Copertina
Autore Adriano Prosperi
Titolo Il seme dell'intolleranza
SottotitoloEbrei, eretici, selvaggi: Granada 1492
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 2011, Saggi Tascabili 360 , pag. 180, cop.fle.sov., dim. 10,8x18x1,4 cm , Isbn 978-88-420-9442-5
LettoreRiccardo Terzi, 2011
Classe religione , storia medievale , storia: Europa , storia criminale , paesi: Spagna
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Indice


   Introduzione                                         VII

   Parte prima
   Alle origini dell'antisemitismo

1. 1492, inizio della storia moderna                      5
2. Granada 1492. Un nodo della storia del mondo          22
3. Prima di Granada: alle origini dell'intolleranza      27


   Parte seconda
   La persuasione, il controllo, il sospetto

4. La conversione. Veri e falsi cristiani                55
5. La nuova Inquisizione e l'osservanza della fede       70
6. L'espulsione degli ebrei                              82

   Parte terza
   Il potere della fede, la fede del potere

7. La responsabilità delle scelte                        93
8. Gli esiti: purezza di sangue e differenze di razza   105
9. Eredità lunghe                                       120

   Per concludere: un protagonista                      129

   Appendice                                            137

   I.   Disposizioni per il vescovo di Gerona
        dell'Inquisitore generale Torquemada
        (20 marzo 1492), p. 139

   II.  Editto di espulsione, p. 144

   III. [Per il regno dell'Aragona], p. 150

   Note                                                 159

   Indice dei nomi                                      175


 

 

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Pagina VII

Introduzione



La recente scoperta che nella mappa del genoma umano non esiste il gene della razza ha destato scarsa meraviglia: da tempo sappiamo che le differenze fisiche su cui si reggono i discorsi di tipo razzistico non hanno fondamento.

Non esiste il «sangue blu» della nobiltà. Non esiste la puzza dell'ebreo. Θ esistita una classe di persone che si faceva vanto di non dover esercitare nessuna attività manuale per vivere: e l'assenza di lavoro manuale si rivelava in una epidermide delicata che lasciava trasparire una rete venosa azzurrina, invisibile sotto la pelle callosa di contadini, marinai, commercianti. Ed è esistita la costrizione del ghetto che, chiudendo in spazi ristretti e senza acqua corrente la popolazione ebraica, giustificava après coup gli odori acri di corpi e di ambienti attribuendoli alla «natura» degli ebrei. Θ esistita la pratica di battere con nerbate gli schiavi africani: dal che, rovesciando la cultura in natura, si ricavò la tesi che la pelle dei neri fosse diversa da quella dei bianchi, destinata a ricevere bastonate perché diversamente spessa e robusta rispetto a quella dei bianchi. Era la natura dei corpi dei neri africani a denotare la destinazione razziale al lavoro schiavile e non viceversa. Non molto diversa è oggi la condizione delle minoranze di immigrati o di marginali nei paesi ricchi, che vengono sottoposte allo stesso meccanismo di disumanizzazione attraverso il mezzo semplicissimo della limitazione dei diritti. «Come la parità nei diritti – ha scritto Luigi Ferrajoli – genera il senso dell'uguaglianza basata sul rispetto dell'altro come uguale, così la diseguaglianza nei diritti genera l'immagine dell'altro come diseguale, ossia inferiore antropologicamente proprio perché inferiore giuridicamente».

In tutti questi casi siamo sempre davanti a quella forma di esclusione sociale dettata dal potere che consiste nell'invenzione di una barriera della diversità: da una parte il vero essere umano, dall'altra il non-uomo. Come ha osservato George Mosse , al posto della persona in carne ed ossa il punto di vista razzista mette uno stereotipo umano. Il che consente il sistematico rovesciamento ideologico dei dati reali e la costruzione di piramidi di sopraffazioni su finte basi naturali.

Dunque, ogni volta dietro la supposta differenza di natura è emersa una differenza di potere. Ma, se queste antiche legittimazioni della violenza e dello sfruttamento sono diventate nel nostro presente del tutto prive di credibilità, non per questo è venuta meno la produzione di «diversi», di frazioni di umanità a regime speciale, prive di diritti, offerte al disprezzo e all'odio delle maggioranze di «normali». L'esperienza del passato si rispecchia in quella del presente. Se sul piano teorico le pretese di verità delle teorie razzistiche sono state smascherate senza possibilità di difesa, sul piano dei rapporti sociali si riaffacciano di nuovo ogni qualvolta i rapporti di potere riaprono una fessura in questa direzione.

Abbiamo ricordato sopra che il gene della razza non esiste, ma siamo sempre davanti a quella forma di esclusione sociale consistente nell'invenzione di una barriera naturale della diversità: da una parte il vero essere umano, dall'altra il non-uomo.

Sullo sfondo si avverte la ripresa dell'antisemitismo, o almeno il suo instancabile riaffacciarsi nel discorso pubblico uscendo dal silenzio e dalla vergogna in cui la Shoah l'aveva costretto. Verrebbe da pensare che la storia si ripete. Θ una considerazione sconfortata che ha sempre goduto di larga diffusione, come se dovessimo arrenderci davanti alle ripetute cadute dell'intelligenza dell' homo sapiens nella barbarie. La guerra contro l'altro è eterna, si legge nel titolo di una fortunata e vivacissima rassegna delle forme di discriminazione, da quelle delle grandi tragedie del passato alle «piccole storie ignobili» dei nostri giorni (piccole per chi non ne è la vittima, naturalmente).

Dobbiamo dunque rassegnarci a riconoscere che qualcosa di naturale esiste nei dati morali dell'umanità, che il costume dell'avversione verso l'«altro» è iscritto – esso sì – nei nostri geni e che la pianta umana è un albero storto, come ammetteva anche Kant, che mal si piega alla regola dei diritti? Prima di chiudere con questa sconsolata ammissione, è forse il caso di rovesciare i termini della questione e di concentrare l'attenzione non su ipotetici fattori naturali della differenza e dell'ostilità fra esseri umani, ma sui dati storici e sui meccanismi sociali che hanno dato vita alle forme dell'esclusione. Non senza aver ricavato un'ultima osservazione dai risultati della mappatura del genoma umano: a quanto si è scoperto, solo un numero assai ridotto di geni identifica la specie umana, differenziandola da altre specie animali che consideriamo inferiori. Nel corso dell'evoluzione delle specie, quegli altri animali sono stati battuti e assoggettati dagli uomini. Allo storico viene in mente l'immagine della ghianda e della quercia usata da Marc Bloch per riassumere il senso del mutamento storico: lo sviluppo nel tempo delle civiltà è come quello che dalla ghianda porta alla quercia, dipende dal terreno. La risposta agli stimoli e alle occasioni offerte dall'ambiente è la causa dello sviluppo. E Bloch aggiungeva: gli uomini sono figli dei loro tempi più che dei loro padri.

Riconoscerlo è accettare una grande lezione, simile a quella che venne data secoli fa dalla scoperta di Niccolò Copernico. Non siamo il centro dell'universo; non siamo stati dotati – dalla natura, da Dio – di qualità speciali. La specie umana si è evoluta: siamo arrivati a mandare astronavi fuori dell'atmosfera e a contare i geni del Dna. Ma ogni nuova scoperta scaturita dai viaggi negli spazi esterni e in quelli a noi interni ci rimanda a delle verità amare: soli e sperduti in un angolo dell'universo, dividiamo il nostro ambiente naturale con altre specie che abbiamo imparato a dominare e a sfruttare, ma senza che questo discenda da un decreto originario e immutabile e senza che si possano dire risolti i problemi di sopravvivenza della nostra specie. Da ciò, il bisogno di ripercorrere la strada fatta con gli strumenti della conoscenza storica per riconoscere gli errori di percorso, per tenerne conto nel correggere – se possibile – la rotta.

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Pagina 5

1.
1492, INIZIO DELLA STORIA MODERNA



Un momento si fissò con grande efficacia nella memoria dei contemporanei, un momento preciso della storia europea, quello che legò le origini del maggior impero mondiale creato da una potenza europea con tre figure sociali di «diversi»: ebrei, eretici, selvaggi. Ecco come un cronista italiano ne prese nota indicando sotto la stessa data due eventi distanti fra di loro nel tempo ma legati da uno stesso filo:

A dì 2 zenaro 1492 fu presa Granata per il Re di Spagna de mane de Mori: et per quello furno cazati li marani.

Come mostra quest'annotazione, il giorno della conquista del regno moro di Granada da parte dell'esercito cristiano si iscrisse molto presto tra le date memorabili ben al di là dei confini iberici. E la sconfitta dei mori si saldò con l'altro evento spagnolo, la cacciata dei «marrani». Ma fu in Spagna che la caduta del regno moro di Granada si fissò immediatamente al vertice delle memorie gloriose di una religione guerriera. Cambiò allora il calendario festivo della Spagna cristiana e il giorno memorabile della conquista fu festeggiato con una solennità speciale come el dìa de la Toma: festa civile e religiosa insieme, subito assoggettata alla norma cattolica della santificazione obbligatoria delle feste.

Ma a Granada, dopo la sconfitta del regno moro, avvennero altre due cose importanti. Furono prese due decisioni dai sovrani Isabella e Ferdinando, che avevano unito con il loro matrimonio i regni di Castiglia e León e di Aragona. Una è specialmente celebre e ha da sempre un posto obbligato nel racconto della storia dell'Europa e del mondo: quella che siglò l'incontro – mediato dal confessore della regina – di Cristoforo Colombo con Isabella e il successivo accordo per la spedizione delle caravelle, fissato nelle capitolaciones del 17 aprile 1492. Qui la regina Isabella, come erede dei regni di Castiglia e di León, decide di finanziare il progetto di Cristoforo Colombo; a lui sarà consentito di armare tre caravelle e andare in cerca di una via delle Indie diversa e concorrenziale rispetto a quella aperta e controllata dal regno del Portogallo. E così «por Castilla y por León / Nuevo mundo alló Colón». Ma ce n'era stata un'altra di decisioni importanti che allora apparve ben più significativa: il 31 marzo, sempre a Granada, era stato firmato l'editto reale di espulsione degli ebrei.

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Possiamo pertanto dire che nel 1492 ebrei, eretici e selvaggi si incontrarono in un luogo: la città di Granada, conquistata da Ferdinando re d'Aragona e da Isabella di Castiglia. A loro, già autori dell'istituzione dell'Inquisizione, in occasione della vittoria finale nella guerra di crociata contro i musulmani di Spagna si dovettero dunque due decisioni di grande importanza storica, grazie alle quali l'età che si apriva e il mondo per la prima volta globalizzato furono dominati da quei tre tipi di umanità che abbiamo indicato: tre costruzioni culturali, che dietro l'essere umano nella sua concretezza proiettarono il profilo dell'«altro», del diverso. Figure diverse e diversamente costruite, con ingredienti tratti di volta in volta dal sapere ufficiale, dalla fantasia e dall'esperienza.

Il personaggio dell'eretico, così com'era stato costruito dalla tradizione ecclesiastica, era connotato dal massimo grado di negatività: era quello di chi, entrato nella Chiesa col battesimo, se ne separava volontariamente e sceglieva per seduzione diabolica di seguire l'errore e di perseverarvi. Lo definiva tale l'autorità ecclesiastica, misurando le opinioni e i comportamenti dell'individuo col metro precostituito della dottrina ortodossa.

Quanto alla figura del selvaggio, si trattava di un essere dall'incerta umanità, un misto di esperienza reale e di rappresentazioni mentali: confinava con quella dell'uomo selvatico, l'abitante favoloso delle selve dal corpo coperto di peli, e con quelle dei mostri di cui si fantasticava nelle narrazioni dei viaggiatori e dei navigatori. Ma era soprattutto nel mondo ignoto delle isole oceaniche, oltre le rive dell'Atlantico, che si muovevano esseri sconosciuti, fantasticati e raccontati elaborando tradizioni antiche e frammenti di conoscenze riportate dai viaggiatori di professione – i marinai, i frati, i nomadi di ogni genere. Nel bagaglio mentale di un esperto navigatore come Cristoforo Colombo, le narrazioni di Marco Polo e i favolosi raccontari circolanti sotto il nome di Giovanni da Mandavilla si erano amalgamati con le immagini di esseri mostruosi che dovettero essere presenti nell'ambiente dei porti e che lo accompagnarono come un'attesa fin dal suo primo sbarco all'Hispaniola. La cultura dei navigatori aveva da tempo trasmesso immagini delle popolazioni delle Canarie che si erano combinate con un'intera letteratura pronta a impadronirsi delle informazioni portate dai viaggiatori per calarle in un disegno che da tempo veniva elaborato.

Ma il tipo umano nel quale esperienza reale e stereotipi mentali erano costretti a intrecciarsi nella vita di ogni giorno era quello dell'ebreo: il diverso per definizione e nello stesso tempo la presenza più familiare della cultura e della vita quotidiana, colui di cui si ascoltava la storia nella liturgia e si vedevano immagini nelle chiese – quelle dei profeti e dei patriarchi, ma anche e più spesso quelle dei carnefici del Messia – e che aveva volti e presenze ordinarie nella società dei viventi. Nell'ebreo il misto di realtà e di immaginazione raggiungeva il massimo della fusione in quella società spagnola dove l'ossessione dell'ortodossia e la volontà di espansione e di conquista stavano rompendo i confini chiusi del mondo medievale.

Per una volta, dunque, tre fili diversi si intrecciarono nello stesso luogo, nello stesso anno e nelle stesse mani: il nodo che ne risultò doveva segnare l'intera storia del mondo. Coincidenza singolare: casuale o storicamente necessitata? La storia è piena di coincidenze e al gioco del caso non sfuggono né le vite degli individui né le sorti delle società umane. Ma quella che si verificò allora nella penisola iberica fu eccezionale nei tempi e nei modi: si incontrarono insieme le sorti di tre tipi umani sui quali doveva scatenarsi la violenza di una sopraffazione legittimata da poteri politici e religiosi. Tre grandi processi storici – colonialismo, intolleranza religiosa tra cristiani, antiebraismo/antisemitismo – stavano prendendo avvio e si preparavano a dominare la storia dell'Europa e del mondo da essa unificato. La domanda è se quella data e quell'incontro furono realmente importanti nell'avvio di quei processi o se quello che ce li rende significativi è solo il bisogno di semplificazione che domina la memoria del passato. Perché un fatto è certo: quella data ha da secoli un posto centrale nella storia come narrazione. Ancor prima che si passasse, dalle categorie tradizionali dell'articolazione epocale della storia (le cinque monarchie del Libro di Daniele, le tre età di Gioacchino da Fiore e così via) alle tre ère cronologiche – antica, medievale, moderna –, l'anno 1492 apparve molto presto come il punto d'avvio di una grande svolta storica. Ma quella svolta si è colorata di volta in volta in modi diversi.

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Pagina 22

2.
GRANADA 1492.
UN NODO DELLA STORIA DEL MONDO



Un fatto è certo: il 1492 fu l' annus mirabilis della storia della Spagna. Ma nel definirlo tale oggi si insiste più sulle fratture che allora si aprirono che sulle realizzazioni e sulle conquiste che allora vennero celebrate. Cerchiamo di riportarci al panorama che era sotto agli occhi dei contemporanei. Qui, ai margini dell'Europa, in un paese diviso per lingue, culture e religioni, i due sovrani dei maggiori Stati della regione hanno raggiunto un obiettivo importante. Hanno portato a termine il processo secolare della reconquista, la crociata interna alla penisola iberica: togliere agli eredi dei conquistatori arabi fedeli all'Islam i regni da loro edificati.

Ferdinando il Cattolico è il re dell'Aragona. Con lui, unita in matrimonio, opera la regina Isabella di Castiglia, che ne condivide l'esaltata esibizione di fervore religioso e guerriero. La caduta del regno moro di Granada segna il trionfo di un cristianesimo bellicoso diventato ideologia ufficiale della casata regnante. Ai confini estremi della penisola è cresciuta intanto una realtà nuova: il regno del Portogallo, il quale non solo ha portato l'attacco al mondo musulmano al di là dello Stretto di Gibilterra, ma sta costruendo un impero marittimo sulle coste dell'Africa e ha mandato le sue navi fin nell'Oceano Indiano. Se nel 1492 a Granada la scoperta dell'America era ancora nascosta nelle nebbie del futuro, l'orizzonte dei sovrani spagnoli era però occupato dalle vicende del confinante e concorrente regno di Portogallo, nel quale la spinta verso le Indie durava da decenni e stava proprio allora per portare all'obiettivo straordinario dell'approdo di Vasco da Gama alle coste dell'India.

Il referente delle due case regnanti è lo stesso: il papato. Era stata una concessione di Niccolò V che aveva legittimato la conquista di popoli non cristiani e la loro eventuale riduzione in schiavitù in nome dell'espansione della fede tra i «barbari». Se ne ricorderà la coppia reale spagnola quando, al ritorno di Colombo con le notizie delle isole sconosciute scoperte nel «mar Oceano», si farà riconoscere dal papa spagnolo Alessandro VI Borgia il possesso di quella parte del mondo con l'argomento della sua devota intenzione di espandere i confini della fede. Quanto alla lotta contro l'eresia, si tratta di un volto del cristianesimo medievale che aveva trovato da tempo espressione nella nascita dell'Inquisizione contro l'eretica pravità. E l'odio nutrito nei confronti degli ebrei come popolo dei deicidi apparteneva a una tendenza radicata tra i cristiani della penisola iberica come in genere nella cristianità europea.

La sfida che oppone le due realtà statali, quella del piccolissimo Portogallo e quella del grande regno di Spagna in via di formazione, ha per campo uno scenario mondiale, nel quale ambedue avanzano facendosi scudo di un privilegio speciale: quello ottenuto grazie alle concessioni di un papato che si sta risollevando da una gravissima crisi e che grazie a loro può rispolverare la teoria medievale del suo supremo potere sul mondo intero. Nella penisola iberica conosce una rinnovata attualità la parola d'ordine della crociata.

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Nella Spagna della reconquista le casate regnanti non potevano ignorare la forza suggestiva dei miti dell'onore e della missione del potere cristiano. Ne è documento fra gli altri il Libro del cristiano scritto da Francesc Eiximenis tra il 1379 e il 1384: un trattato che affidava al sovrano dell'Aragona il disegno di un assetto del corpo politico cristiano sotto il segno della nobiltà, della lealtà e della purezza di religione. Anche della purezza di sangue. Ed è qui che fa capolino la figura del giudeo. L'orrido giudeo, il porco, è l'antimodello per eccellenza: non solo l'ebreo noto come tale ma anche chi ne discendeva per legami di sangue. La maledizione del pio francescano cala implacabile sull'arrivista che si è infiltrato a corte: e dietro l'indegno cavaliere, l'«orrido porco» che dovrà essere espulso dalla corte, è svelata l'identità nascosta del «figlio segreto di qualche orrido giudeo».

Quanto a san Vicente Ferrer, le sue intense campagne di proselitismo non risparmiarono gli ebrei. Pochi mesi prima del grande pogrom del 1391 era attivo in Castiglia; e se è vero che gli scritti del predicatore sono celebri proprio per l'insistenza sulla missione come alternativa pacifica alla crociata, non è detto che le sue immagini fiammeggianti venissero intese nel senso giusto dagli ascoltatori quando parlava di «matar los juheos» con le parole e non col coltello; di fatto la pressione da lui esercitata sugli ebrei perché si battezzassero fu particolarmente forte negli anni più drammatici per le comunità ebraiche spagnole. E comunque le folle cristiane assorbivano un messaggio di violenza e di vendetta dalla voce dei predicatori, che nella Settimana Santa li muovevano a piangere per le sofferenze del Cristo piagato e sofferente della Passione, dipinto nei grandi retabli delle chiese. Nasceva allora l'impulso vendicativo contro i responsabili di quel martirio: gli ebrei eredi del popolo di Gerusalemme che aveva voluto la crocefissione del Figlio di Dio. Inutilmente gli ebrei spagnoli cercarono di distinguersi dal «popolo deicida», inventandosi attestati apocrifi di una loro presenza in Spagna già all'epoca del processo a Gesù; non diversamente da quegli eredi dei musulmani di Spagna che alla fine del Cinquecento, avvicinandosi anche per loro la tempesta dell'espulsione definitiva, cercarono di parare il colpo coi reperti di una antichissima tradizione arabo-cristiana spagnola inventata per l'occasione.

Di fatto fu con l'ingresso sulla scena della predicazione dei frati e del loro tribunale dell'Inquisizione che la condizione degli ebrei spagnoli cominciò a cambiare. Nei confronti degli ebrei non ci fu più solo un generico clima di ostilità, legato alla condizione sociale di questa minoranza e alla funzione di agenzia finanziaria e fiscale svolta dai suoi esponenti più in vista. La fanatica volontà di snidare l'eretico e di conquistare le folle fece leva sull'immagine del Cristo della Passione come veicolo di un patetismo religioso che assimilava il peccatore e il miscredente agli ebrei deicidi. Sull'ebreo calava lo stereotipo diabolico della negazione della fede e della sacrilega ostinazione nell'offesa a Cristo. Tra gli ingredienti più efficaci ci fu quello della cosiddetta accusa del sangue, una leggenda dalle origini oscure diventata progressivamente una minaccia incombente sulle comunità ebraiche interne al mondo cristiano. Se nella realtà storica la Pasqua cristiana era nata dalle radici della Pasqua ebraica, nei rapporti di forza tra la nuova religione universale e l'antica fede ebraica quella filiazione si rovesciò in esecrazione. Nei riti ebraici della Pasqua si credette di vedere una contraffazione dei propri. Quella dei cristiani era una celebrazione della vita, un sacrificio senza sangue, che attualizzava l'unico sacrificio di Gesù come vittima immolata per la salvezza dei credenti. Il che non aveva impedito che nel mondo pagano delle origini se ne parlasse come di riti in cui si sacrificava e si mangiava un bambino. La stessa accusa venne lanciata ora contro gli ebrei, sospettati di immolare per la loro Pasqua un bambino cristiano e di impastare col suo sangue il pane del rito pasquale.

Una sommaria cronologia degli episodi – a partire dal primo caso, quello del dodicenne William di Norwich del 1144, raccontato dal monaco Thomas di Monmouth, fino alla vicenda del processo di Kiev nel 1913 e oltre – mostra chiaramente che la catena di orrori prodotti da questa truce leggenda ha toccato ogni paese europeo: con esiti diversi, tuttavia, perché se l'imperatore Federico II di Svevia bloccò sul nascere uno di questi episodi, altri poteri politici e religiosi ne alimentarono e sfruttarono le emergenze. Tale fu il caso spagnolo. A Saragozza nel 1250 la tradizione ha fissato il caso di un Dominguito del Val (al tempo del caso di Kiev ci fu chi attribuì al segretario di Stato di papa Leone XIII, il cardinale Merry del Val, il santo spagnolo come antenato). L'accusa del delitto rituale si saldò a quella del complotto, un'altra costante che lega l'antigiudaismo cristiano all'antisemitismo razziale. L'ebreo non fu visto solo come colui che uccideva i bambini cristiani, in un contesto religioso malvagio e ostile, ma come colui che complottava per lo sterminio di tutti i cristiani. E l'accusa del complotto fu lanciata con la costruzione di un complotto vero e proprio. Nell'estate del 1321 fu elaborata e diffusa ad arte l'accusa agli ebrei di tramare contro i cristiani, in accordo segreto coi lebbrosi e con l'alleanza di sovrani musulmani: il nemico interno doveva avvelenare i pozzi aprendo così la strada all'aggressione vittoriosa del nemico esterno. Accusa facile a essere creduta: non era forse l'ebreo «l'altro in mezzo a noi», colui che vivendo tra i cristiani rideva di loro, come scriveva in quegli anni Dante Alighieri («sì che l'ebreo di voi tra voi non rida»)? Da questi inizi prese corpo il nucleo originario della figura del nemico interno e il processo di espulsione degli ebrei dai regni cristiani di Francia e d'Inghilterra. La crisi della «peste nera» del 1348 sconvolse la società europea. La paura del nemico invisibile e il superstizioso timore di una punizione divina per la presenza di nemici di Dio nella società portarono a scaricare su frange di emarginati e di diversi la violenza accesa dal terrore della morte. Meccanismi dello stesso genere dovevano riprodursi ancora nei secoli successivi.

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Pagina 93

7.
LA RESPONSABILITΐ DELLE SCELTE



Che cosa spinse dunque i Re Cattolici a prendere quella decisione che appare per diversi aspetti in contraddizione con la loro politica precedente? La domanda si presentò alle menti dei contemporanei. Se ne diffusero subito narrazioni e interpretazioni di ogni genere. Una tradizione documentata tra gli ebrei espulsi mise in relazione stretta i due avvenimenti della conquista di Granada e dell'espulsione. La storia raccontata nel poema di Salomone Ben Samuel Hasefardi, un membro della generazione dell'esilio, ha l'andamento di una favola: sarebbe stata la regina Isabella ad approfittare dello stato d'animo del marito, gonfio di orgoglio per la grande impresa vinta. Il re dice alla regina: chiedimi quello che vuoi. E la regina: voglio la cacciata degli ebrei dalla Spagna. Dunque il motore primo della decisione sarebbe qui la fede religiosa di una donna che risponde allo stereotipo di moglie cattolica prima ancora che alla sua alta funzione di regina. E c'è un altro racconto, altrettanto colorito e fantasioso, ma di una fantasia cupa, imbevuta del mito del complotto ebraico contro i cristiani. Lo si legge nel Libro verde, un testo redatto all'inizio del Cinquecento nell'Aragona: ne torneremo a parlare più avanti per il ruolo nefasto che svolse nella storia della società spagnola. Anche qui la storia ha i colori di una fiaba. Il protagonista è un bambino di nome Juan, Giovanni, il figlio di re Ferdinando d'Aragona: il piccolo don Giovanni si era invaghito di un gioiello curioso, un globo d'oro che il medico del re – un ebreo – teneva al collo. Un giorno riuscì a impadronirsene e subito lo aprì: e a questo punto la fiaba svela le ossessioni cupe della paura, un sentimento che nei protagonisti delle fiabe infantili ha depositato gli spettri storicamente incombenti sulle società. All'interno del globo d'oro il bambino trovò una pergamena dipinta con l'immagine di un Cristo crocifisso che baciava il culo di un cane. E fu il terrore infantile del figlio a far scoprire a Ferdinando d'Aragona quanto vicino al trono fosse giunta la minaccia diabolica. Da cui la decisione di un re padre: tutti gli ebrei dovevano andarsene dal regno. Ma la storia non finisce qui. Ecco due lettere: nella prima gli ebrei di Spagna minacciati di espulsione scrivono a quelli di Costantinopoli per chiedere aiuto e consiglio sul da farsi. Nella risposta di quelli di Costantinopoli si legge un consiglio diabolico: quello di fingersi convertiti e di operare segretamente per la rovina di quella religione che abbracciavano solo in apparenza. Conveniva accettare il battesimo, dal momento che vi erano costretti: ma dovevano allevare i figli nell'odio dei cristiani. I cristiani lasciano ai discendenti degli ebrei l'esercizio della mercatura? I figli degli ebrei devono mandare in rovina i mercanti cristiani. I cristiani distruggono le sinagoghe? I figli degli ebrei battezzati devono diventare chierici e distruggere le chiese. I cristiani vi lasciano vivere? Fate diventare medici i vostri figli perché facciano morire i cristiani. E così via.

L'invenzione del complotto giudaico non era nuova. L'apocrifa corrispondenza tra i nemici interni e quelli esterni e l'idea di un piano terribile di rovina e di morte contro i cristiani avevano avuto un precedente in un altro momento in cui si era fatto ricorso alla costruzione del falso complotto ebraico come proiezione e legittimazione del complotto di poteri cristiani contro gli ebrei. Quella che tornava in questa corrispondenza apocrifa era la tesi del complotto tra ebrei spagnoli e l'Oriente mediterraneo, diffusa nel già ricordato episodio dell'estate del 1321. E si legava questa volta all'accusa del complotto dei convertiti contro i cristiani e all'ossessione della presenza di esseri dal sangue maledetto nascosti tra i cristiani. Accanto a queste tradizioni favolose e agli apocrifi ci fu però anche un racconto storico, sia pure composto a distanza di un secolo dagli avvenimenti del 1492. Quello che si legge nella storia delle origini e dello sviluppo del Sant'Uffizio dell'Inquisizione, scritta e pubblicata da Luís de Páramo, inquisitore della Sicilia, nel 1599, attribuisce il merito della decisione di rifiutare l'argento degli ebrei castigliani a una drammatica e violenta perorazione di Tomás de Torquemada comparso davanti al re impugnando minacciosamente un crocifisso. Dunque secondo questa tesi la motivazione religiosa sarebbe stata la causa fondamentale di quello che accadde. La decisione del sovrano di ricorrere all'espulsione generale come unica alternativa alla conversione sarebbe nata dalla sua coscienza di cristiano scosso dalla reprimenda del suo confessore. Torquemada si verrebbe a configurare come il vero motore di tutto. A questa interpretazione ha dato un forte sapore di verità la scoperta di un documento del 20 marzo 1492, dunque di poco precedente all'editto reale di espulsione, redatto proprio da Torquemada e inviato al viceré della Catalogna, don Enrique de Aragón y Pimentel, e al vescovo di Gerona: qui il Grande Inquisitore affrontava il problema dei giudaizzanti e sottolineava con toni di estremo allarme l'impudente esibizione della loro apostasia e la gravità del pericolo che rappresentavano per gli altri cristiani. Brani di questo testo sono puntualmente ripresi nel decreto di espulsione di undici giorni dopo. Letti in successione, i documenti mostrano una stretta parentela: il testo della «carta» di frate Tomás de Torquemada fu usato come primo abbozzo nella redazione dell'editto. E per di più un riconoscimento ufficiale del contributo del frate lo si legge nel testo dell'editto inviato, sempre il 31 marzo, da Ferdinando alle autorità del regno dell'Aragona. Qui il sovrano raccontò che era stato proprio il «venerabile padre priore di Santa Croce» a intervenire con tutto il peso del suo ufficio di inquisitore e di confessore reale, cioè di colui che aveva in custodia la coscienza del re. Sarebbe stato dunque merito o colpa di Torquemada l'aver convinto Ferdinando d'Aragona che bisognava espellere per sempre gli ebrei come portatori di una lebbra contagiosa. Era veramente così che erano andate le cose?

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Riassumendo. Siamo partiti da una coppia reale che al culmine di un trionfale successo militare e politico prende due decisioni di grande peso destinate a segnare la storia futura della Spagna e del mondo europeo: dal paese che hanno unificato con la loro alleanza matrimoniale e con la forza delle armi cacciano una minoranza di diversa religione e fanno partire una spedizione navale verso le Indie. In questa luce il decreto del 31 marzo appare come l'atto di una volontà sovrana, libera creatrice di storia. Ma una rapida considerazione dei precedenti storici dell'espulsione degli ebrei ha fatto emergere una tradizione di ostilità e di rifiuto da parte della popolazione cristiana, che potrebbe ridurre di molto la misura della libertà del potere nel prendere quella decisione, fino a farlo apparire come la ratifica di qualcosa che era già stato deciso dal consenso della popolazione. Dunque, il potere politico centrale risulterebbe essere solo un luogo di ratifica di processi e orientamenti diffusi. Infine, è emersa tra il trono e la folla una terza realtà: quella dell'azione decisiva svolta da un'agenzia di potere religioso capace di influire fortemente sul corso degli eventi, sia esercitando pressioni direttamente sul sovrano, sia alimentando le tensioni sociali e orientando le pulsioni di intolleranza con la fabbricazione di uno stereotipo pauroso, quello dell'ebreo nascosto sotto l'apparenza di cristiano e pronto a operare magie terrificanti con il potere del sacramento cristiano e con il sangue raccolto con l'infanticidio rituale.

Resta aperta una domanda elementare: perché dunque Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia decisero l'espulsione degli ebrei che non si battezzavano? Dopo aver tentato di seguire la successione dei fatti, si deve ora cercare di rispondere alla domanda centrale, quella delle cause di una decisione che fu importante e di grande rilievo, non solo per le vittime che ne subirono le conseguenze, ma per l'intera società spagnola. Θ vero quello che molti hanno fatto presente: non era la prima espulsione da uno Stato europeo. Ma è anche vero che in nessuna realtà europea la presenza ebraica era così antica, diffusa e numerosa, radicata nel costume e nella vita del paese come in Spagna. Dunque, non è possibile ridurre la vicenda alla replica spagnola di una pratica consueta nella storia medievale del cristianesimo europeo. Che ci fosse bisogno di fornire una spiegazione della decisione reale fu un'esigenza avvertita in primo luogo da chi quella decisione l'aveva presa. Torniamo a considerare, allora, in qual modo Ferdinando e Isabella presentarono le ragioni che a loro dire li avevano spinti a quel passo. Il documento dell'editto di espulsione del 1492 propone una spiegazione che mostra come quella misura fosse stata concepita per tutelare i cristiani «nuovi», i «conversi». Vi si ricorda che si era tentato con una decisione presa nelle Cortes di Toledo del 1480 di separare rigidamente ebrei e «conversi» in modo da evitare la contaminazione di questi ultimi. Ma la misura si era rivelata inadeguata per la tendenza degli ebrei a mantenere contatti con quelli di loro che si erano convertiti e a riportarli a pratiche rituali e abitudini di vita tipiche della loro fede. Perciò si era pensato di colpire con l'espulsione la sola Andalusia dove la presenza ebraica era particolarmente nutrita. Alla fine, dopo avere ascoltato il parere dei Grandi di Spagna, del Consiglio reale, di prelati e cavalieri, ci si era convinti che l'unica misura fosse quella di confinarli per sempre fuori del regno con il divieto di mai più ritornarvi. Il documento presentava la decisione presa come una misura concepita senza una speciale volontà persecutoria: a chi sceglieva di andarsene veniva consentito il tempo di disporre delle proprie sostanze garantendo libertà di movimenti e di operazioni fino al termine fissato al mese di luglio.

Il documento reale propone dunque una giustificazione del provvedimento come l'esito di un percorso senza scosse e senza contraddizioni. L'espulsione degli ebrei sarebbe stata l'esito di un progetto elaborato da tempo e arrivato finalmente a una conclusione in qualche modo obbligata dal comportamento degli ebrei. La scelta non sarebbe nata da una speciale volontà di perseguitare gli ebrei, ma piuttosto dal desiderio di tutelare la condizione di quelli di loro che si erano convertiti. Saremmo dunque davanti a una giustificazione religiosa dell'atto: la tutela della salvezza delle anime dei battezzati da parte di sovrani profondamente convinti delle loro responsabilità cristiane. Da qui la legittimità dell'elogio che papa Alessandro VI rivolse ai sovrani conferendo loro il titolo di «Re Cattolici».

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8.
GLI ESITI: PUREZZA DI SANGUE
E DIFFERENZE DI RAZZA



1. In Spagna

L'efficacia dell'opera svolta dall'Inquisizione fu grandissima. La si potrebbe riassumere con le parole di Francesco Guicciardini, che fu ambasciatore in Spagna nel 1512:

Nelle cose della fede providono, ordinando con autorità apostolica inquisitori per tutto el regno, che hanno, confiscando e' beni di chi si trovava culpato, ed ardendo le persone qualche volta, sbigottito ognuno; e fu talvolta che a Corduba arsono in una mattina cento e dugento persone, in modo che infiniti se ne partirono, che erano infetti; quegli che sono rimasti la vanno simulando, ma è opinione che se la paura cessassi, ancora assai ne tornerebbono al vomito [...]. Giustamente fu dato loro [ai sovrani] dal papa il nome di Catolici re. In modo che oggi in tutta Spagna non abita se non cristiani, eccetto che ne' regni di Aragona dove abitano moltissimi Mori, usando loro moschee e cerimonie; e ve li hanno soportati lunghissimo tempo quegli re, perché pagano dazi assai.

Come ben vide Guicciardini, la macchina messa in opera era dunque tale da sbigottire. Il segreto della sua potenza era molto semplice. L'inquisitore operava sulla base della delega papale: era dunque titolare dell'autorità apostolica e come tale superiore a qualsiasi altro tribunale. Chi gli resisteva incorreva nell'accusa di eresia e veniva punito con la confisca dei beni e con l'arresto. A quella papale si sommava l'autorità del sovrano che garantiva ai frati l'appoggio di una protezione armata. L'istituzione funzionò sulla base di una rigida gerarchia che sottoponeva i commissari locali alle direttive di un Consiglio centrale della «Suprema e universale Inquisizione» informata sui processi attraverso le «relazioni di cause». Bastava il nome della «Suprema» per terrorizzare. Davanti a lei non si poteva opporre alcun privilegio: nemmeno quello dei Grandi di Spagna, l'élite di potere di cui i sovrani dovevano tenere conto in ogni momento per la loro politica, soprattutto per quanto riguardava i legami di fedeltà alla corona e la necessità di aiuto militare. E non è certo trascurabile l'importanza finanziaria della regola che imponeva il sequestro dei beni dei «rei» al primo avvio del procedimento inquisitoriale: il sovrano si impadroniva per questa via di risorse finanziarie che lo rendevano indipendente dai contributi fiscali di una società dove l'esenzione fiscale copriva nobiltà e clero.

Una imponente attività processuale si sviluppò con l'arresto, la tortura, il sequestro dei beni e il rogo di un gran numero di persone. Ma l'efficacia dell'opera del tribunale non si misura solo con i dati dell'attività giudiziaria pura e semplice. La sua presenza bastò a creare una nuvola di terrore all'orizzonte delle comunità ebraiche. L'accusa di «giudaizzare» si prestò a usi ricattatori nelle controversie private, nei conflitti di potere o nei tentativi di impadronirsi dei beni di qualcuno. Fu per questa via che nelle comunità cittadine e nei corpi più potenti e influenti dell'ordinamento spagnolo si giunse all'esclusione di tutti i conversos. Non seguiremo gli sviluppi dell'azione dell'Inquisizione: basterà dire che intorno alla sua struttura e al suo operato si sviluppò una lotta sorda da parte di chi tentava di limitare lo strapotere del nuovo organismo e di criticarne le procedure. La garanzia del segreto sui nomi degli accusatori apriva la via a delazioni e calunnie di ogni genere. E l'uso della tortura fu caratterizzato da forme di arbitrio incontrollato. Non mancarono resistenze e reazioni. La destituzione dell'inquisitore generale Diego de Deza nel 1508, sostituito col cardinale Francisco Jiménez de Cisneros, fu l'esito di uno dei momenti di tale conflitto.

L'oggetto primario dell'opera del nuovo tribunale fu a lungo connotato esclusivamente dai conversos. Solo col secondo decennio del Cinquecento si affacciarono nuove figure di eretici, gli alumbrados. Nel 1525 fu convocata una giunta per discutere la questione dei moriscos, mentre nel 1527 una giunta fu convocata a Valladolid per discutere il caso della diffusione di scritti e di idee di Erasmo da Rotterdam. Ma intanto si faceva strada la tesi della differenza di natura tra gli ebrei e i cristiani: e si spostava qui il conflitto con la minoranza di origine ebraica che era rimasta dopo il 1492 accettando il battesimo. La scelta politica del sovrano era stata quella di cancellare la differenza religiosa che gli impediva di mettere d'accordo l'imperiosa esigenza di compattezza religiosa del suo Stato col bisogno di sfruttare le speciali capacità culturali e commerciali della minoranza ebraica. La reazione che prese corpo non si limitò a sospettare di insincerità la conversione al cristianesimo, ma si richiamò alla tesi di una differenza incancellabile depositata nel sangue degli ebrei e trasmessa ereditariamente: una differenza che rendeva tutti i discendenti di ebrei inaffidabili, infidi, pronti al tradimento.

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L'ansia della conversione si diffuse allora per impulso dei movimenti di riforma della Chiesa, concordi nell'obiettivo di cancellare l'ebraismo quanto discordi e ferocemente divisi nella lotta fraterna tra sette e Chiese. Simboli tradizionali della differenza religiosa e linguaggi dell'avversione subirono un violento avvitamento, che si rese evidente al di qua e al di là delle nuove frontiere religiose create dalla frattura dell'unità della Chiesa occidentale. La figura dell'ebreo dal naso adunco, avido e traditore, campeggiò nella pittura a soggetto sacro dei grandi maestri cristiani, da Albrecht Dόrer in avanti. Un censimento delle definizioni usate per gli ebrei nella cultura cristiana dal tardo Medioevo in poi mostrerebbe lo spostamento tendenziale dell'immagine di quel popolo oltre i confini dell'umanità, verso il mondo delle bestie: volpi, serpi, soprattutto e sempre «porci». Una scrofa che allatta maiali ed ebrei insieme era scolpita nella chiesa di Wittenberg: Lutero la vide e se ne ricordò mentre scriveva il violento pamphlet antigiudaico con cui reagì alla delusione delle prime speranze di convertire al suo cristianesimo il popolo della Bibbia; un libello diventato celebre nel secolo XX solo perché la propaganda nazista ne fece uso e gli imputati nazisti si appellarono a quel documento per giustificarsi. Ma nel secolo XVI quel documento apparve del tutto condivisibile al cardinal Giovanni Morone, rappresentante della linea moderata e riformatrice della Chiesa cattolica. Morone era un importante uomo di Chiesa, dominato da un'ansia di riforma religiosa che gli attirò i sospetti dell'Inquisizione e gli valse un lungo processo, ma fece in tempo a governare l'ultima fase del Concilio di Trento e a metterne in atto le decisioni nella sua opera episcopale. Tuttavia si trovò d'accordo con gli insulti e le aggressioni di Lutero contro gli ebrei, tanto che progettò di tradurre e diffondere sotto falso nome il violento pamphlet antigiudaico del riformatore tedesco. Si tratta di episodi che attestano l'incupirsi dell'orizzonte per la minoranza ebraica in terra cristiana nel Cinquecento. A questa data era stata già elaborata tutta la panoplia dei simboli dell'esclusione. Era nato il ghetto ed erano stati inventati i segni di identificazione pubblica: per i paesi dove gli ebrei come tali erano tollerati, e dunque per alcuni Stati italiani, c'era la lingua di panno giallo cucita sulla manica o sul cappello; per i paesi iberici dove gli ebrei erano stati costretti al battesimo, chi veniva scoperto ancora fedele all'antica religione andava incontro alla morte nel teatro urbano dell'esecuzione capitale o subiva la vergogna degli abitelli infamanti da indossare a vita. Alcuni di questi abitelli – tuniche con disegni di diavoli e di fiamme infernali – si conservarono nei secoli successivi appesi alle pareti delle chiese spagnole.

Come abbiamo detto, il caso spagnolo è particolarmente significativo perché mostra la tendenza a trasformare la differenza ebraica da religiosa in naturale appena l'ebreo si battezzava e diventava cristiano. All'editto reale spagnolo del 1492 si dovette il tentativo più radicale di risolvere il problema: con l'imposizione del battesimo la barriera della differenza religiosa veniva cancellata, l'ebreo diventava cristiano. Ebbene, come abbiamo visto, da quel tentativo di dare una soluzione definitiva al problema doveva risultare un esito del tutto imprevisto: la barriera rimase ma subì una metamorfosi, diventando collettiva ed ereditaria da religiosa e individuale e passando dalla cultura alla natura. E da lì doveva nascere un incrudimento della persecuzione.

Gli stessi ingredienti dell'antisemitismo iberico dovevano ripresentarsi in Europa a partire dalla fine del Settecento: l'idea del complotto ebraico come congiura di un nemico interno attecchì in una società nella quale era stata chiusa l'epoca dei ghetti e gli ebrei erano stati liberati – «emancipati» – da tutte le limitazioni dei diritti individuali fino ad allora imposti. Se in Spagna si era cancellata la differenza ebraica imponendo il battesimo, nell'Europa della Rivoluzione francese si apriva la porta alla cancellazione di ogni differenza tra gli uomini con l'affermazione del principio di uguaglianza, fondato sulla comune appartenenza alla stessa specie umana. Ma proprio da lì doveva partire un'evoluzione dell'antisemitismo che si basò su ingredienti molto simili a quelli antichi: l'idea del complotto contro la società e l'affermazione della incancellabile differenza di sangue della razza ebraica.

Come ha scritto Yerushalmi, «l'elemento critico è, ovviamente, l'apparizione in entrambi i casi del concetto razziale degli ebrei».

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Accanto al tema della differenza naturale, di sangue, l'antisemitismo dell'età contemporanea ereditò dal passato preindustriale il mito del complotto giudaico: restava sordamente presente nel passaggio tra le due epoche la non cancellata accusa cristiana, consolidata nella liturgia cattolica della Messa, della «perfidia» ebraica, e la riaffiorante permanenza dell'accusa del «delitto rituale». Il presente ha dato la mano al passato grazie alla pervasività e alla lunga permanenza di temi e idee in una cultura che ha lungamente riciclato moduli elaborati dall'ostilità cristiana. Qui si intravede un raccolto abbondante per chi setaccia i prodotti e i percorsi della cultura del Novecento europeo: mentre Martin Heidegger leggeva gli scritti del fanatico predicatore Abraham a Sancta Clara, lo scrittore Emilio Cecchi nel ventennio fascista diffondeva col suo bello stile gli argomenti di monsignor Umberto Benigni. E nel contesto italiano delle leggi razziali del 1938, per l'autorevole editorialista de «La Civiltà Cattolica» il problema ebraico era quello di «premunire gli altri dalla loro strapotenza» e di accusare gli ebrei per

le passate persecuzioni, da essi scatenate o promosse contro la Chiesa, in accordo sia con la massoneria, troppo da essi sostenuta, sia con altri partiti sovversivi ed anticristiani, dalla 'grande' rivoluzione francese specialmente, fino ai nostri giorni.

Ogni volta che le crisi della società europea hanno fatto emergere poteri fondati sulla paura, la regressione dei valori illuministici e rivoluzionari dei diritti individuali ha spinto ad attingere all'antico deposito: o, se vogliamo prendere in prestito l'insulto antico contro gli ebrei battezzati e gli eretici recidivi, «ha fatto tornare i cani al vomito».

L'indicazione che emerge dalla considerazione di ciò che accadde nella penisola iberica negli anni iniziali di quella che è stata definita l'età moderna non va intesa tuttavia nel senso di una continuità sotterranea di tendenze e di pregiudizi perenni, sempre uguali e sempre pronti a riaffacciarsi. E nemmeno si può parlare di una trasmissione diretta di strumenti, concetti e istituzioni dai ghetti cristiani ai lager nazisti. La vicenda spagnola appare piuttosto come un modello da tenere presente per confrontarlo con l'altro modello, quello dell'antisemitismo diffuso in Europa a partire dal Settecento. Nell'un caso e nell'altro ad essere cancellata fu la barriera dell'appartenenza religiosa e delle connesse interdizioni, che isolavano e individuavano l'ebreo come figura a parte nella società cristiana. Nella Spagna di Ferdinando d'Aragona l'imposizione del battesimo portò all'immissione nella società di «conversi» dotati degli stessi diritti di tutti i battezzati. La reazione sociale nei confronti di una minoranza, finalmente libera di sviluppare le sue capacità e i suoi notevoli mezzi culturali e finanziari, consistette, come abbiamo visto, nello spostare dalla differenza religiosa alla differenza di razza e di sangue la barriera protettiva che era venuta meno. Qualcosa di analogo accadde quando tra Settecento e Ottocento una nuova legislazione figlia dell'Illuminismo e della Rivoluzione francese portò all'emancipazione degli ebrei. L'ebreo emancipato, invece di scomparire nel corpo di una società che si era messa alle spalle le antiche barriere divisorie tra battezzati e circoncisi, si configurò con i tratti di una differenza nuova e diversamente minacciosa.

Tutto questo permette di individuare alcune cause specifiche di una forma concreta di razzismo e ci riporta sul terreno familiare allo storico, che è appunto quello della ricerca delle cause e non quello dell'astratta indagine sulle origini. Le delusioni della libertà si tradussero nella rinascita dell'antisemitismo come forma storica di una radicata attitudine antiebraica della cultura cristiana. C'è dunque un singolare parallelismo tra la vicenda dell'antisemitismo religioso di marca iberica del 1492 e anni seguenti e quella dell'antisemitismo secolarizzato dell'età contemporanea: se nel primo caso la cancellazione della differenza di religione per mezzo del battesimo accese un sospetto e un odio inestinguibile contro il «converso», nel secondo caso la rivoluzione dei diritti dell'uomo e dell'individualismo economico offrì al tradizionale antigiudaismo cristiano l'occasione per confluire nella corrente del nuovo antisemitismo. Contro l'ebreo emancipato, diventato simbolo del potere del danaro, si allearono i bisogni di sicurezza e le paure regressive davanti alla nuova realtà. E non mancarono di rivelarsi di nuovo utilizzabili molti reperti accantonati dagli avi cristiani nella soffitta della polemica religiosa. Fu così che rinacque a nuova vita il mito del complotto ebraico.

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