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| << | < | > | >> |IndicePassaggio in Alaska 7 I. Armamento 40 II. Acque profonde 89 III. Navigare nel sublime 175 IV. Potts Lagoon 234 V. Rito di passaggio 276 VI. I resti carbonizzati 339 VII. Sulla spiaggia 398 VIII. Komogwa 407 Nota del traduttore |
| << | < | > | >> |Pagina 7Capitolo primo
Armamento
Camminava sulla banchina con un sacco a pelo arrotolato in spalla, i capelli gialli legati a coda di cavallo con un bandana rossa e l'aria un po' spersa del ragazzone tonto. Il giaccone a scacchi sembrava un'interessante area di ricerca per entomologi poco schifiltosi. Pensai che fosse un ragazzo di campagna sbandato, uno scandinavo del Wisconsin o del Minnesota alla deriva nel nuovo mondo del Nordovest pacifico. Aveva un foglietto ripiegato a triangolo, grande come un francobollo, in modo che il messaggio restasse ben chiuso all'interno. Lo spiegò con cautela, in punta di dita, per quella che era evidentemente la centesima volta, e fissò le due parole scritte in stampatello vacillante con una penna a sfera. - Pacific Venturer? - chiese. Il sole di fine marzo (era il primo giorno di alta pressione e cielo azzurro a Seattle dopo settimane di nuvole basse) luccicò sulle sue guance coperte di barba incolta e pallida. - Sto cercando una barca, il Pacific Venturer -. Pronunciò il nome sillaba per sillaba. Lo immaginai in prima elementare: un bambino robusto, distratto e scoordinato, già indietro rispetto al resto della classe. - Non è che l'ha vista? Al Fishermen's Terminal c'erano tre o quattrocento barche ormeggiate scafo contro scafo. Sembravano un boschetto spoglio esteso su venti ettari d'acqua, alberature, pertiche da traina, antenne a frusta, radar, ghinde e gru da carico. Lessi i nomi tutt'attorno: Vigorous, Tradition, Paragon, Sea Lassie, Peregrine, Resolute, Star of Heaven, Cheryl G., Cheerful, Immigrant (un trifoglio verde a decorare la cabina di pilotaggio), Paramount, Memories. C'era una Pacific Breeze, ma nessun Pacific Venturer. - Che cos'è, un purse-seiner? La prese per una domanda trabocchetto, mi fissò come si guarda un esaminatore ostile. Aveva degli occhi blu da Barbie. - Non so. È una barca da salmoni -. Consultò il foglietto che teneva in mano. - Sí. Una barca da salmoni, ho sentito dire. Puzzava di strada, di autostop sulle interstatali, di passaggi sui camion d'immondizia, di notti trascorse fra scatole di cartone sotto i cavalcavia, di gargarismi con il Thunderbird. - Sono qui dalle sette. Erano le due del pomeriggio. Uomini indaffarati ci passavano accanto, vestiti nell'uniforme locale (giubbe larghe con cappuccio e berretto nero a punta), le braccia cariche di arnesi, spazientiti dai due ficcanaso che si trovavano fra i piedi. - Ti conviene chiedere a uno di loro. - Già fatto.
Si trascinò via - Alla prossima, amico - verso il pontile successivo. Vidi
che muoveva le labbra leggendo le parole stampate a poppa dell'
Oceania,
della
Prosperity,
della
Stella Marie,
dell'
Enterprise,
della
Quandary,
smarrito fra nomi di donna e astrazioni altisonanti. Gli uomini al lavoro lo
scansavano. Sperando di essergli d'aiuto, tenni anch'io gli occhi aperti nel
caso m'imbattessi nel
Venturer;
che però, se mai era esistito, probabilmente era già in rotta per Ketchikan,
sbuffando verso nord.
Le imbarcazioni si stavano armando, all'ultimo minuto, come al solito, per la migrazione primaverile verso le acque pescose dell'Alaska. L'odore di vernice e pittura fresca (resina e olio di lino) stagnava denso nell'aria immobile del porto, assieme all'allegro fracasso incessante di seghe e levigatrici elettriche, martelli, trapani e fiamme ossidriche. I motori diesel venivano precipitosamente sventrati, le interiora nere sparse ovunque sui ponti di poppa, mentre i loro proprietari insanguinati parlavano da soli arrovellandosi su alberi a camme e il gioco di certi ingranaggi. Pickup carichi fino all'orlo si accostavano alle barche quasi pronte a partire, e le ghinde issavano a bordo scatole e scatole di stufato Dinty Moore e di Campbell's soup e balle di carta igienica avvolte nella plastica. Sull'ampio spiazzo destinato al rammendo delle reti, un uomo e una donna «tessevano la tela»: infilavano galleggianti bianchi a forma di sigaro distanziati a una sessantina di centimetri gli uni dagli altri lungo il bordo superiore della loro rete da pesca lunga quattrocento metri. Le maglie verde giada luccicavano leggere ai loro piedi come un fiume. A Seattle, la città della realtà virtuale, era sempre un piacere visitare quest'ultimo bastione dei lavori all'antica, con le reti, le pentole di granchi, i pennelli e la carpenteria, le facce da gente che vive all'aperto, solcate dall'esperienza, l'aria di famiglia, le generazioni che si susseguono nella stessa attività. Anche i nonni ormai troppo tremolanti sulle gambe per prendere il mare diventavano una risorsa importante al momento di armare la barca. Guidavano i furgoni, lucidavano le finiture metalliche, riparavano le reti, controllavano i circuiti; diversamente da quasi tutti i loro coetanei, avevano competenze che non scadevano col tempo. E oltre alla presenza dei nonni aleggiava quella spettrale delle comunità di pescatori europei sparse lungo i fiordi, le baie e gli stretti della Norvegia, della Svezia, della Danimarca, della Scozia, dell'Irlanda, terre d'origine della maggior parte di queste famiglie, come ricordavano molti nomi di barche: Cape Clear, Stavanger, Solvorn, Lokken, Tyyne, Thor, Saint Patrick, Uffda, American Viking. Un brillante parodista, stanco dell'imperante nostalgia scandinava, aveva battezzato il suo gill-netter Edsel Fjord. Secoli di andar per mare convergevano al Fishermen's Terminal. Benché gli edifici d'acciaio corrugato dipinti di azzurro pastello e beige fossero nuovi, quel posto sembrava piú antico della città che l'ospitava. Aveva una lunga storia alle spalle, come i pescatori. Le barche, costruite per affrontare il Pacifico, erano discendenti dirette dei motopescherecci a strascico, degli smack e dei trabaccoli del Mare del Nord e del Baltico. La prua svasata verso l'alto e la curvatura ripida del ponte che avevano servito bene nelle acque infestate dal Maelström delle isole Lofoten erano state ricreate qui per navigare al largo delle Aleutine. I troller con le pertiche di abete lunghe quindici metri inclinate verso l'alto, erano vecchie conoscenze: avevo visto i loro antichi cugini olandesi e danesi. Al Fishermen's Terminal, il passato, talvolta assai remoto, era ancora vivo e utile, come in ben pochi altri luoghi di un paese ossessionato dal futuro come gli Stati Uniti. Per uno della mia età era una sensazione confortante. Cercavo una scusa per passare di li quasi tutti i giorni. Mi piacevano le barche dai nomi evocativi, i capitani fieri di tenerle in ordine e il gradevole chiacchiericcio sommesso del mare. | << | < | > | >> |Pagina 10Negli Stati Uniti, ovunque si riunissero un po' di uomini giovani, dai campus universitari ai ricoveri per senzatetto, circolava una storia: se riuscivi ad arrivare a Seattle e a farti prendere a bordo da un peschereccio diretto in Alaska, potevi guadagnare mille dollari al giorno. Anche di piu. C'era sempre qualcuno che conosceva qualcuno che si era portato a casa centomila dollari, o persino duecentomila, per due mesi di lavoro.Con una cifra del genere potevi dare una svolta alla tua vita: comprare una casa, mettere in piedi un'attività, diventare capitano di una barca dalle uova d'oro tutta tua. Nel paese della reinvenzione di sé, le acque pescose dell'Alaska passavano per essere luoghi magici capaci di trasformare di colpo un poveraccio in riccone. Bastavano otto settimane per mettere insieme un mucchio di soldi. In primavera a Seattle fioccavano giovani in cerca di fortuna. Percorrevano i docks tentando di ingraziarsi ogni capitano che rivolgesse loro la parola. Erano una piaga, un'accozzaglia stagionale di ragazzini del college, drogati, alcolizzati, fuggitivi, programmatori di computer disoccupati, impiegati d'albergo, camerieri, corrieri di pizza a domicilio. L'esperienza marinara di molti di questi speranzosi aspiranti non superava la traversata occasionale su un traghetto. Ciò nonostante, i novellini piu persistenti riuscivano a farsi prendere a bordo, a compenso dimezzato (il 5 per cento del guadagno netto della barca a fine stagione) o intero (1O per cento). Tra questi, un'esigua minoranza finiva col guadagnarsi un malloppo non abissalmente distante dalle cifre favolose di cui aveva sentito parlare. Lavoro duro e soldi ce n'erano giusto a sufficienza perché i rinforzi di ragazzi di belle speranze continuassero ad affluire copiosi. Il richiamo del denaro era quello che si faceva sentire di piu, ma c'era anche quello del mare, con la sua promessa atavica di evasione e avventura. Molti novellini venivano dalle città di pianura dell'interno, e le uniche onde che conoscessero si increspavano sui campi di grano. Ma avevano letto C. S. Forester e si struggevano, felicemente ignoranti, per l'esultanza della vita in mare. A Des Moines è facile sognare ardentemente un ponte beccheggiante, gli spruzzi gelidi, la lotta con la rete nel vento a cinquanta nodi, perché non si è mai visto niente del genere in Iowa. Inoltre, la pesca in Alaska era l'ultima autentica avventura western. Alla fine del XX secolo, le acque alskane si presentevano come un'anomalia romantica, un mondo armato e maschio dove la libera iniziativa non aveva briglie, dove un cane sciolto, un Huck Finn dei giorni nostri in fuga dalle vedove Douglas della civilizzazione, poteva ancora camminare a testa alta. Per i ragazzi (e anche per qualche ragazza) che erano sempre stati gli ultimi della classe, senza titoli da aggiungere al cognome, la pesca era la possibilità estrema di conquistare uno stile di vita tipicamente americano, fatto di viaggi, emozioni e ricchezza. L'Alaska pubblicizzava se stessa come «L'ultima frontiera», slogan che suonava decisamente autoironico da quando aveva cominciato ad apparire sulle targhe delle automobili, grazie al dipartimento della motorizzazione alaskano. Posto che una frase del genere avesse ancora un significato, riguardava il mare, non la terra; e il mare dell'Alaska era un'autentica distesa incontaminata, selvaggia e solitaria quanto nessun territorio dell'America, neppure in passato. | << | < | > | >> |Pagina 18Anch'io tornai alla mia barca, che era ormeggiata sullo Ship Canal, quattrocento metri a est del Fishermen's Terminal. Era un piccolo ketch da crociera costruito in Svezia nel 1972 e dispendiosamente equipaggiato con mogano e tek lucidato; nei sei anni durante i quali era stato in mio possesso si era deteriorato fino ad assumere l'aspetto di uno scalcagnato cottage galleggiante, disseminato di libri e fotografie, cartellette, due macchine per scrivere, animali di peluche (contributo di mia figlia), vino, materiale fotografico, manoscritti arricciati, penne a sfera prosciugate e tutte le altre cianfrusaglie che si accumulano nella vita di uno scrittore inconsuetamente disordinato. Lo scafo azzurro oltremare era ricoperto da uno strato di polvere nera, dono del vicino cantiere navale; la parte anteriore della barca era un groviglio spaghettoso di funi srotolate. Non avevo la passione nautica delle superfici lucidate. La mia era una barca da lavoro: un veicolo narrativo.Benché abitassi in una casa con vista sul canale e potessi controllare dal ponte del secondo piano se la barca stesse ancora a galla o meno, passavo diverse settimane all'anno, a volte mesi, a bordo del ketch. Quando mi toccava un'intesa corvée di lettura, o un capitolo storto andava raddrizzato, o le mie Furie tendevano a distrarmi, salpavo verso lo scarabocchio d'isole piú vicino e gettavo l'ancora. Col pavimento che mi sciabordava sotto i piedi, la catena che sferragliava sul fondale e la vista che ruotava lentamente con la marea oltre i finestrini della barca, trovavo l'equilibrio che mi era cosi facile smarrire a terra. Nelle mattine d'inverno, con la melma del litorale imbiancata di brina, i gabbiani sperduti che volavano in cerchio sotto il cielo nebbioso, accendevo il riscaldamento e le lampade e lavoravo con un'intensità e una concentrazione che a casa mi mancavano. Gli scricchiolii e i gemiti, l'odore di paraffina e nafta favorivano la riflessione e il ricordo. In mare, la barca era un non-luogo, un mondo-bolla, utilmente tangenziale rispetto all'incessante qui e ora della costa americana. Angusta, scura, simile a una bara, era il mio Yaddo, il mio rifugio, la mia arca. | << | < | > | >> |Pagina 24La prima volta che vidi la barca, piu delle attrezzature nautiche sul ponte, mi colpirono favorevolmente i dodici metri di librerie in tek, con tavole di rollio, allineate alle pareti delle tre cabine. Mi sorbii la tiritera imparata a memoria dall'impiegato dell'agenzia su cime, drizze da straglio e winch solo perché quella barca era in grado di ospitare una biblioteca. Nei sei anni trascorsi da allora, avevo lasciato che gli scaffali si riempissero spontaneamente mentre esploravo le propaggini meridionali del Passaggio Interno fra lo Stato di Washington e la Columbia Britannica e mi concedevo caute sortite nelle acque aperte dell'oceano al largo di Vancouver Island. La mia collezione esordi col resoconto di George Vancouver sulla spedizione geografica da lui comandata nel 1791-95, nell'edizione in quattro volumi della Hakluyt Society, con tanto di tela azzurra e dorature. Fra le prime acquisizioni c'erano anche La via delle maschere di Claude Lévi-Strauss; vari testi universitari di oceanografia fisica; l' Odissea nella traduzione in versi di Robert Fitzgerald; la vita (lunga e incredibilmente produttiva) di lord Kelvin, l'inventore, vissuto in epoca vittoriana, della macchina per prevedere le maree e di un marchingegno per sondare le profondità marine che utilizzava delle corde di pianoforte; e poi Gli irati flutti di W. H. Auden, Fishing with John di Edith Iglauer, Between Pacific Tides di Ed Ricketts (preso a modello da John Steinbeck per il personaggio di Doc in Vicolo Cannery), Navigazione a vela con cattivo tempo di Adlard Coles e Caos di James Gleick, con le immagini degli attrattori di Lorenz e degli insiemi di Mandelbrot.I libri continuavano ad aumentare. Riflettevano un'ossessione promiscua, nei confronti del mare in genere e di quello che avevo davanti alla porta di casa in particolare. Saltabeccavo qua e là, dalla descrizione scientifica delle turbolenze agli studi di antropologia culturale sugli indiani del Nordovest, dai libri di viaggio e di memorie a quelli sugli invertebrati acquatici, fino alla letteratura marinara da Omero a Conrad, tentando di strappare a ogni nuovo libro qualche intuizione sul mio interesse compulsivo. Cercavo il mare in Freud e, con maggiore profitto, nell' Apocalisse di san Giovanni. In Dombey e figlio, Dickens (un altro ossessionato dal mare la cui idea di vacanza consisteva nel piazzarsi su un litorale ventoso e guardare le onde) fa dire a un bambino che sta morendo in una pensione di Brighton da cui si sente la risacca, con la sorella accanto: «Voglio sapere che cosa dice il mare, Floy. Che cos'è che continua a dire?» Esattamente la mia domanda. | << | < | > | >> |Pagina 36Narciso fissa lo sguardo nello specchio d'acqua e scopre un volto la cui espressione di meraviglia e struggimento è una copia miracolosamente perfetta della sua; bella mossa da parte di Nemesi mandare Narciso alla fonte. Il potere di rifrazione dell'acqua fa si che quando scrutiamo in profondità vediamo in superficie. Quando guardiamo giú, in cerca di un ombroso abisso sotto le onde, ciò che ci viene restituito, di solito, è semplicemente noi.Un tempo i popoli guardavano al mare con una sorta di orrore religioso. Il mare era il caos, il flusso costante, il vasto deserto delle acque; l'abisso incompiuto da cui Dio aveva tratto l'uomo e la sua fragile, preziosa civiltà. La storia della creazione comincia cosi: La terra era priva di forma e vuota; e la tenebra aleggiava sulla superficie dell'abisso. E lo Spirito di Dio si muoveva sulla superficie delle acque... W. H. Auden scrisse che nella Bibbia il mare «è cosi lontano dal simboleggiare qualcosa di rassicurante che la prima cosa che l'autore dell' Apocalisse fa notare dei nuovi cieli e della nuova terra che gli appaiono nella sua visione sulla fine dei tempi è che "non c'era piú mare"». In seguito, durante il Rinascimento, il mare prese a essere considerato come puro spazio, uno spazio invitante, una tabula rasa su cui incidere nuove rotte commerciali, scoperte, conquiste di imperi. I cartografi decoravano il mare con balene che soffiavano acqua dagli sfiatatoi, rotte tracciate con la bussola, vascelli irti di vele che incedevano solenni, strumenti di navigazione (quadranti, compassi, clessidre). Come certi ritratti in pompa magna del Tiziano o del Veronese, il mare dei cartografi doveva riflettere la gloria del principe mercante, della sua flotta e dei suoi avventurieri a pagamento. Bastava spedire una nave qualunque su questo mare fatto per lo sfruttamento per vedersela tornare indietro carica d'oro, la linea di galleggiamento rasente l'acqua. Ancora piú tardi, per influsso della filosofia romantica tedesca e della poesia romantica inglese, il mare venne considerato la quintessenza del sublime naturale: violento, bello, gelidamente indifferente verso l'umanità. «Il mare eterno», o «il mare immortale», cui si rivolgevano Byron - «Ondeggia, profondo oceano blu, ondeggia!» - e Tennyson - «Frangiti, frangiti, frangiti, sugli scogli freddi e grigi. Oh mare!» - era una divinità morbosa. In Moby Dick, quando le acque finalmente si richiudono sui resti frantumati del Pequod, Melville scrive: «il grande sudario del mare continuò a ondeggiare come faceva cinquemila anni prima». Nell'epoca della secolarizzazione e dell'industria, abbiamo trovato nel mare un simbolo del nostro bisogno di una potenza che ci trascenda. Quell'immagine allo specchio ha avuto i suoi giorni di splendore ed è ancora viva, anche se è stata affiancata da un controriflesso. Negli anni Sessanta la gente cominciò a guardare il mare con un sentimento di autocritica, trovando in esso la prova della propria avidità, della propria imprevidenza e della propria capacità distruttiva. Gli uomini avevano trattato il mare come un cesso. L'oceano inquinato, pieno di idrocarburi aromatici e policloruri bifenilici, insudiciato dal petrolio delle navi cisterna incagliate, sfruttato per la pesca fino all'esaurimento del patrimonio ittico, gonfio di molluschi avvelenati, di sogliole col cancro al fegato, di specie morenti in quantità catastrofiche rifletteva il volto incurante e stupido dell'umanità. Tutte queste immagini, parziali e frammentarie, danzavano in continuazione sulla superficie dell'acqua, si scambiavano di posto, svanivano l'una nell'altra, regnavano per un istante, poi perdevano mordente all'improvviso. Ritenevo possibile pensare al mare come alla somma di tutti i riflessi che aveva portato su di sé nel corso della storia. Nessuno riuscirà mai a conoscerne neppure la metà, naturalmente; ma nello scontro e nella contraddizione tra diverse immagini era quantomeno possibile cogliere una parte della potenza provocatoria del mare, una potenza carica di significati molteplici. | << | < | > | >> |Pagina 113Al Phoenix, un ristorante poco frequentato grande come una scatola da scarpe che si vantava di offrire «Autentica cucina cantonese», frugai con le bacchette in una ciotola di manzo fritto e lottai con me stesso sulle pagine del taccuino. L'attraversamento del confine... il golfo angusto ma profondo (chiamiamolo Stretto di Haro) che si apriva tra Canada e Stati Uniti... quell'acqua liscia e ingannevole cosi facilmente fraintesa richiedeva una navigazione attenta.Alla gente piaceva dire che se gli Stati Uniti erano un melting pot, il Canada era un'insalatiera, dove gli immigrati potevano conservare le proprie identità d'origine, i propri sapori, mentre in America finivano assimilati in un minestrone culturale. Se arrivavi in Canada cipollotto, potevi restare cipollotto, senza che nessuno tentasse di trasformarti in un pomodoro o in un cetriolo. In quest'idea c'era qualcosa di ovvio e di vero. La cucina cinese del Phoenix era piú autentica di quella che avrei trovato nella maggior parte dei locali corrispondenti negli Stati Uniti. I nuovi arrivati non erano costretti a «canadesizzarsi», la pressione cui erano sottoposti affinché adeguassero i loro stili di vita e costumi a quelli del paese ospitante era relativamente ridotta; potevano continuare a fare molte cose come le facevano in patria, piú di quanto accadesse negli Stati Uniti. L'inglese restava inglese, il cinese restava cinese. Gli Stati Uniti erano una terra di immigrati, il Canada era un paese di émigrés. Questa distinzione un po' grezza faceva bene il paio con una piú sottile suggerita dal critico letterario canadese Russel Brown. Pescando con una grossa rete a strascico nella narrativa statunitense e in quella canadese, Brown aveva individuato una differenza essenziale tra le due culture, riconducibili l'una a Edipo e l'altra a Telemaco. Negli Stati Uniti, dove la società era fondata sulla rivoluzione, l'eroe mitico era il figlio ribelle, il parricida (Edipo come Huckleberry Finn); la fuga, la rivolta, il culto di una nuova vita da iniziare a spese della vecchia erano i temi ricorrenti. Piú a nord, in una società fondata sul rifiuto di sollevarsi contro i genitori, l'eroe mitico era il figlio leale, Telemaco, colui che si mette in viaggio alla ricerca del padre perduto. Se gli statunitensi tendevano a tagliare i ponti col loro passato ancestrale, i canadesi tendevano invece a onorarlo. I doganieri (scrissi) avevano ragione a guardare oltre il mio passaporto e il mio accento e a catalogarmi come un americano venuto dall'altra parte dello stretto. Io ero Edipo, non Telemaco: un fuggitivo alla ricerca di una nuova vita, un cacciatore di arcobaleni. Un immigrato, non un émigré. Avevo lasciato la Gran Bretagna per gli Stati Uniti nel tentativo di tagliare i ponti col passato, cosa che in Canada mi sarebbe stata impossibile. A Seattle, avevo pensato, potrò scuotermi di dosso la polvere dell'Inghilterra e ricominciare da capo. Per quanto abbastanza in là negli anni, avevo raccolto comunque il richiamo ormai rauco delle sirene dell'America e mi ero convinto che laggiú avrei potuto ancora realizzare qualcosa di nuovo e inatteso. Le sirene conducono i marinai alla rovina, ma appena cominciano a cantare ce ne dimentichiamo per l'ennesima volta. Dal Canada non mi arrivava nessun tipo di musica. C'era la testa della regina sui soldi, la stantia architettura coloniale postgotica, gli espatriati britannici coi loro club di canottaggio e rugby e i loro giornali londinesi di due o tre giorni prima, un contegno nazionale fastidiosamente modesto, una vita pubblica fatta di ragionevolezza e fair play. Il Canada andava bene per i realisti, e io non ero un realista. Quando ero salito sull'aereo, a Heathrow, mi sentivo un Huck Finn attempato in cerca di un territorio in cui darmi alla fuga. Se fossi partito per il Canada, questo non sarebbe stato possibile. Mi sarebbe sembrato di fuggire per l'isola di Man. | << | < | > | >> |Pagina 158Nella genesi delle onde, è dapprima l'aria che «deforma» l'acqua, e poi quest'ultima che comincia a «perturbare» il flusso dell'aria su di sé; da questa delicata interazione tra elementi nasce l'onda. Quando l'icrespatura si tramuta in ondina, la sua lieve convessità procura un ostacolo contro cui il vento può fare pressione, cosi ha immediatamente origine un davanti sottovento e un retro sopravvento dell'ondina stessa, con un differenziale crescente fra la pressione debole sul davanti e quella intensa sul retro. L'instabilità dell'aria, date queste improvvise disuguaglianze di pressione, contribuisce all'innalzamento dell'onda (che ormai può dirsi tale): la linea d'acqua con minore resistenza si sposta verso l'alto, mentre l'energia del vento si trasferisce al mare.Quel mattino, dopo qualche zefiro sperimentale, il vento prese a spazzare il lungo imbuto dello stretto con accelerazione crescente e ostinata. Non avevo ancora fatto a tempo a spiegare il genoa, che già ero costretto a terzarolare per ridurlo di metà. Onde appena formate si rompevano imbiancandosi tutt'attorno alla barca. (La cresta spumosa restituisce all'aria una tassa sull'energia che l'aria stessa ha fornito all'acqua). Nell'arco di pochi minuti le onde acquisirono il loro periodico ritmo naturale dando vita a un mare corto, ripido e bitorzoluto. Bitorzoluto era la parola giusta. Visto dalle scogliere, il mare doveva sembrare uniforme come le corde di un'arpa, con le linee bianche delle creste d'onda che correvano parallele, a intervalli di una ventina di metri. Visto dal timone di una piccola barca, si presentava in maniera del tutto diversa. Ogni onda possedeva una moltitudine di leggere deformità: onde in nuce che si gonfiavano, facevano mucchio, tentavano di rompersi cavalcando l'onda principale, si alzavano in tutte le direzioni con angolazioni multiple, trasformando ogni metro quadrato d'acqua in un brodo caotico di piani fluttuanti e colline in caduta libera. Dovunque trovasse una superficie esposta, il vento sollevava increspature sottili in attesa di diventare onde. Le onde grandi portano sul dorso onde piú piccole che le cavalcano, e cosi via all'infinito. | << | < | > | >> |Pagina 177All'epoca in cui la Discovery era ancorata qui, William Wordsworth aveva ventidue anni, gli stessi dei guardia marina piú anziani, come Thomas Manby. L'interesse di Manby per il pittoresco, rivelato dal diario che tenne in segreto durante la spedizione, può essere accostato alle prime poesie di Wordsworth. Il giovane marinaio che nella Discovery Bay descriveva il proprio naviglio che pattinava sulla superficie dell'abisso in un mattino dotato piú delle caratteristiche dell'incantesimo che non di quelle della realtà avrebbe letto Una passeggiata di sera (composta da Wordsworth nel 1793) con la sensazione improvvisa di ascoltare una voce nuova capace di parlare la lingua della sua generazione.Nei dodici anni successivi, Wordsworth scrisse quasi tutte le poesie che in seguito avrebbero ridefinito il modo di percepire la natura selvaggia da parte dei lettori di lingua inglese. Ne Il preludio, poema terminato nel 1805, Wordsworth descrisse il proprio tour alpino del 1790, quand'era studente. L'ambientazione è la Svizzera, ma potrebbe essere altresi il Desolation Sound. Wordsworth e il suo amico di Cambridge Robert Jones partirono alla volta del Passo del Sempione ma persero il sentiero. A un certo punto la coppia di turisti smarriti incontrò un contadino, e questi li deluse profondamente informandoli del fatto che senza accorgersene avevano già superato lo spartiacque: il passo era ormai alle loro spalle. Avviliti, Wordsworth e Jones proseguirono la lunga discesa verso il confine italiano. [...] Prendemmo in fretta la discesa e entrammo con il sentiero che avevamo mancato in una gola stretta. La via e il ruscello ci erano compagni in questo passo cupo, e con essi procedemmo varie ore lentamente. L'altezza smisurata dei boschi che non avrebbero mai finito di decadere, i boati stazionari delle cascate, e dappertutto nello squarcio profondo i venti che confusi e sperduti si azzuffavano, i torrenti che balzavano dal terso cielo blu, le rocce che mormoravano nelle nostre orecchie, neri dirupi gocciolanti che parlavano lungo la via come se avessero voci, la vista a strapiombo, vertiginosa, del torrente infuriato, le nuvole e le regioni indomite dei cieli, pace e tumulto, luce e oscurità: tutto era opera di una sola mente, fattezze di un unico volto, fiori di un solo albero: caratteri della grande Apocalisse, tipi e simboli dell'eternità, di inizio e fine e centro interminato. Si tratta di una delle grandi epifanie della letteratura romantica: un'intensa esperienza del caos e della confusione naturali al termine della quale Wordsworth si trova al cospetto del suo personale demiurgo panteistico, un essere in cui gli indiani kwakiutl avrebbero potuto tranquillamente riconoscere il loro signore del disordine oceanico, Komogwa. Un paesaggio vertiginoso e anarchico, dove la libertà (le nuvole «indomite») è a malapena distinguibile dalla follia (il torrente «infuriato») e dove l'esaltazione confina con la nausea. Un luogo di estremi, dal punto di vista morale, mentale e fisico; soprattutto un cupo stretto, una regione liquida in cui l'aria («i venti che confusi e sperduti si azzuffavano») e l'acqua (il ruscello impazzito, le cascate, i dirupi «gocciolanti», i «torrenti che balzavano dal terso cielo blu») si trovano in uno stato di cronico e turbolento rimescolio. Tra i tanti Desolation Sound disponibili, quello di Wordsworth è il piú valido per la serietà complessiva della visione. Una visione in cui hanno spazio sia l'orrore mortale di Vancouver sia il piacere estetico di Menzies. L'umano trova un appiglio anche nella natura intesa come intrinsecamente instabile, vorticosa, contraddittoria, scoprendo, contro ogni aspettativa, un significato e un ordine, perfino in maree aberranti e in stelle che fanno perdere l'orientamento. Era cosi la natura dipinta da J. M. W. Turner, di cinque anni piu giovane di Wordsworth ed esattamente coetaneo degli honorable Pitt e Stuart. L'esperienza di Wordsworth sul sentiero del Sempione è analoga a quella di Turner nei pressi di un valico una cinquantina di chilometri a est, dove il pittore si fermò sul «Ponte del Diavolo» a fare uno schizzo della propria versione di un mondo naturale caoticamente invertito. Nel Passo del San Gottardo, le linee della prospettiva puntano verso il basso, inclinate di novanta gradi rispetto alla convenzione, in modo da incontrarsi nelle profondità dell'abisso. Ben al di sotto dei piedi dell'artista, ci sono delle nuvole disordinate intrappolate in un burrone. Sotto le nuvole, le aquile volteggiano su una corrente ascensionale. Anche adesso, nell'era in cui la veduta aerea dal finestrino di un Boeing 747 può dirsi familiare, quel quadro, esposto alla Birmingham City Art Gallery, provoca una sensazione di stordimento, mentre gli occhi dell'osservatore precipitano nell'abisso, ben oltre il bordo inferiore della cornice, nello spazio non dipinto. Turner rappresenta le pareti rocciose come le vedrebbe un geologo o un alpinista, con un'attenzione pignola per ogni placca o protuberanza. Il quadro (terminato ed esposto nel 1804 a partire da uno schizzo eseguito nel 1802) è un esempio di scrupoloso realismo ma anche la raffigurazione di quell'abisso mistico, di quell'immensa profondità, di quel caos primordiale in cui la ragione stessa rischia di precipitare. È un quadro pensato per farti perdere l'equilibrio, per indurre l'osservatore a cadere nella scena, tra i rapaci volteggianti. | << | < | > | >> |Pagina 236A Londra si friggeva nella calura di maggio. La città era soffocata dall'afa, il sole simile a un'arancia butterata perennemente velata di nuvole. «Riscaldamento globale» era la frase del momento, ma secondo me quel caldo fuori stagione poteva essere benissimo un'altra delle bizzarrie della meteorologia inglese. Jean, Julia e io ci sistemammo a Brixton, nella casa alta, stretta e misericordiosamente cupa di una mia vecchia amica con un figlio di undici anni. Julia si innamorò perdutamente del bruno Francis, splendente di gel e con la tenuta dell'Arsenal Football Club. Quando le chiedemmo se le piaceva il suo primo gelato inglese, rispose: - Da sballo -. In perfetto stile South London.Avevo affittato un'auto a Heathrow come qualsiasi visitatore straniero. Cosi, non appena ci fummo piazzati a Brixton, partii da solo per Market Harborough e sulla strada mi fermai da Fortnum & Mason's a comprare lo zenzero candito per mio padre. - Gli fa bene, - aveva detto mia madre al telefono. - Non lo vomita. Devo tenerlo in forze. Cosi possiamo andare in Scozia... Desiderava tantissimo poter fare quell'ultima vacanza insieme. Caricai una bracciata di vasetti di zenzero candito nel bagagliaio (boot e non trunk), risalii in auto dalla parte del passeggero e mi domandai dove fosse finito il volante (l'inizio di una mattinata di stranezze da jetlag). Imboccai la solita strada verso nord. Avrei potuto percorrerla dormendo: Marble Arch, Seymour Place, Lisson Grove, Abbey Road (con gli stucchi da torta nuziale che lasciavano spazio alla serietà dei mattoni sangue di bue, poi all'intonacatura a pinocchino, poi al cemento, poi alle frivolezze pseudo-Tudor). A Brent Cross infilai lo svincolo della M1 pigiando sull'acceleratore per adeguarmi alla velocità della folla. Guidavamo tutti ai centotrenta all'ora, muso contro coda, una carovana di lamiera colorata. Ogni miglio circa, ai lati della carreggiata, campeggiava un cartello enorme con la scritta MANTENERE LA DISTANZA DI SICUREZZA! I segnali erano sbiaditi dalle intemperie, le lettere cominciavano a sparire, ma per me erano una novità, anche se avevo percorso quella strada non piú tardi di sei mesi prima. La carovana procedeva a una velocità tale che i cartelli sembravano uno solo, intento a ripetere invano MANTENERE LA DISTANZA DI SICUREZZA! MANTENERE... LA DISTANZA... DI SICUREZZA! Tanto valeva dirlo ai vagoni agganciati di un treno espresso. Mantenere la distanza di sicurezza in quest'isola sovrappopolata era sempre stato un problema spinoso. A quanto ricordavo, i grovigli labirintici del sistema di classi inglese contribuivano a compensare la cronica carenza di spazio. Nei club, al pub, in un salotto o nel ridotto di un teatro, bastava aprire bocca e parlare con un accento inadatto all'ambiente per provocare l'aprirsi di voragini di miglia e miglia fra sé e gli altri. La casa di campagna in fondo al vialetto incorniciato di rododendri si trovava a distanze linguistiche e consuetudinarie immense dal villaggio il cui nome compariva sul suo indirizzo postale. Ma nell'ultimo quarto di secolo il sistema di classi era stato eroso fino a sfiorare il totale collasso. Una delle lezioni impartite da Margaret Thatcher durante il suo lungo, intransigente e dispotico regno in qualità di primo ministro era che il denaro, non la classe, divideva gli inglesi. Era una lezione importante, per quanto tardiva; ma il denaro era un ben misero isolante in confronto alla classe, cosi adesso in Inghilterra tutti sembravano piú schiacciati di prima, paraurti contro paraurti, gomito a gomito, in uno scenario che a chi come me arrivava dritto dritto dalle coste selvagge della Columbia Britannica non poteva non apparire surreale. L'Inghilterra correva a nord a bordo di fuoristrada sportivi fiammanti in stile americano dando l'impressione che lo spazio per la tanto invocata distanza di sicurezza fosse semplicemente finito. La mia auto a noleggio, la meno cara messa a disposizione da Avis, faceva una magra figura accanto ai plotoni di Jeep Cherokee, Nissan Pathfinder, Range Rover, Ford Explorer, Mitsubishi Shogun e Toyota Land Cruiser. Anche la lingua era cambiata. L'autoradio trasmetteva il dialetto della nuova Inghilterra, un idioma artificiale noto come Estuary English. Gli speaker della Bbc, i politici, gli scrittori parlavano tutti cosi. L'estuario in questione era quello del Tamigi, e l'idea era che tutti dovessero esprimersi come un venditore d'auto smaliziato e simpatico dell'Essex o del Kent suburbano. I piú entusiasti sostenitori dell'Estuary English erano uomini che avevano frequentato le scuole private piú tradizionali e poi le università di Oxford o Cambridge. Durante un notiziario di Radio 4 ascoltai stupefatto il leader del Partito laburista Tony Blair (Fettes School e Oxford) parlare come se fosse appena uscito da una lunga, ardua e non del tutto efficace lezione di Estuary English col maestro di dizione ufficiale del New Labour. Il mio accento era diventato una reliquia di un'altra epoca, con l'impronta troppo udibile di un collegio militaresco anni Cinquanta e di generazioni di parroci di campagna anglicani. Sulla costa occidentale del Nordamerica non me ne accorgevo (di solito la gente mi scambiava per australiano), ma qui in Inghilterra suonavo offensivamente affettato e languido alle mie stesse orecchie. Probabilmente in Estuary English un accento cantilenante come il mio sarebbe stato definito poncy. Poi mi resi conto che una parola come poncy sarebbe stata etichettata come decisamente poncy. Incapace di tenere il passo frenetico della moderna Gran Bretagna (i cambi di corsia, le macchine che si tagliavano la strada, lo spregio per la segnaletica, la generalizzata mancanza di regole), lasciai l'autostrada poco dopo Milton Keynes ed entrai in un mondo piú facile e familiare. Ecco l'Inghilterra che ogni esule nostalgico s'immagina nelle sere solitarie: ondulata, verde, decidua, coi muri di pietre a secco, le siepi, i campanili alti delle chiese, le case di sasso locale color miele, i piloncini rossi della posta con le iniziali V.R. a svolazzi sopra la buca, le insegne dei pub appese con le catene (Giorgio e il Drago, Il Cane e l'Anitra, La Diligenza e i Cavalli, La Stella e la Giarrettiera, Il Maiale e il Fischietto), i sentieri in mezzo ai campi, qualche tetto di paglia, i giardini dei cottage, le notizie locali, i cavalli al pascolo, il biancospino in fiore (e un merlo che canta sul ramo piú alto di ogni arbusto), i cartelli stradali pencolanti (LITTLE BRINGTON 3 1/4), case simili a manieri con fossi di cinta e viali di querce, curve cieche (che nascondono alla vista il trattore Massey-Ferguson in agguato dietro l'angolo), gli spaventapasseri, gli stagni con le anatre, le allodole, i mucchi di fieno, le campane che suonano i quarti d'ora, il solito brodo sdolcinato e sentimentale. | << | < | > | >> |Pagina 255Mi appassionai alla morte in mare di Shelley e presi a consultare abusivamente i volumi della London Library (la mia tessera era scaduta da tempo) per scoprire i dettagli mancanti nella splendida biografia del poeta scritta da Richard Holmes.Shelley andava in barca sin dai tempi della scuola a Eton, ma la sua esperienza era prevalentemente fluviale, dal Tamigi all'Arno. La navigazione da diporto e l'alpinismo nacquero dalla rivoluzione romantica; la montagna e il mare erano gli ultimi luoghi davvero selvaggi dell'ipercivilizzata Europa, cosi i poeti che andavano in cerca della natura incontaminata finivano immancabilmente in barca. Il giovane Wordsworth (stando a Il preludio) rubò una barchetta sul Lake Windermere e fece una delle sue prime esperienze del sublime remando sulle acque del lago al cadere della notte, inseguito da un'immensa scarpata. Byron possedeva una barca piuttosto grande, il Bolivar (dal nome del liberatore del Sudamerica), con tanto di cannoni sulle cui bocche era inciso il blasone di famiglia e il motto «Crede Byron». Quando Shelley si trasferi con la sua grande famiglia non convenzionale a Lerici, sul Golfo di La Spezia, nel 1822, comprò una goletta in miniatura in stile americano, per ottanta sterline. Era una barca snella, veloce, con poca insellatura e poca distanza fra la linea di galleggiamento e il ponte. Secondo i libri era lunga 24 piedi (7,31 metri), ma a giudicare dal disegno di Daniel Roberts, che sovrintese alla costruzione del natante ed era quindi ben informato, quella potrebbe essere la misura della linea di immersione, mentre la lunghezza del ponte avrebbe raggiunto i 30 piedi (9,14 metri). Indipendentemente dalla lunghezza, Shelley amava la barca e voleva chiamarla Ariel, ma alla fine cedette all'insistenza e all'egocentrismo patriarcale di Byron e la battezzò Don Juan. A maggio il Don Juan arrivò a Lerici da Genova, e Shelley ne fu deliziato. Ecco che cosa scrisse a Daniel Roberts: È una barca bellissima, al di là delle nostre migliori aspettative, tanto che abbiamo faticato a convincerci che lei non ci avesse spedito per errore il Bolivar. E a John Gisborne: È agile e bella, sembra una vera nave. Williams [Edward Williams, un amico di Shelley che aveva prestato servizio nell'esercito in India, marito della «Jane» citata nella frase successiva] è capitano di marina, cosi veleggiamo in questa baia meravigliosa sospinti dal vento della sera sotto la luna estiva, finché la terra non pare un altro mondo. Jane porta la chitarra, e se il passato e il futuro potessero essere dimenticati, il presente mi renderebbe cosi felice che direi con Faust all'istante che passa: «Rimani, sei cosi bello». «Mi serve allo stesso tempo come studio e come mezzo di trasporto», scrisse altrove Shelley, che riempi la barca di libri e iniziò la sua ultima opera di rilievo, Il trionfo della vita, seduto a bordo, con la schiena appoggiata all'albero maestro del Don Juan. Le doti di velocità della barca erano notevoli sin dall'inizio, ma Shelley fece aggiungere degli alberi di gabbia, degli stralli e una falsa poppa. Per bilanciare l'enorme velatura fu necessario zavorrare le sentine con 29 pani di ghisa. William St. Clair, autore di una biografia di Trelawny (che contribui alla progettazione e alla costruzione del Don Juan), la descrive come «una delle imbarcazioni meno sicure mai varate». | << | < | > | >> |Pagina 340Il paesaggio della spoliazione. Le colline circostanti presentavano tonsure monacali: le pendici erano ben coperte di alberi di seconda crescita, ma oltre i trecento metri di altitudine comparivano grandi crani nudi di roccia grigia, dove i pini nuovi non avevano ancora messo piede. Dal 1867, anno in cui l'impero russo aveva venduto l'Alaska agli Stati Uniti per due centesimi ad acro, quel territorio era stato sistematicamente depredato da orde di cacciatori-raccoglitori di passaggio di arpioni armati, dinamite, pale, asce, scavatrici, setacci, trivelle, motoseghe e reti da pesca. Ben poche di queste persone avevano la minima intenzione di fermarsi ad abitare nella terra che venivano a saccheggiare. «Casa» era altrove. Non avevano alcun interesse a dissodare il suolo alaskano: nel 1959, quando l'Alaska divenne il quarantanovesimo stato dell'Unione, c'erano soltanto 8000 ettari di terreno coltivato. I mezzi di sostentamento arrivavano via mare da Seattle; anche nella regione temperata dell'Alaska sudorientale, la gente viveva come su una piattaforma petrolifera o in una base scientifica in Antartide, nella totale dipendenza dai «quarantotto inferiori» per le necessità piu elementari.L'Alaska era vista come una specie di pozzo senza fondo di risorse naturali di cui fare scempio per il benessere nazionale. Una delle sue grandi attrattive era la lontananza; lassú si potevano fare cose che non sarebbero mai state tollerate né in Oregon né nello Stato di Washington. In Alaska i giovanotti potevano abbandonarsi agli istinti piu sfrenati senza che ciò costituisse una minaccia per il tessuto sociale delle loro morigerate città natali. In Alaska si potevano trovare il baccano e le emozioni di una guerra in terra straniera anche durante i monotoni periodi di pace. L'Alaska aveva subito abusi e razzie. In qualsiasi altra parte del mondo, una tale furia predatrice avrebbe lasciato alle proprie spalle una tabula rasa di distruzione perenne. Ma qui il clima era incredibilmente clemente: 4000 millimetri di precipitazioni annue erano in grado di guarire le peggiori ferite inferte al paesaggio. In Alaska la natura ricopriva in fretta i segni del saccheggio. Non ci sarebbe voluto troppo tempo prima che le colline calve che avevo davanti agli occhi tornassero verdi. Le migrazioni dei salmoni, incredibile ma vero, continuavano a essere abbastanza consistenti da accontentare la flotta vorace del Revillagigedo Channel. Nel 1886, Hubert Howe Bancroft, autore di un'epica History of Alaska, scriveva: «Le risorse di questo territorio, benché alcune di esse non siano ancora sfruttabili, sono talmente ricche e abbondanti che se opportunamente economizzate non saranno mai intaccate sul serio». La cosa straordinaria era che la previsione di Bancroft non si fosse ancora rivelata ridicola anche dopo piu di cent'anni di sfruttamento sfrenato del patrimonio forestale, minerario, faunistico e ittico.
A bordo avevo l'edizione del 1933 dello
United State Coast Pilot
dedicato all'Alaska. Le segherie e le fabbriche alimentari «non funzionanti»,
«abbandonate» o «in rovina» su questo tratto di litorale erano numerose già
allora. In un paese di raccolti facili, la gente mollava tutto e si trasferiva
altrove senza pensarci due volte. C'era sempre un altro pezzetto degli
undicimila chilometri di coste alaskane in cui la razzia poteva continuare con
minor sforzo. L'immensità della natura spingeva anche i predatori piu rapaci ad
applicare la strategia del mordi e fuggi. L'idea di mettere radici, di rimanere
attaccati alla terra fino a esaurirne le risorse non aveva mai fatto parte
dell'etica irrequieta dell'Alaska.
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