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| << | < | > | >> |Indice3 1 A casa e all'asciutto. Un'introduzione 11 2 L'edificio crolla (1837-1839) 39 3 L'uovo di kiwi (1842-1844) 67 4 Punto di ancoraggio (1846-1851) 101 5 Un'anatra per il sig. Darwin (1848-1857) 129 6 L'abominevole volume (1858-1859) 177 7 L'idea più adatta (dal 1860 a oggi, e oltre...) 203 8 L'ultimo coleottero (1876-1882) 219 Bibliografia 229 Ringraziamenti 231 Indice dei nomi e delle opere |
| << | < | > | >> |Pagina 3Capitolo 1
A casa e all'asciutto. Un'introduzione
Charles Darwin occupa un posto particolare nella storia della scienza e nella società. Il suo nome è certamente noto, ma le sue idee (con un'unica eccezione) non sembrano essere altrettanto familiari: il fatto che si tratti di un personaggio centrale, iconico, non significa che sia compreso del tutto e da tutti. Ciò detto, se la comunità scientifica emettesse banconote, il volto sul biglietto da un dollaro sarebbe con ogni probabilità quello di Darwin. È un bel volto il suo, amabilmente impassibile come quello di George Washington consegnato alla storia dal dipinto di Gilbert Stuart; eppure, proprio come quello del presidente americano, cela profondi tratti di complessità e di tensione. Tutti hanno un'idea, più o meno vaga, di chi sia Charles Darwin, di che cosa abbia fatto e detto, e ciò che la maggior parte della gente crede di sapere è che ha inventato "la teoria dell'evoluzione", convinzione che, pur non essendo del tutto sbagliata, per quanto confusa e imprecisa, non coglie gli aspetti del suo lavoro più profondamente originali, pericolosi e intriganti. Allo stesso tempo eroe e spauracchio, Darwin è dato per scontato come non avviene per Copernico, Keplero, Newton, Linneo, Charles Lyell, Gregor Mendel, Albert Einstein, Marie Curie, Niels Bohr, Werner Heisenberg, Alfred Wegener, Frederick Hubble, James Watson e Francis Crick. Un buon esempio della sua pretesa notorietà è la noncuranza con cui vengono impiegati nei discorsi di tutti i giorni i termini "darwinismo" e "darwiniano", i quali riducono a mero marchio un vasto e variegato corpus che invece non ammette di essere semplificato con tanta facilità. Dimenticate il darwinismo: non esiste. A meno di definirlo arbitrariamente - questi concetti sì, questi no - come nemmeno Darwin si è permesso di fare. Che cosa, poi, può essere definito darwiniano? Beh, un'attrazione per i colombi ornamentali è darwiniana, dato che, per un periodo della sua vita, il nostro uomo ebbe occhi soltanto per la sua personale collezione aviaria di gozzuti, pavoncelli e romani. Una passione per le lunghe passeggiate solitarie non lontano da casa è darwiniana; ricorrenti accessi di vomito sono, come vedremo, decisamente darwiniani. La questione è questa: Charles Darwin non ha fondato un movimento o una religione, né ha mai formulato un credo di assiomi scientifici perché fossero cesellati su di una tavoletta in pietra recante il suo nome. Charles Darwin era un biologo solitario che scriveva libri. A volte ha commesso degli errori, a volte ha cambiato idea, a volte si è dedicato a questioni minori e in altri casi a soggetti di notevole peso. Di certo, gli scritti pubblicati da Darwin sono per la maggior parte accomunati da un medesimo filo conduttore, ossia l'unità di tutta la vita come riflesso dei processi dell'evoluzione; questo tema fu però articolato in una varietà di concetti, alcuni dei quali, agilmente interconnessi, continuano a dimostrarsi tutt'oggi validi in campo biologico, mentre altri non hanno superato la prova del tempo. Ecco perché conviene esaminare le idee di Darwin singolarmente, piuttosto che cercare di raggrupparle sotto un marchio. Fra i grandi scienziati prima menzionati, Copernico è lo studioso il cui impatto più si avvicina a quello di Darwin: la rivoluzione dell'astronomo polacco che mise in guardia gli esseri umani circa la loro fallace centralità all'interno dell'universo fu infatti portata avanti dal naturalista britannico, il quale estese tale concezione dalla cosmologia alla biologia. «Spesso», Darwin mormora fra sé e sé in uno dei primi taccuini, «la gente parla del meraviglioso evento della comparsa dell'uomo dotato di intelligenza», ma lui, dal canto suo, non era così impressionato dall'emergere dell'«uomo dotato di intelligenza», tanto da aggiungere che «la comparsa di insetti con altri sensi è più meravigliosa». Questo eretico commento dimostra come, fin dalle sue prime elucubrazioni sul modo in cui le specie hanno origine, Darwin negasse all'umanità la natura semidivina che quest'ultima si era autonomamente attribuita, includendoci piuttosto nel guazzabuglio della lotta per la sopravvivenza e del cambiamento. Egli non era un umanista (benché sempre umano); non era un cervello di Homo sapiens a mandarlo in visibilio, ma le istintive capacità architettoniche e di orientamento delle api mellifere. Ho detto che Darwin ha "portato avanti" anziché "completato" la rivoluzione copernicana contro l'antropocentrismo perché la questione non può ancora dirsi conclusa. Molte persone, anche tra quelle che dichiarerebbero di accettare la teoria evolutiva di Darwin (qualunque cosa credano che sia), rifiutano di abbracciare in toto le implicazioni di ciò che il naturalista scrisse. La sua idea più grande, più grande persino dell'evoluzione, era semplicemente troppo grande, troppo audace e minacciosa; questa idea è ciò che chiamò "selezione naturale", identificandola con il meccanismo centrale del cambiamento evolutivo. Secondo la teoria di Darwin (confermata da un secolo e mezzo di ulteriori prove biologiche), la selezione naturale è un processo senza scopo ma efficace: impersonale, cieco al futuro, esso non ha fini, solo esiti. Gli unici criteri di selezione di tale processo, che da variazioni disordinate, selezionate e accumulate, produce pragmatiche forme di ordine, sono la sopravvivenza e il successo riproduttivo; i suoi fattori trainanti la superfecondità e la competizione mortale; i suoi prodotti principali e collaterali l'adattamento, la complessità e la diversità. La profonda casualità in esso racchiusa contraddice inoltre la nozione per cui le creature viventi su questo pianeta, le loro facoltà (incluse quelle umane), le loro storie, il loro essere indigeni di determinati ambienti e le loro interrelazioni rifletterebbero tutti una sorta di piano divino preordinato. Chi può dunque biasimare i proseliti del creazionismo impegnati a perseguire le agende politiche cristiane per il senso di ripugnanza e l'apprensione con cui guardano a una simile idea? La loro voce, espressione di un dissenso nei confronti del pensiero evoluzionistico, non è peraltro fuori dal coro: negli ultimi anni, i creazionisti hanno avuto motivo di sentirsi incoraggiati dall'elevato grado di resistenza persistente — quanto meno negli Stati Uniti — a ciò che Darwin affermò nel lontano 1859. Le loro sfide politiche (in seno alle assemblee legislative statali e nei comitati scolastici locali) sono state insistenti ma perlopiù prive di successo e processi importanti (come il caso Edwards-Aguillard del 1987, in cui la Corte Suprema federale dichiarò incostituzionale la legge sull'insegnamento del creazionismo nelle scuole della Louisiana, e il caso Kitzmiller-Dover nel 2005) Si sono risolti a loro sfavore, eppure su una cosa hanno ragione: a livello più generale, l'opinione pubblica nutre un grado di ambivalenza stupefacente a tale riguardo. L'America postmoderna è un focolaio di idee pre-evoluzionistiche. | << | < | > | >> |Pagina 44Cominciò con la questione della variazione negli animali domestici, osservando come, fatto abbastanza ovvio, gli individui differissero leggermente gli uni dagli altri per dimensione, peso, colore ecc. Poiché alcune di queste differenze potevano essere ereditate, gli allevatori erano stati capaci di far perdurare e persino amplificare determinati caratteri particolarmente vantaggiosi selezionando con cura gli animali da accoppiare e, mediante un'adeguata selezione operata sul lungo periodo, avevano persino prodotto nuove razze (cavalli da corsa e cavalli da tiro, mucche da latte e mucche da carne, e via dicendo). Da qui Darwin prese le mosse per elaborare la sua analogia fondamentale.Dalla variazione domestica passò alla variazione nelle creature allo stato selvatico e a quelli che definì i «mezzi naturali di selezione». La variazione allo stato selvatico poteva non essere tanto frequente o tanto estrema quanto la variazione allo stato domestico (così pensava), ma in determinate circostanze si verificava. Quale ne era la causa? Darwin lo ignorava e, per il momento, non aveva importanza. La cosa importante era che alcune di queste variazioni, al pari di quelle osservate negli animali domestici, potevano essere ereditate. Inoltre, dati i tassi naturali di crescita della popolazione e l'enorme eccedenza di prole non sostenibile - concetti su cui Malthus gli aveva aperto gli occhi - le creature selvatiche avrebbero dovuto essere soggette a una sorta di eliminazione selettiva automatica in funzione della loro capacità di competere per la sopravvivenza e per le opportunità di accoppiamento. A questo punto Darwin era pervenuto non soltanto all'analogia con l'allevamento domestico, ma anche al suo termine d'elezione: la «selezione naturale». Il risultato finale dell'avvicendarsi di migliaia di generazioni, scrisse in tono sommesso, sarebbe stato quello di far «cambiare le forme». Aveva dunque descritto un meccanismo fisico (o, almeno, una parte di esso) per mezzo del quale potevano essere prodotte nuove specie. Ma era possibile dimostrare empiricamente che nuove specie erano state prodotte, l'una a partire dall'altra, attraverso una simile parata di cambiamenti organici? Sì, lo era. Nella seconda parte di questo testo spiegò sommariamente come, categoria per categoria: il repertorio fossile, la distribuzione geografica, la classificazione sistematica delle specie basata sulle affinità morfologiche, gli organi rudimentali (come le ali del kiwi) tendevano tutti a confermare l'idea della trasmutazione e a confutare la dottrina della creazione speciale. Quindi stilò una conclusione, servendosi dell'esempio di tre specie di rinoceronte asiatico - provenienti rispettivamente dall'isola di Giava, da quella di Sumatra e dal subcontinente indiano - e osservando come, secondo un creazionista, tali specie sarebbero state create tutte e tre, con la loro «apparenza illusoria» di stretta consanguineità, mediante distinti atti di volontà divina. Per parte sua, scrisse, poteva anche credere i pianeti si muovessero lungo le loro orbite «non in base alla legge di gravità ma per un distinto atto di volere del Creatore», ma se tutte le specie sono state plasmate da Dio, allora bisognerebbe presumere anche che Marte e Giove ruotino perché Lui ci gioca a yo-yo. Il che è improbabile e forse persino blasfemo: Dio, supposto che esista, non è troppo sublimemente trascendente per quello che oggi chiamiamo micro-management? L'idea che Darwin stava suggerendo andava oltre la selezione naturale: l'universo è governato da leggi, non dal capriccio divino, e la trasmutazione delle specie per selezione naturale altro non è che una di queste leggi. Il sommario abbozzo si chiude con un moto di eloquenza; era stranamente consolante, osservò Darwin, che dalla dura lotta malthusiana implicante «morte, carestia, rapine e [la] guerra segreta della natura» fosse derivato un grande bene, ossia la creazione degli animali superiori. «Vi è una semplice grandezza», aggiunse infine: Nel considerare la vita, con le sue capacità di sviluppo, assimilazione e riproduzione, come se fosse originariamente insufflata nella materia sotto una o poche forme e nel fatto che, mentre questo pianeta ha ruotato in orbite rispondenti a leggi fisse e terra e acqua, in un ciclo di trasformazione, si sono sostituite l'una all'altra, da così semplice origine, attraverso il processo di selezione graduale di cambiamenti infinitesimi, si è evoluta una quantità infinita di forme bellissime e mirabili. | << | < | > | >> |Pagina 129Capitolo 6
L'abominevole volume (1858-1859)
Il 18 giugno 1858 o giù di lì, fu recapitata a casa Darwin nuova corrispondenza da parte di Alfred Wallace. Anche questa volta giungeva da una qualche località dell'arcipelago malese dopo un viaggio di quattro mesi, sballottata da una barca all'altra. La busta, però, era più voluminosa del solito: al suo interno, oltre a una lettera, era contenuto un manoscritto. Darwin la aprì. Scorrendo rapidamente la missiva e leggendo l'allegato fu colto da un nauseante crescendo di emozioni che cominciò come un senso di sorpresa per poi tracimare rapidamente in costernazione. Mentre lui si dedicava alla grande opera, che a quel punto era ancora un lavoro in corso, messo nero su bianco per i due terzi e la cui mole cresceva di giorno in giorno, il giovane amico di penna, Wallace, aveva concepito autonomamente l'idea dell'evoluzione per selezione naturale. Il suo manoscritto, intitolato On the Tendency of Varieties to Depart Indefinitely from the Originai Type' [Sulla tendenza delle varietà a divergere indefinitamente dal tipo originale], constava di una ventina di pagine di una prosa lucida e scorrevole e, come segnalato nel titolo, era basato sull'idea che la differenza tra specie e varietà, entrambe intese come categorie, non fosse altro che una differenza di grado; vale a dire che la variazione osservata tra varietà facenti parte di una stessa specie non era intrinsecamente limitata, al contrario: tali incrementi potevano accumularsi senza restrizioni fino a che una varietà si scindesse, diventando essa stessa una specie distinta. Nel manoscritto, Wallace presupponeva che vi fosse «in natura un principio generale» responsabile del suddetto comportamento in molte varietà e sosteneva che queste ultime non soltanto si scindono dalla specie progenitrice, ma competono con essa, talvolta le sopravvivono e alla fine danno origine ancora ad altre varietà, sempre più differenti dal tipo originario. A differenza di Darwin, egli non aveva coniato un nome per questo "principio generale", ma aveva elaborato una tesi con una logica molto simile a quella del più anziano collega. «La vita degli animali selvatici» Darwin leggeva, «è una lotta per l'esistenza» in cui «gli individui più deboli e meno perfettamente organizzati debbono soccombere» e tale lotta è determinata dalla pressione dei tassi di crescita naturale della popolazione, responsabili della generazione di un numero di individui molto maggiore rispetto a quello tollerabile in funzione dell'habitat e delle risorse alimentari disponibili. Benché il nome dell'economista inglese non venisse menzionato, il manoscritto era un'agile sintesi dell'aritmetica malthusiana. Indicava che le «variazioni di una specie dalla forma tipica» si producono abitualmente negli animali selvatici (come Wallace aveva spesso osservato nei panni del collezionista commerciale) e che la maggior parte di tali variazioni «potrebbe agire in modo favorevole o contrario sul prolungamento della loro esistenza». «Un'antilope con le zampe più corte o più deboli», ad esempio, «sarà molto più soggetta agli attacchi dei felini», poiché i leoni mangiano le antilopi meno veloci; un colombo migratore dotato di ali meno potenti, a sua volta, avrà difficoltà a percorrere lunghe distanze in cerca di cibo e la morte per inedia e la competizione elimineranno gli individui meno capaci. Guardando l'altra faccia della medaglia, però, una giraffa con un collo particolarmente lungo avrà accesso alle foglie più alte che gli altri non possono raggiungere e ciò significa che, in caso di carestia, potrà sopravvivere attingendo a questa risorsa addizionale, mentre le giraffe dotate di un collo corto scompariranno a poco a poco. Queste creature, «più adattate» per effetto di tali piccole differenze, disporranno di maggiori risorse alimentari e si difenderanno meglio, sopravvivranno più a lungo e si riprodurranno più abbondantemente, dando così vita a considerevoli popolazioni, mentre le creature meno fortunate usciranno sconfitte dalla lotta per la sopravvivenza e scompariranno. Il risultato sarà la «divergenza ininterrotta» nel lungo periodo, con «successive variazioni che divergono sempre più dal tipo originario». Il manoscritto di Wallace si chiudeva con un virtuosismo, suggerendo che «tutti i fenomeni presentati dagli esseri organizzati, con la loro estinzione e la loro successione attraverso le ere passate, e con tutte le eccezionali modificazioni di forma, istinto ed abitudini che essi presentano» fossero da attribuirsi a quell'anonimo «principio generale» esistente «in natura». Si trattava di una dichiarazione importante, accompagnata da una lettera più modesta: ecco una mia ipotesi per spiegare l'origine delle specie, diceva Wallace. Sperava che sarebbe parsa nuova al signor Darwin come lo era parsa a lui quando gli si era parata davanti per la prima volta.
Ma non era così.
Il manoscritto recava l'indicazione: «Ternate, febbraio 1858». Wallace lo aveva spedito da una piccolissima isola vulcanica nelle Molucche settentrionali. Si narra che lo studioso ebbe la fatidica illuminazione durante un attacco di febbre malarica, mentre era costretto a letto in preda a vampate ora di caldo, ora di freddo, incapace di fare qualsiasi cosa al di fuori del pensare. Una delle questioni su cui rifletté, e su cui rifletteva da anni, era il modo in cui le specie compaiono. Osservando un così notevole spettro di variazione allo stato selvatico e studiando l'ambigua distribuzione di specie strettamente affini, Wallace si era sempre più convinto della realtà della trasmutazione. Ma qual era il meccanismo causale? Durante l'accesso di febbre, gli tornò in mente il saggio di Malthus, una lettura che risaliva a oltre 12 anni prima. Ripensò ai tassi geometrici di crescita della popolazione, al fatto che la quantità di cibo disponibile aumenta a una velocità inferiore e ai conseguenti «freni» alla crescita della popolazione umana. Improvvisamente gli sovvenne, proprio come era accaduto a Darwin, che tali freni regolano anche le popolazioni animali allo stato selvatico e meditando su tutto ciò, sulle avversità e sulla mortalità, si domandò quale fosse la ragione per cui alcuni individui sopravvivono mentre tanti altri soccombono. «La risposta», come avrebbe ricordato molto tempo più tardi, era che, «in linea di massima, sopravvivono i più adatti». La variazione accidentale sommata agli imperativi della lotta per la sopravvivenza dà come risultato la sopravvivenza differenziale, la sopravvivenza differenziale porta all'adattamento, e l'adattamento divergente sul lunghissimo periodo conduce ad antilopi leste, colombi dalle ali robuste e giraffe alte. Eureka. «Più ci penso, più mi convinco di avere finalmente trovato la legge della natura tanto a lungo ricercata in grado di risolvere il problema dell'origine delle specie». Quando la febbre passò, Wallace si rimise in piedi e scribacchiò qualche appunto. Nel giro di pochi giorni, il manoscritto era completo e veniva spedito a Darwin con il piroscafo postale che faceva scalo a Ternate. Perché Wallace aveva scelto, tra tutti, di inviare l'esternazione della sua febbrile idea proprio a Charles Darwin? Non di certo perché lo considerasse un collega trasmutazionista. Nelle sue pubblicazioni e nelle poche lettere che si erano scambiati, Darwin era sempre stato troppo abbottonato per lasciar trapelare una cosa simile. Per quanto ne sapeva Wallace, il signor Darwin non era altro che un coscienzioso naturalista vecchio stampo, i cui interessi spaziavano dalla biogeografia ai cirripedi alla variazione nei polli. Ma, elettrizzato dalla sua intuizione e ansioso di annunciarla, Wallace sentiva il bisogno di inviare il manoscritto a qualcuno, e la scelta di cui disponeva era limitata. Da Samuel Stevens era venuto a conoscenza dei commenti sprezzanti che circolavano a Londra circa il suo avventurarsi nel territorio della teoria: a casa, gli anziani ritenevano che dovesse limitarsi a raccogliere coleotteri commerciabili. Sarebbe stato libero di ignorare questi austeri segnali e di spedire comunque lo scritto a Stevens, come aveva fatto con i precedenti, affinché fosse inoltrato alla redazione dell'"Annals", ma non sembrava una mossa saggia, almeno non questa volta. La posta in gioco era troppo alta, il concetto troppo rischiosamente incendiario, o forse mirava semplicemente più in alto. Chi altri conosceva? Wallace si trovava isolato, laggiù nel suo arcipelago, e non soltanto a causa della distanza e dell'acqua: la mancanza di credenziali scientifiche, di un'istruzione adeguata e di una posizione sociale consona lo facevano sentire emarginato e, oltretutto, l'impressione che il suo scritto sulla "legge" fosse passato pressoché inosservato era per lui motivo di grande sconforto. Se n'era lamentato anche in una lettera a Darwin, il quale aveva replicato, con gentilezza, dicendo che non era affatto così, che il suo amico Lyell, per dirne uno, aveva trovato lo studio intrigante.
Sul serio? Sir Charles Lyell, il più eminente geologo britannico?
Questa era una deliziosa adulazione per il modesto ego di Wallace.
Ora, sei mesi più tardi, sperava di poter giocare quella carta. Se giudicherete
il manoscritto sulle specie che trovate allegato sufficientemente degno di nota,
domandò a Darwin, vi dispiacerebbe farlo pervenire a sir Charles Lyell?
Darwin sentì il mondo crollargli addosso e non poteva prendersela con altri se non con se stesso, con il suo procrastinare, con il suo perfezionismo, con la sua lingua lunga. All'improvviso si ritrovava intrappolato e schiacciato tra i dettami morali e la volontà di rivendicare il proprio interesse personale, urlante di dolore. «La tua profezia che sarei stato preceduto si è realizzata abbondantemente» scrisse a Lyell. Troverai allegato un manoscritto che Wallace mi prega di inviarti. Merita decisamente di essere letto ed è anche, aggiunse mesto, ciò che vi è di più vicino a un compendio della mia teoria (nel panico del momento, gli sfuggì una significativa differenza: Wallace si concentrava sulla competizione tra varietà e non su quella tra individui, vale a dire sulla selezione di un gruppo contro un altro e non sulla selezione di individui all'interno di un gruppo). «Non ho mai visto una coincidenza più sorprendente», gemette. Persino alcune delle frasi usate da Wallace, come la «lotta per l'esistenza», facevano eco a ciò che Darwin aveva già scritto nella bozza della grande opera. Riferì che Wallace non gli aveva chiesto di aiutarlo a fare pubblicare il manoscritto, soltanto di condividerlo con Lyell, ma ovviamente avrebbe risposto subito al collega, offrendosi di inviare lo scritto a una rivista. «Così tutta la mia originalità, qualsiasi cosa valga», guaì, «verrà annientata». Lyell, imperturbabile come sempre, gli suggerì di mantenere la calma: forse c'era una soluzione alternativa, meno drastica della scelta "o tutto o nulla", per risolvere la questione della priorità. Nella discussione fu coinvolto anche Joseph Hooker, altro amico giudizioso e fidato. Mentre i giorni trascorrevano e le lettere viaggiavano avanti e indietro, tuttavia, Darwin dovette dividere la sua attenzione tra la sorpresa confezionata da Wallace e alcune preoccupazioni familiari che di certo non aiutavano la sua serenità. Un'ondata di malanni colpì il villaggio e il focolare. Etty, la maggiore delle figlie rimaste, si prese una faringite nella quale i medici riconobbero in seguito i segni di una difterite, una malattia allarmante e relativamente sconosciuta a quei tempi che si stava diffondendo a livelli epidemici in tutta la Gran Bretagna. Quando finalmente le condizioni di Etty migliorarono, giunse un'altra minaccia a turbare gli animi: la scarlattina che imperversava nei dintorni. Tre bambini del villaggio morirono, altri rischiarono la vita e il 23 giugno il piccolo Charles, il più giovane dei Darwin, fu colpito dalla febbre. Questo bambino che portava lo stesso nome del padre è una figura misteriosa, sulla quale esistono scarse informazioni e opinioni discordanti. Nato quando Emma aveva 48 anni e battezzato Charles Waring Darwin, all'età di 19 mesi non aveva ancora mosso i primi passi. Era piccolo per la sua età, non camminava né parlava. D'indole dolce e tranquilla, rideva di rado, piangeva di rado e faceva strane espressioni quando si emozionava. Evidentemente soffriva di una qualche forma di debilitazione fisica e mentale, benché sia difficile dire con maggiore precisione di che cosa si trattasse. Secondo una successiva testimonianza di Etty, il fratello minore era nato «senza la sua intera parte di intelligenza». Delle due migliori e più esaurienti biografie su Darwin, quella di Janet Browne e quella di Desmond e Moore, quest'ultima descrive il piccolo Charles come un bambino «gravemente ritardato», mentre stando alla prima «pare che il bambino fosse leggermente ritardato», con buona probabilità a causa di un avvelenamento da mercurio dovuto a medicine vittoriane sconsideratamente formulate. Randal Keynes, pro-pronipote di Darwin, sostiene invece con determinazione che Charles Waring fosse affetto da sindrome di Down - una forma di deficienza fisica dovuta alla presenza di una copia in sovrannumero del cromosoma 21. Era una condizione sconcertante all'epoca, sulla quale non sarebbe stato gettato il benché minimo raggio di luce fino all'avvento del dottor John Langdon Down (che, a dispetto del cognome, non aveva nulla a che fare con il villaggio di Downe o con Down House), il quale la identificò otto anni più tardi. Qualunque fosse il problema, il piccolo Charles fu amato dai genitori con una tenerezza compassionevole alla quale si univa probabilmente anche un certo senso di responsabilità e di rammarico, stato d'animo che rese i loro sentimenti ancora più confusi allorché il bambino morì di scarlattina il 28 giugno. L'addio fu spiacevole e duro come lo era stato con Annie, ma al di là di questo, la morte della bambina e quella di Charles Waring furono del tutto differenti. «È stato il più provvidenziale sollievo» Darwin riferì a Hooker, «vedere quel povero visino innocente riprendere la sua dolce espressione nel sonno della morte». A distanza di tempo, Etty descrisse la reazione dei genitori in modo più schietto, ricordando che «dopo un primo momento di cordoglio, non poterono che esserne sollevati». Darwin redasse un breve memoriale privato su Charles Waring, in cui fece del suo meglio per dare risalto ai ricordi felici, scrivendo dei «graziosi rumorini» che talvolta il bambino emetteva, dell'«eleganza» con cui andava carponi nudo sul pavimento, del suo carattere «placido e giocondo». Nel frattempo, erano giunte nuove notizie da Lyell, assieme ad alcuni suggerimenti su come gestire il dilemma Wallace. Che cosa aveva Darwìn sulla carta, domandava Lyell, che potesse testimoniare la sua priorità nei confronti della scoperta? Beh, c'era il saggio manoscritto del 1844, che Hooker aveva letto, e un riassunto di sei paragrafi della teoria spedito l'anno precedente al botanico Asa Gray, fidato corrispondente a Harvard. Questi scritti, inediti ma certificati da testimoni, erano la prova che Darwin aveva concepito l'intera idea molto tempo prima, in solitudine e senza rubare nulla a Wallace. «Ora sarei estremamente contento di pubblicare una sintesi delle mie idee generali in una dozzina di pagine» disse a Lyell, «ma non riesco a persuadermi che una simile scelta sarebbe onorevole da parte mia». Temeva che l'aver ricevuto il manoscritto di Wallace - cosa che peraltro non aveva chiesto - lo avesse messo nei pasticci. Piuttosto che essere tacciato di comportamento abbietto, affermò, avrebbe gettato nel fuoco il suo libro, quello sul quale stava ancora lavorando. Ma era davvero troppo tardi per pubblicare un riassunto della sua teoria e sostenere che lo stava facendo su consiglio di Lyell (un consiglio dato due anni prima)? «Se è vero che posso farlo senza abbassare la mia dignità» ripeté. No, non poteva convincersi che fosse tutto a posto, ma implicitamente pregava Charles Lyell e Joseph Hooker di fare opera di persuasione. Era frastornato dal senso di angoscia, e si detestava per aver pensato a una cosa simile mentre i figli lottavano contro la morte. «È una lettera assurda» concluse, «influenzata da sentimenti assurdi». Ma quei sentimenti non sarebbero svaniti. Lyell e Hooker raccolsero l'imbeccata. Nell'arco di alcuni giorni, rendendo servizio a Darwín come amici fedeli, rendendo servizio alla scienza a modo loro, rendendo servizio alla giustizia più discutibilmente, escogitarono un piano con il quale salvare la situazione o, almeno, gli interessi di Darwin. Di certo non potevano fingere che lo studio di Wallace non fosse mai esistito e permettere tacitamente che il merito fosse attribuito a Darwin soltanto: questo sarebbe stato disonorevole, professionalmente scorretto e scandaloso, qualora la verità fosse venuta a galla. Piuttosto architettarono e promossero una presentazione congiunta del manoscritto di Wallace e del lavoro inedito di Darwin. Il singolare duetto fu messo in cartellone per la successiva riunione della Linnean Society, una delle maggiori associazioni scientifiche di Londra, all'interno della quale Hooker, Lyell e Darwin svolgevano funzioni direttive. Darwin acconsentì al disegno, inviando a Hooker il saggio del 1844 e la sintesi in sei paragrafi che aveva redatto per Gray, insieme a un'altra negazione: «Immagino che sia troppo tardi. Ma non me ne importa gran che». Non c'è da meravigliarsene: a quel tempo il bambino era ancora vivo ma in condizioni gravi, febbricitante e sempre più prossimo a una crisi. Wallace, dal canto suo, non acconsentì alla lettura congiunta (non prima che questa avvenisse, perlomeno) e, anche volendo, non avrebbe potuto, dato che nessuno lo consultò. Era ancora impegnato con i suoi studi sul campo nelle isole orientali, irraggiungibile con un breve preavviso e decisamente fuori dal giro. Pare che nessuno abbia domandato a Lyell e a Hooker: Signori, cos'è tutta questa fretta? Nessuno suggerì che Darwin, giacché aveva aspettato 20 anni per pubblicare, avrebbe potuto benissimo attendere altri sei mesi per ricevere il benestare di Wallace. Prima che a qualcuno venisse in mente di sottilizzare, era già tutto bell'e fatto. Credo che la ragione di tanta fretta sia che Lyell, Hooker e Darwin si sentivano tutti in una certa misura imbarazzati per questo dispotico conferimento di merito condiviso, coscienti del fatto che se avessero indugiato sarebbero potute sorgere delle complicazioni. Niente indugi, dunque. Gli insider si mossero lesti e rapidi. I dettagli furono definiti in una raffica di lettere notturne tra Londra e Downe. Hooker selezionò un passo dal saggio di Darwin del 1844 e lo inserì, insieme alla sintesi di Gray e al manoscritto di Wallace, nel già stipato ordine del giorno relativo alla riunione. I tre documenti furono collocati in ordine alfabetico per autore: i due di Darwin per primi, seguiti da quello di Wallace. La sera del 1° luglio 1858 il materiale della comunicazione Darwin-Wallace e cinque altri scritti furono letti di fronte a un pubblico di una trentina di persone circa. Hooker e Lyell presenziarono e così fece, per pura coincidenza, anche Samuel Stevens, il quale dovette presumibilmente domandarsi come avesse fatto lo studio di Wallace a giungere a Londra senza passare fra le sue mani. I due autori erano assenti. Col senno di poi si potrebbe dire "vistosamente assenti", benché la mancata presenza di Wallace — il quale non faceva parte della Linnean Society e la cui voce fu ammessa come il cra di un pappagallo esotico, interessante e indelicato — non fosse affatto evidente all'epoca. Il 1° luglio Wallace lo trascorse in un posto chiamato Dorey, un villaggio mercantile sulla costa nordoccidentale della Nuova Guinea, 800 chilometri a est di Ternate: la stagione delle piogge era cominciata un'altra volta, nei pressi del villaggio non era facile trovare uccelli d'interesse collezionistico, ma per raccogliere insetti era il luogo ideale; con i coleotteri, in particolare, la caccia andava a meraviglia. Ignaro di quanto stesse accadendo a Londra, Wallace continuava a dedicarsi ai suoi esemplari.
Anche Darwin, benché informato dell'evento, mancò la riunione. Era nella sua
casa di Downe con un figlio appena morto e un terribile caso di ambivalenza.
Ciò che più colpisce della serata Darwin-Wallace alla Linnean Society è quanto poco smosse gli animi sul momento. Alla lettura dei documenti non seguì alcuna discussione generale. Nessuno si alzò, in risposta a quanto avanzato da Darwin e Wallace, esclamando "È geniale!" oppure "È oltraggioso!". Fu servito il tè, probabilmente. I soci della Linnean Society indugiarono in qualche conversazione privata e poi fecero ritorno alle loro abitazioni. Le fondamenta della scienza avevano tremato sotto i loro piedi ma nessuno ci aveva fatto caso. Perché? Difficile a dirsi. Probabilmente perché i passi selezionati dal lavoro di Darwin e dallo studio di Wallace erano incentrati sulle circostanze e sui particolari del meccanismo — la selezione naturale — e non sul suo significato più ampio. La parola «trasmutazione» non fu menzionata da nessuno dei due autori, tanto meno il termine «evoluzione» (benché Darwin avesse fatto allusione all'«origine della specie»). Così alle orecchie di un uditore distratto, in una calda sera di luglio, durante una riunione troppo lunga, dovette sembrare che le comunicazioni di Darwin e Wallace, con la loro logica tortuosa, implicassero una semplice questione di varietà e variazione. Un'altra ragione per cui il pubblico non fu in grado di cogliere il concetto potrebbe essere che i soci della Linnean Society non erano tipi da domandarsi "In quale modo le specie si trasformano, l'una nell'altra?" come facevano invece Darwin e Wallace. Due mesi più tardi il giornale della società, il "Journal of Proceedings", pubblicò i frammenti di Darwin e il manoscritto di Wallace, raggruppandoli come se si fosse trattato del lavoro congiunto di due coautori sotto un titolo leggermente ingarbugliato: On the Tendency of Species to Form Varieties; and On the Perpetuation of Varieties & Species by Natural Means of Selection [Sulla tendenza delle specie a formare varietà e sulla perpetuazione delle varietà e delle specie per mezzo della selezione naturale]. Stampati, i tre pezzi ebbero un impatto maggiore. Qualche scienziato, almeno, riconobbe che si trattava di una cosa che andava presa in seria considerazione, nel bene o nel male, benché solo pochi si degnarono di screditarla. All'inizio dell'anno successivo, il presidente della Geological Society di Dublino dichiarò pubblicamente che lo studio di Darwin e Wallace «non sarebbe degno di alcuna nota» se non fosse per l'intervento di Lyell e Hooker come patrocinatori, per poi aggiungere che «se [la congettura di Darwin e Wallace] vuole significare quello che dice, è un truismo; se vuole significare qualcosa di più, è contraria ai fatti». La critica giunse alle orecchie di Darwin il quale, dando prova di un lungimirante intuito, riconobbe nel suo sapore «un assaggio del futuro». | << | < | > | >> |Pagina 147[...] E adesso, giunti qui, propongo una pausa immaginativa per contemplare il quadro: Charles Darwin, dopo avere appena completato il lavoro più importante della sua vita, cerca di riprendere fiato in una remota località del nord con una stecca da biliardo in mano. Sappiamo che aveva l'abitudine di fumare una sigaretta di tanto in tanto per rilassarsi, un'alternativa al tabacco da fiuto, e forse a Ilkley Wells questo vizio era tollerato nelle sale da biliardo. Darwin aspira una lunga boccata, la trattiene assorto, espira. Sbircia attraverso il fumo. Appoggia sofisticatamente la sigaretta accesa in un posacenere (di sicuro non sul bordo del tavolo) e si china. Piega l'indice, appresta il ponte. Palla 6, signori, dice; nella buca d'angolo. Tac... clic... plop. «Non puoi immaginare quale ristoro sia oziare per [un']intera giornata», scrisse a Hooker, «e non mi capita quasi mai di pensare minimamente al mio dannato libro, che mi ha quasi ucciso».Quel dannato libro si chiamava ora On the Origin of Species by Means of Natural Selection, or the Preservation of Favoured Races in the Struggle for Life [il titolo, nella prima edizione italiana (Zanichelli, 1864), venne tradotto con Sull'origine delle specie per elezione naturale, ovvero Conservazione delle razze perfezionate nella lotta per l'esistenza]. Il titolo non sarà stato elegante, ma almeno John Murray l'aveva spuntata sull'omissione della parola "Abstract". Fu ottimisticamente ordinata una prima tiratura di 1250 copie. Il conto dello stampatore per tutte le revisioni apportate alle bozze finì per ammontare a 72 sterline, una bella sommetta, ma Murray rinunciò a dedurla dai diritti d'autore di Darwin, fiutando (a ragione) che nel lungo periodo avrebbe tratto maggiori vantaggi dal mantenere buoni rapporti con quest'uomo. Sebbene il processo di scrittura fosse stato una tortura - una sorta di accesso isterico di laboriosità dopo tanti anni di procrastinazione - la benedizione dell'oblio giunse a Darwin in fretta e come un balsamo. L'autore si trovava ancora nello Yorkshire quando gli fu recapitata una prima copia del libro. Tenendola fra le mani, fu pervaso da un irresistibile senso di soddisfazione, la sua ricompensa personale come intermezzo tra l'angoscia della creazione e l'angoscia che sarebbe derivata dalla ricezione del libro. Scrisse immediatamente a Murray: «Egregio signore, ho ricevuto il vostro cordiale biglietto e la copia: sono infinitamente lieto e orgoglioso che il mio bambino sia stato pubblicato». Abominevole o no, era figlio suo e l'orgoglio della paternità può dissimulare una moltitudine di presentimenti. Darwin, tuttavia, aveva ragione di essere soddisfatto. Senza ancora averne la certezza, senza averlo rivendicato, senza averne tratto piacere, aveva realizzato un libro magnificamente poderoso che avrebbe cambiato il mondo. | << | < | > | >> |Pagina 154Il mio consiglio, pertanto, è ignorate i ripensamenti. Ignorate le ristampe in brossura della sesta edizione. Non date retta a nessuno. Prima di comprare, prima di leggere, andate a cercare quella dicitura in piccolo riportata all'inizio sotto la scritta "Nota al testo", oppure la discreta riga recante la data di pubblicazione nella pagina a fronte del titolo. Che vi accostiate all' Origine delle specie come a un'opera scientifica o a un documento storico e letterario, fate un favore a Darwin e a voi stessi: cercate una ristampa della prima edizione (preferibilmente una ristampa facsimile che riproduca il carattere e l'impaginazione originale). Quello è il libro, con tutta la sua coraggiosa originalità e i suoi difetti, responsabile del più sconvolgente cataclisma del pensiero umano da quattrocento anni a questa parte.Il libro si apre con un blando e discreto tono di reminiscenza: Mentre ero, in qualità di naturalista, a bordo del vascello di S.M. Britannica Beagle, rimasi profondamente colpito da certi fatti relativi alla distribuzione degli abitanti del Sud America ed ai rapporti geologici tra gli abitanti attuali e quelli antichi di detto continente. Mi sembrò che questi fatti [gettassero un po' di luce sull']origine delle specie, questo mistero dei misteri, secondo l'espressione di uno dei nostri maggiori filosofi. Benché si legga senza difficoltà, il passaggio è carico di allusioni: alla biogeografia, alla paleontologia, alle specie strettamente affini e temporalmente adiacenti. Per l'espressione «questo mistero dei misteri», presa in prestito da John Herschel, Darwin attinse al vecchio taccuino sulla trasmutazione (il taccuino E) recuperando un'annotazione fatta nel dicembre del 1838 quando era un giovane entusiasta, mentre la parte sul "gettare un po' di luce" rappresenta un enorme understatement, ripetuto con effetto, ancora più enormemente minimizzato, alla fine del libro. Un'altra mossa scaltra da parte Darwin, qui, fu quella di fare la sua comparsa navigando a bordo del Beagle e offrendo così alla nostra prima impressione l'immagine di un uomo intrigante e di radicata esperienza. Nel 1859 non si esimette peraltro dal ricordare ai lettori che quel teorizzatore di mezza età era lo stesso tizio che, venti anni prima, aveva consegnato al mondo il famoso resoconto di viaggio intitolato Journal of Researches. L'introduzione di sei pagine scritta da Darwin e di cui abbiamo appena citato le prime righe è una sorta di preludio, in cui l'autore annuncia i temi principali del libro: il fatto che «le innumerevoli specie che vivono in questo mondo» «si siano venute modificando» fino ad acquisire un'eccezionale «perfezione strutturale e di adattamento reciproco» e che il meccanismo da lui chiamato «selezione naturale» possa essere ritenuto responsabile di tali variazioni. Darwin si astiene dall'usare la parola "evoluzione" (termine che non compare nella prima edizione, sebbene l'ultimissima frase del libro si chiuda con l'immagine delle molte meravigliose specie che si sono evolute e continuano a evolversi), né tanto meno la vecchia, familiare e provocatoria parola "trasmutazione": per fare riferimento a tale concetto, in queste prime pagine, Darwin preferisce parlare di «mutamenti» e «adattamenti» (e, più avanti nel libro, di «discendenza con modificazioni» o della sua «teoria della discendenza»). Un altro tema importante annunciato nell'introduzione è la «lotta per l'esistenza», la stessa espressione per quella medesima idea che Alfred Wallace aveva maturato in modo indipendente. E, naturalmente, menziona Thomas Malthus. Poi scrive: Gli individui di ciascuna specie, che nascono, sono molto più numerosi di quanti ne possano sopravvivere e quindi la lotta per l'esistenza si ripete di frequente. Ne consegue che qualsiasi vivente, che sia variato sia pure di poco, ma in un senso a lui favorevole nell'ambito delle condizioni di vita, che a loro volta sono complesse ed alquanto variabili, avrà maggiori possibilità di sopravvivere e, quindi, sarà selezionato naturalmente. In virtù del possente principio dell'ereditarietà, ciascuna varietà, selezionata in via naturale, tenderà a perpetuare la sua nuova forma modificata.
Si aggiungano soltanto altre due idee, ossia che la continua selezione
conduce a prodigiosi estremi di adattamento e, da ultimo, anche al
divergere delle linee di discendenza, e ci ritroveremo in mano l'estratto
dell'estratto.
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