiali. Persino gli abiti da sera e il baciamano alle signore. Cominciarono a ricordare i nomi di gloriosi eroi russi: Suvorov e Kutuzov. Di scrittori: Tolstoj e Dostoevskij. Cominciarono a ricordare molte cose dimenticate. Un mio compagno d'istituto, per esempio, un bel giovane alto e snello, componeva insoliti e raffinati versi di gusto decadente, incoraggiato da Boris Pasternak in persona. Trascorreva serate intere seduto a bersi uno, poi due, poi tre bicchierini di vodka, e ad ascoltare canzoni di Vertinskij scovate chissà dove, asciugandosi gli occhi lacrimosi e borbottando: – Un bambino! L'hanno ammazzato, il piccino! Il principino ereditario. L'hanno ammazzato! – e giù lacrime. Da parte mia non sapevo come reagire, giacché percepivo ancora la fucilazione della famiglia imperiale secondo i canoni della storia bolscevizzata. Poi qualcuno cominciò persino a ricordare cose tali da indurre il potere a prendere urgenti provvedimenti restrittivi. Ma successe più tardi. Era questo però a costituire la vita di allora, con il suo fascino, le sue passioni, le sue tragedie. E proprio allora io vivevo in quella via Spiridonievka a cui, in tempi recenti, è stato restituito l'antico nome. Sotto le finestre della mia stanzetta condivisa, in una kommunal'ka, un appartamento condiviso di dieci stanze, passava un baffuto poliziotto, lo zio Petja. A dire il vero, passava non sotto la mia finestra ma sotto le finestre di un edificio adiacente a casa nostra, sede della rappresentanza americana, sostituita, in seguito, dall'ambasciata polacca. Poi da qualcos'altro. E, per l'ennesima volta, da qualcos'altro ancora. Adesso non ho più idea di cosa ci sia. Nessuno lo sa. È pur vero che nessuno ricorda cosa ci fosse un tempo. Addirittura non ricordano se ci fosse effettivamente qualcosa. Io però mi ricordo: c'era qualcosa di americano. O meglio: mi sono impegnato, e dunque sono tenuto a ricordare. E mi ricordo. Ricordo un me stesso postbellico piccolo, palliduccio, malaticcio, quasi impercettibile. Con una gambetta zoppa e l'altra perfettamente funzionante, ma incredibilmente magra e tesa. Ricordo che, strizzando gli occhi per il sole luminoso ma non caldissimo di primavera, mi trascinavo nel cortile interno posteriore, circondato dai muri dei palazzi addossati l'uno all'altro. Per un bizzarro concorso di circostanze mi trovavo lì in occasione di uno dei più interessanti avvenimenti pregni di valore ideologico e patriottico della mia vita. In realtà non avrei dovuto prendervi parte, giacché quel giorno era prevista la storica visita con il mio papà al Mausoleo in cui riposava il grande Lenin. Evento certo molto importante, assolutamente paragonabile per valore a quanto poi accadde nel nostro cortile. Anzi, forse ancora più significativo in una scala di valori autentici. La visita alla piazza Rossa costituiva una delle attese ricompense per il mio esemplare comportamento di bambino. Era stata pianificata a lungo, scegliendo un giorno libero di mio padre che coincidesse con gli orari di apertura del Mausoleo. I precedenti premi per il mio comportamento esemplare non erano stati granché esaltanti: un paio di galosce, un tamburo e una specie di locomotiva che era un pezzo di legno con dischetti al posto delle ruote. E insomma erano mesi che aspettavo quella visita. Nella mia testa immaginavo nonno Lenin disteso impalato nella sua bella alcova che, con gli occhi appena socchiusi, accompagnava benevolo ogni visitatore. Sapevo che lui giaceva morto, ma nel contempo era eternamente vivo. Un abbinamento capace di conferire straordinaria perfezione all'immagine che avevo in testa. Il babbo mi avverti che all'interno del Mausoleo bisognava stare buoni, in assoluto silenzio. Ma nessuno aveva intenzione di urlare, né di dare scandalo. Accettai di buon grado le sue raccomandazioni e cominciai ad aspettare la data della nostra visita. Poi, quando mancava un solo giorno, mi capitò un terribile guaio. Una vera e propria disgrazia. Mi si offuscò la mente. Avessi almeno commesso l'azione destinata a infrangere ogni mio piano e sogno, che so, uno o due giorni dopo. E invece no! A quanto pare in cielo gli eventi sono ordinati con incredibile precisione cronometrica. Con implacabile sequenza. Ecco cosa successe. Il giorno precedente avevo notato sul tavolo le enormi banconote della pensione della nonna. Sapevo che si trattava di soldi, ma li presi comunque e scesi in strada a chiamare i miei amici. Poco tempo prima il mio amichetto Saga si era vantato di poter rubare cinque rubli da casa. Scoppiava d'orgoglio e di esibizionismo per quell'atto eroico che dava già per compiuto. Nessuno lo aveva visto con i propri occhi: gli credevamo sulla parola. Lo ascoltavamo con rispetto e invidia. – Capirai – scattai io, desideroso di compensare la mia inadeguatezza fisica e di far abbassare la cresta allo spaccone. – Io so dove mia nonna tiene la pensione. E posso portarvela qui. La risposta fu un generale silenzio di diffidenza. Ormai non avevo scampo. Perché naturalmente ho fatto il furbo dicendo di aver visto i soldi sul tavolo. No, il mio è stato un furto vile e consapevole. Quando la nonna uscì per alcune commissioni, accostai quatto quatto una sedia alla credenza sopra la quale, in una tazza, c'era la chiave dello sportellino. Lo aprii e tirai il secondo cassetto dal basso dove, sotto la biancheria, di solito veniva nascosta la pensione. Presi i soldi, richiusi il cassetto, rinserrai lo sportello, rimisi a posto la chiave, risistemai la sedia e mi precipitai in cortile. Cinque minuti dopo tutto il gruppo correva verso gli Stagni del Patriarca, da una gelataia di nostra conoscenza. Avevo promesso a ognuno una paradisiaca felicità e quantità folli di gelato. All'improvviso, tutto mi sembrava possibile. – Dove hai preso tanti soldi? – chiese sospettosa la gelataia. – Me li ha dati la nonna – mentii. – Così tanti? – borbottò lei, comunque già convinta, sollevando il coperchio del cestello. – Sì... Accantonato ogni dubbio, la donna cominciò a distribuire nelle mani frementi di noi bambini una gran quantità di gelato. Il resto dei soldi lo suddivisi in parti uguali. Naturalmente la sera stessa fui smascherato e tradito dai miei cari amichetti torchiati dai rispettivi genitori, sorpresi di trovare inattese somme di denaro in mano ai propri pargoli. In modo così inglorioso si concluse, senza essere mai iniziata, la mia visita al Mausoleo. Picchiato e colpevole, me ne uscii in cortile. Lì si agitava il ben noto gruppo di amici di varie età. Mi osservai attorno con circospezione per cogliere segnali e anticipare ogni possibile osservazione scherzosa, e magari sarcastica, sulla mia gamba zoppa. E invece mi gettarono appena un'occhiata, in silenzio. – Come va? – chiese qualcuno. – Tutto normale – risposi senza entusiasmo ma facendomi coraggio. Poi guardai lo spiazzo a me familiare del cortile. A quell'epoca, avevano allontanato per l'ennesima volta certi forestieri dalla città. L'umore era energico e combattivo. Capivo quale fosse l'ordine del giorno. Non certo quanto era appena successo. La primavera era giunta impetuosa. Le enormi pozzanghere che solo il giorno prima invadevano la parte centrale della nostra via, relativamente ampia, si erano asciugate. Era passato poco tempo da quando ce ne stavamo in piedi sul bordo del marciapiede gridando agli autisti dei camion di passaggio: – Ehi, capo, tieniti più a destra, più a destra! A sinistra c'è una buca! – Che? – si sporgeva l'autista mezzo sordo e tutto sudicio dal finestrino della cabina. – Più a destra! Lì c'è una buca! – Capito! – rispondeva soddisfatto. E in quel preciso istante la ruota anteriore destra si affossava nella profondissima buca, urtando con il radiatore e rischiando seriamente di spaccare l'asse. Noi scappavamo a gambe levate disperdendoci. Lui, sacramentando, tirandosi a fatica fuori dalla macchina e inzuppato fino alla cintola, tentava di inseguirci. Ma figuriamoci! Questi, insomma, erano i nostri ingenui divertimenti quotidiani. Adesso, invece, c'era qualcosa di diverso in vista. Qualcosa di decisamente più forte. Era estremamente importante difendere le gracchie russe dagli invasori americani. Dietro la palizzata che separava il nostro cortile dal cortile della famigerata organizzazione verosimilmente americana, stava accadendo qualcosa. Si rendeva necessario un nostro immediato intervento, una nostra risposta. All'epoca tutti, dal più piccolo al più grande, erano pronti a opporsi a qualsiasi ostile velleità di intromissione nei nostri progressisti affari sovrani. E dunque: al di là della palizzata accadeva quanto segue. Come ho già accennato, iniziava la primavera. Le gracchie, che avevano fatto i nidi tra i rami degli altissimi alberi del cortile americano, espletavano regolarmente le proprie naturali necessità – tra parentesi, non meno naturali di quelle dell'uomo – direttamente sulle automobili dell'ambasciata, parcheggiate sotto gli alberi. Conoscete bene il deleterio effetto delle sostanze corrosive contenute nel guano dei volatili sulla lucida carrozzeria dei mezzi di trasporto stranieri. Gli scaltri e perfidi americani, arrampicandosi fino a metà tronco e lanciando grosse funi tra i rami, avevano cominciato a distruggere i nidi degli sfortunati pennuti che svolazzavano lì attorno emettendo stridii laceranti. Al loro si unì anche il nostro lamento, straziante. In un inatteso risveglio di patriottismo furente e tuttavia cinico, urlavamo sempre più infervorati e rauchi in una sorta di crisi isterica, sempre più sinceramente convinti di essere nel giusto: – Giù le mani dalle gracchie russe! – Americani, lasciate in pace le gracchie russe! Su questo materiale quotidiano tentavamo di manifestare il nostro non dozzinale impegno patriottico. Certo, difficile dire in cosa quelle gracchie, giunte da ignote lontananze, fossero più russe degli americani vissuti ormai piuttosto a lungo sul nostro territorio. Le gracchie però erano russe per definizione, mentre "un americano russo" suonava come un nonsenso assurdo. E noi ce ne rendevamo conto. E rimanevamo lì a urlare: – Giù le mani dalle gracchie russe! – Americani, lasciate in pace le gracchie russe! – Carogne americane, non toccate le nostre gracchie russe! Fuori, su via Spiridonievka (allora via Aleksej Tolstoj), sul grande portone metallico dipinto di resistente vernice verde si spalancava una porticina e usciva per strada un americano grande e grosso, vestito in maniera alquanto singolare per il semplice occhio sovietico. Veniva nel nostro cortile ed esclamava qualcosa del tipo: – Ehi! Noi ci voltavamo e rimanevamo di stucco. Dalle tasche estraeva le mani piene di buonissime caramelle mou Korovka, merce straordinaria in quei tempi semiaffamati. Noi ci avvicinavamo furtivi e colpevoli, senza staccargli gli occhi dalla faccia: chi lo conosceva, quello! Era pur sempre uno straniero. Dovevamo essere pronti a tutto. Ci avvicinavamo e lui, sempre col suo smagliante sorriso immutabile per ampiezza ed eloquenza, se ne stava lì, allungando verso di noi le mani disarmate ma ricolme di caramelle. In un batter d'occhio le afferravamo. Ne scartavamo in quattro e quattr'otto gli appiccicosi involucri e ce ne ficcavamo due o tre nelle piccole bocche bluastre, incapaci di accogliere tanta felicità in un solo boccone. L'americano, dopo aver distribuito la sufficiente quantità di sorrisi, se ne tornava ai suoi sporchi affari. Mentre noi eravamo intenti a ingozzarci di caramelle, a difendere la causa delle gracchie ci pensavano gli stessi sconclusionati uccelli. Poi, inutile dirlo, le caramelle finivano e ci tornava in mente il dovere. Ci ricordavamo che le gracchie non erano forestiere, ma russe. E riprendevamo a gridare a squarciagola: — Lasciate in pace le gracchie russe! – Americani, lasciate in pace le gracchie russe! Di nuovo spuntava l'americano. Di nuovo la storia si ripeteva. E continuava a ripetersi. Come e quando finisse, non me lo ricordo. Forse le due parti belligeranti si stancavano oppure, conclusi con successo i propri subdoli affari, ognuno riprendeva la strada di casa. Allora uscivo dal cortile strizzando gli occhi e per strada incontravo zio Petja, il gagliardo poliziotto di cui sopra che, adagio adagio e con fare baldanzoso, percorreva avanti e indietro il perimetro dell'edificio degli americani della cui incolumità era stato incaricato. Trascinando a fatica la gamba, iniziavo a zoppicargli dietro, cercando di imitare la sua invidiabile gagliardia nell'adempimento del servizio di pattuglia, cosa che, naturalmente, appariva comica. Ma in quel periodo il servizio di pattuglia – che adesso ben pochi ricordano – era fatto con grande responsabilità. Portato a termine fra pericoli e intrighi inconcepibili da una mente sana, messi in atto dai numerosi nemici del sistema sovietico. Magari proprio da quegli americani al di là del muro che zio Petja difendeva dall'ancora peggiore slealtà degli americani esterni. Al tempo stesso lui rivolgeva ampie affettuosi sorrisi all'indirizzo dei miei goffi sforzi, raccontando a una nonnetta, affacciata alla finestra sino alla cintola, come fosse la vita in Ucraina, perché lui era ucraino. Raccontava con un piacevole accento del sud che dava colore alla rigida e responsabile parlata e alla vita del nord. Cosa ci fosse concretamente in Ucraina l'ho dimenticato, perché in fin dei conti ero piccolo. Solo dettagli. Stupidaggini varie e altre cose assurde. Tipo che c'era la fame. E dov'è che non c'era la fame, allora? Quasi ovunque. La conoscevamo. Per me, ragazzino storpio, non era niente di straordinario. Fame, sempre e solo fame. Ma non tanto per i racconti del poliziotto quanto per le afflizioni di mia nonna, assuefatta a qualsiasi cosa, capii che la fame in Ucraina era di tipo davvero particolare. Non si trovava pane e neanche alimenti che comunque si trovano in circostanze simili e che spesso ti permettono di tirare avanti: l'acetosa, l'assenzio e la bietola. Lì invece erano stati stroncati alla radice. Le radici stesse venivano strappate e la terra appariva come fosse stata dissodata. All'inizio la gente vagava per i boschi con grosse ceste intrecciate, alla ricerca di bacche e funghi, almeno finché se ne trovavano. Se poi si imbattevano in uno sconosciuto, senza starci troppo a pensare lo aggiungevano al resto nella cesta alimentare. Embè? Vi sembra strano? Niente affatto. Poi passarono a catturare nottetempo i deboli, quelli che non erano in grado di opporre resistenza, per mangiarseli tutti insieme appassionatamente in famiglia. Poi intere squadre iniziarono a organizzare battute di caccia contro chi poteva magari opporre resistenza. E lì, a chi toccava toccava: qualcuno festeggiava una settimana in più di vita, altri trovavano la pace eterna nell'altrui stomaco e in forma parecchio rielaborata. In un primo momento le ossa, le parti non commestibili o gli avanzi, vuoi per timore, vuoi per senso del pudore, venivano sotterrati negli orti. Poi per abitudine e pigrizia cominciarono a gettarli per la strada, quasi a voler dimostrare: ecco, guardate quanto siamo sazi e forti. Naturalmente i primi a lasciarci le penne furono i topi, i gatti e i cani. Una volta presa la mano, riuscivano a catturarli con grande abilità e rapidità. Non facevano in tempo a emettere un guaito che gli avevano già bello e tirato il collo. Nel frattempo generi alimentari non se ne vedevano arrivare. Anzi, al contrario: l'Ucraina era assediata da truppe e recintata da filo spinato. Chiunque tentasse di superare l'accerchiamento veniva eliminato. Senza avvertimenti. Di notte, quando i cadaveri non avevano ancora avuto il tempo di iniziare a decomporsi, dall'interno del paese assediato, strisciando sui gomiti per non farsi vedere, si avvicinavano alcuni compaesani che di nascosto avevano seguito le vicende e sapevano come sarebbe andata a finire. Poi alcuni si trasferirono lì apposta e misero su una vera e propria impresa. Di gente, però, in giro ce n'era sempre meno. L'attività andò spegnendosi. E si andavano spegnendo anche le forze di chi vi si era dedicato. Ormai era diventato fisicamente impossibile varcare la soglia di casa. E allora cominciarono a mangiarsi i propri cari, i più a portata di mano, vale a dire i parenti, a cominciare dai più deboli. – E i più deboli, lo capite da soli chi sono! – diceva zio Petja con un sorriso indefinito. | << | < | > | >> |Pagina 55Certo la cosa più complicata non è tanto ricordare, sebbene pure questo sia abbastanza complicato. Nel ricordare qualcosa è difficile tenere a mente quanto si è ricordato la volta precedente, affinché i due ricordi non entrino in contrasto. Cioè, non tanto non si contraddicano, quanto non si annullino. Non si screditino, insomma. Per quanto mi riguarda, mi è indifferente. Ma chissà perché molti ne sono profondamente infastiditi. Talvolta addirittura esasperati: — Ma se te l'ho raccontato io ieri. — Guarda che ieri non mi hai raccontato proprio niente. È successo a me. Camminavo per la strada, mia moglie potrà confermarlo, passeggiavamo e cosa vedo? Su un piedistallo c'è Hitler, di profilo. — Ma quale profilo, e quale Hitler! Te l'ho raccontato io ieri, proprio qui, in questo posto! Andavi di corsa, ti ho fermato e ho detto: aspetta che ti racconto una storia divertente! E tu hai risposto: sì, sì, ma sbrigati perché ho fretta! — No, non l'ho detto. Non è neanche il mio lessico. — Ah, ma vedi un po', non è il suo lessico! E invece rubare e rivendersi le storie altrui, quello è il suo lessico! — E che c'entra qui il lessico? — Be', sei stato tu a parlare di lessico. — Io? — Sì, l'hai appena detto. — E allora? Ho detto: il mio lessico. E adesso cosa dovrei fare? Fustigarmi forse? — Ma che vai blaterando? — E tu, invece? — Basta, me ne vado — e si allontana infuriato e indispettito. E tu, scuotendo la testa, perplesso, ti incammini per la tua strada. No, per sicurezza è assolutamente necessario munirsi di un giunto di riduzione, un manicotto nero, un canale di spurgo, una pompa capillare, un canale di convogliamento di qualcosa che non c'è stato o che avrebbe potuto essere in un'altra maniera o magari che c'è stato per metà o che potrebbe avere avuto luogo. Difficile, certo. E il difficile non sta nell'evitare che la verità venga offesa. Se è la verità, non è possibile tradirla. Cioè, è già complicato stabilirla, evidenziarla, per poterla poi, diciamo così, offendere in modo consapevole e mirato. In questo tipo di attività mentale in genere non è chiaro cosa si possa definire verità. Esistono alcune varianti. Alcune interpretazioni verosimili. Come si suol dire: menti, menti pure, ma non strafare! Niente di più facile, sembrerebbe. E invece no. Il difficile sta proprio qui. Per esempio, magari ti ricordi di essere stato malato per tutta l'infanzia. Di come una volta, dopo la guerra, all'improvviso ti sia venuta una febbre feroce, quasi che un gatto ti si fosse avventato contro. A quel tempo la febbre girava di continuo per Mosca. Di tanto in tanto si diffondeva per la Russia già consumata dalle sofferenze, passando da un corpo all'altro e unendo tutti in un grande male collettivo. Da lì si espandeva, imperversava, addensandosi al centro come una sorta di plasma, in quell'assurdo stato di aggregazione trattenuto solo dalla tensione, dalla forza enorme esercitata dalla sua avvolgente massa corporea. Quelli che per puro caso si trovavano al centro, seppure stretti in un unico gruppo, rimanevano nel contempo minuscoli, fragili, caduchi corpuscoli separati che bruciavano senza lasciare traccia di cenere. Tanto elevata era la temperatura. Vi rendete conto?! Poi si diffondeva tra i vicini, carbonizzandoli e disperdendone la cenere in un unico, limpido soffio di aria pura e trasparente. E poi toccava ad altri ancora, finché le vittime non si contarono a decine, centinaia, migliaia, milioni, milioni di milioni. Per questo motivo nel paese si scatenavano incomprensibili tumulti sotto forma di insurrezioni e pogrom popolari che si spostavano lungo il corso dei fiumi Volga, Oka e Kama, accompagnati da brutalità e violenze inaudite che neanche l'estrema esasperazione dell'animo umano avrebbe potuto giustificare: impiccavano, mozzavano arti, osservando il tutto con un sorriso stampato su volti forsennati. Scorticavano i vivi, li mutilavano con le seghe, gli versavano addosso acqua bollente. Insomma assurde, facete oscenità del genere. Senza sosta, oltre l'immaginabile, fino a quando ogni cosa non diventava così rovente da essere irriconoscibile. A quel punto rimanevano solo rari individui frementi e orribilmente surriscaldati come l'aria rovente nel cuore di un altoforno. Anche nei casi più semplici non era affatto facile arrestare la febbre. Nemmeno quando si abbassava a un livello tollerabile dall'organismo umano, a un livello in qualche modo sopportabile. Niente, non c'era verso di fermarla. O almeno di isolarla, per fare chiarezza. Capitava che raggiungesse i 41,3 gradi e si propagasse, all'istante, per un intero rione. Poi in un altro. E poi, rapidissima, in tutta la città. O si concentrava in una sola persona senza, peraltro, perdere né l'intensità né la capacità di diffondersi, l'attimo successivo, per vasti spazi umani. Insomma, fenomeni collettivi di questo genere, a parte la febbre, sono diffusi ovunque, ma di rado si manifestano in maniera così sfacciata e palese. Allora invece capitò. Dopo pochi giorni mi si paralizzò tutta la parte sinistra. E cosa avrei dovuto farci, con quella parte paralizzata? Trascinarmela dietro? Lasciarla a casa senza sorveglianza e andarmene in giro fischiettando per cortili o vagabondando tra le file nei negozi? O magari rinnegarla? Naturalmente, data la mia giovane età, al momento non riuscii a trovare soluzioni adeguate. E comunque neanche i dottori si dimostrarono di alcun aiuto, visto che definirono "paralisi infantile" quanto era strano e inesplicabile. In realtà, come si chiarì in seguito, si trattava di una poliomielite maligna e insidiosa. Se l'avessero capito in tempo magari sarebbe stato possibile fare qualcosa. Conoscere un nome con esattezza è affare serio e importante. Io però, come pure gli altri, quel nome lo appresi molto tempo dopo. Peraltro a oggi sono rimasti dei dubbi in merito alla veridicità, alla profonda veridicità del nome di quel fenomeno che si era presentato nel nostro mondo sotto la sgraziata definizione di poliomielite. La malattia ci era stata elargita dai famosi americani, assieme a tanti altri non meno micidiali flagelli come i coleotteri del Colorado, il vetro pestato aggiunto al frumento, i rotoli di velluto blu scuro avvelenato, i giocattoli-trappola, le sigarette e gli alimenti intrisi di sostanze inebetenti e via discorrendo. E così la malattia aggredì la nostra popolazione infantile. Dopo un mese, per strada non sentivi più lo squillante e allegro vociare dei bambini, né lo schiamazzo di quando giocavano ad acchiapparella, o a lippa, o alla corsa, con ruzzoloni e ginocchia sbucciate, o a palla prigioniera lanciando la palla di gomma in alto nel cielo azzurro, o a battimuro con il dolce tintinnio di monetine che, per noi bambini, erano merce rara. Ad acchiappa-fulmine. A Shanghai. Alla corda che guizza veloce tra le mani abili e pronte delle bambine. A sfonda-la-barriera dove i corpi non erotici dei bambini ridendo si scontrano e si intrecciano. A moscacieca, ussa-la-bussa, billa-la-bolla e caratandù, a pallacorda, lancia-la-bambola e campana. Adulti incupiti camminavano per strada, strisciavano, timorosi di ingravidare e mettere al mondo deboli esserini facili prede del mostro americano, e angosciati dalla propria assoluta impotenza. A quei tempi preservativi o pillole non esistevano e la legge puniva severamente gli aborti con la fucilazione, come tradimento della Patria, vale a dire per aver tradito il dovere, nei confronti della Patria, di generare futuri soldati o future madri di futuri ardimentosi soldati, pronti all'estremo sacrificio di sé. In questo consisteva il primigenio diritto della Patria allora universalmente riconosciuto. La Patria, al di sopra di ogni cosa ma presente ovunque, ti piombava in casa e si prendeva quanto le apparteneva di diritto. E, va detto, le apparteneva tutto. Assolutamente tutto. Tranne, è evidente, le cose basse e nauseanti come i miasmi, i rifiuti organici, la merda, muchi vari, vomito, pus, squamature di rogna e moccio di naso. Atavismi di una natura non illuminata attraverso cui tentava di far breccia in un edificio puro e luminoso dove non era previsto che essa avesse posto. Talvolta le riusciva. Ma le riusciva come entità non paritetica, difettosa, come nocumento al regno della libertà, inaccessibile in virtù della propria natura. Come nel mio caso, ad esempio.
Ergo: cos'altro rimaneva da fare? Per i sollazzi erotici si ricorse a
cani, gatti, lepri, volpi, topi e persino insetti. In varie località spuntarono
creature assai strambe ma pur sempre viventi. Mostruose
combinazioni di caratteristiche zoomorfe e antropomorfe balenavano in esseri che
sfrecciavano veloci, fulminei, che si nascondevano
nelle fessure per proteggersi dalla luce forte e dagli sguardi attenti.
A lungo andare divennero più audaci e aggressivi. Nottetempo si
avventavano sui passanti, strappando loro grossi brandelli di carne.
Era una lotta quasi impossibile, al di sopra delle forze di polizia e
dell'esercito. Li bruciavano con i lanciafiamme, li avvelenavano con
bocconi impregnati di arsenico e curaro. Nulla si dimostrava efficace. Nulla
poteva sconfiggerli, se non quelle stesse tormentose e incurabili malattie. Per
fortuna si rivelarono più vulnerabili del previsto a ogni sorta di danno e morbo
fatale. Nel giro di poco tempo i
loro cadaveri invasero quasi l'intera città. I bulldozer non facevano
altro che ammucchiarli in fosse immense per ricoprirli di terra. Ancora oggi,
nella periferia di Mosca, archeologi e scienziati dilettanti
continuano a riportare alla luce resti mostruosi, scervellandosi nel
tentativo di capire a quale epoca preistorica appartengano quelle
impensabili creature.
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