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| << | < | > | >> |IndiceI. Dalla cucina alla biblioteca 9 II. Heidegger in via Mascarella 23 III. Un dono per il futuro 39 IV. Lo stupore della storia 53 V. L'incontro con Bachtin: un dialogo americano 61 VI. Il giorno si fa notte 73 VII. La domenica del traduttore 81 VIII. I libri dell'amicizia 91 L'uomo dei libri, di Paolo Ferratini 101 |
| << | < | > | >> |Pagina 17Posso dire che devo la mia cultura alla scuola, a ciò che la scuola mi ha indicato. Senza la scuola sarei rimasto, probabilmente, un artigiano come voleva mio padre; mentre mia madre aveva il senso del crescere e capiva, lei che non era colta, che la cultura era lo strumento necessario. I risultati – io non ero un secchione, ma ero un bravo scolaro – le diedero ragione, in quella che fu la sfida della sua esistenza. Aveva avuto una vita piena di traversie e questo figlio venuto tardi la compensava della fatica aggiunta che si accollava per poterlo mandare a scuola. È per questo che ho detto tante volte — e non era una mitologia — che sono nato due volte per merito di mia madre: sono suo figlio di natura e suo figlio di cultura. L'intuizione straordinaria fu di creare distanza da sé nella cultura del figlio perché questa, accompagnata e vissuta insieme passo dopo passo, si riversasse in un rapporto più profondo, in un affetto più meditato. Da un mondo senza cultura mi portò al mondo della cultura, sperando che i sentimenti non ne soffrissero ma ne traessero nuove motivazioni e nuovo vigore. Ed è ciò che, se non mi illudo, è effettivamente avvenuto.
Era una persona alta, che quando si muoveva sembrava conquistasse l'aria;
aveva qualche cosa di eroico
non detto, accettava le cose con un senso avventuroso,
guidata da un'intelligenza istintiva — una figura fuori
del comune, da affidare probabilmente a un romanzo.
Ho ritrovato alcuni suoi tratti nel personaggio straordinario della madre in
Luce d'agosto,
di Faulkner. Quando è morta l'intesa fra noi era assoluta. Di lei mi
resta il ricordo di qualcuno a cui devo molta parte di ciò che c'è di più vero
nella mia esistenza e nel mio lavoro.
Se non temessi di scomodare i paradigmi eminenti del metodo, nel tentativo di dare una dignità non pertinente alla vicenda dimessa dello studio quotidiano, direi che la ricerca è, in prima battuta, una lettura di testi che lascia andare le cose quasi per proprio conto, come un girare delle sfere che non trova la propria regola se non alla fine, quando tutto si è messo a posto (il che è poi, almeno in parte, un inganno, perché vuol dire che si è trovato il modo di far tornare i conti in un discorso che all'inizio sembrava senza dimensione). Il punto di partenza di questa avventura del senso, l'unico ancoraggio possibile, è la biblioteca, cui sempre si ritorna. Da questo punto di vista si è come il personaggio mitico che ritraeva forza dal toccare terra; la biblioteca è la terra del ricercatore: essa ridà forza, ridà idee, è l'umanità convenuta per servirti, per darti una mano. Solenne e domestica, la biblioteca sta a metà fra un tempio e una cucina. | << | < | > | >> |Pagina 33Ho l'impressione, a pensarci, che il contesto nascosto di un libro sia la parte profonda della sua tonalità: l'interpretazione si sposta dal libro a quello che Popper chiamerebbe la cornice e altri il contesto; ma «contesto» è una parola in parte ingannevole, troppo illustre. È un rapporto molto più segreto, molto più straordinario, molto più vibrante, è la sensazione diretta del vivere, lo scorrere, il fluire delle cose che passa nella lettura, nel ritmo che diamo al testo, nella pagina che torniamo ad aprire. Era un Heidegger addomesticato, da un certo punto di vista, ma non come l'avrebbe addomesticato Gadamer più tardi, sottraendo al maestro, da bravo scolaro, quella forza inumana di guardare al destino dell'uomo; addomesticato, nel senso che per me diventava domestico, un uomo. Anche per mia madre Heidegger esisteva; esisteva perché ne parlava il figlio e quindi diventava un cittadino di via Mascarella, a contatto con le nebbie, gli stati d'animo di un ragazzo che cominciava le sue avventure, anche sentimentali, insieme a quelle ideologiche, e sentiva di colpo l'irrompere della storia.| << | < | > | >> |Pagina 61Baltimora, novembre del 1968: avevo concluso il mio corso di tre mesi alla Johns Hopkins, dove ero stato chiamato come visiting professor da Charles Singleton. Dovevo partire quel pomeriggio, ed era fissato il taxi non mi ricordo per quale ora. Era una di quelle giornate che il Maryland offre talvolta con un gusto che può sembrare quasi inglese, con il prato verde, le vecchie case... Il mondo di Poe, in fondo. Mi avevano annunciato che alcuni dei graduates ai quali avevo fatto lezione quell'anno sarebbero venuti a salutarmi. Non so più quanti erano, saranno stati cinque o sei; vollero accompagnarmi fino al taxi e, la cosa mi colpì, mi portarono le valigie. Io, reduce dal Sessantotto italiano, credevo di essere in un altro universo, anche se erano arrivati i racconti di quel che era capitato alla Columbia dove la lotta studentesca era forte. Giunto il momento dei saluti, mi porsero un pacchetto e mi chiesero di aprirlo perché vedessi che cosa mi avevano portato. La confezione dell'involto comprendeva anche un fiocco tricolore, quasi a riconoscere il principio dell'italianità a una cultura che andava oltre le proprie origini. Era un libro, la raccolta di alcuni scritti di Michail Bachtin, appena pubblicata dal MIT, e aveva come titolo Rabelais e il suo mondo. Credo fosse la prima edizione occidentale di Bachtin: solo più tardi vennero il mondo francese e il mondo italiano, che offrirono testi più ampi e meglio curati. Perché proprio quel libro? Avevo tenuto un corso sopra il Barocco e la metafora, un tema a me caro e che aveva la possibilità di risultare d'interesse per uno studente americano, con altri referenti e orizzonti culturali. Durante una lezione parlai di Bachtin, per quel poco che ne conoscevo indirettamente, lasciando capire che era uno dei personaggi cui guardavo con più desiderio di una conoscenza completa. Era accaduto che attraverso letture su Dostoevskij avessi trovato citato, discusso da qualcuno e rifiutato, il concetto di polifonia, che il critico adattava all'oggetto specifico della sua analisi, ma che estendeva poi a tutta una tradizione letteraria, arrivando propriamente a concludere che il romanzo stesso, come genere, è il luogo della polifonia. Quei giovani intuirono, probabilmente, che il volume su Rabelais, cui avevo fatto cenno per averlo visto citato in un repertorio delle nuove apparizioni, era un libro che desideravo o, per dire meglio, aspettavo; e, regalandomelo, fecero in modo di accompagnare l'ultimo saluto con un gesto di fedeltà, oltre che di gentilezza. Ma perché aspettavo Bachtin? Il concetto di polifonia, magari mediato dalla lettura di uno scolaro di Husserl come Ingarden, che per primo aveva tentato una fenomenologia della letteratura, mi era parso da subito, prima ancora di conoscere direttamente i testi, una categoria fertile. L'attesa di Bachtin era quella di chi ha individuato un continente sconosciuto e non vede l'ora di addentrarvisi, perché sa che vi troverà delle novità straordinarie. Dagli anni Sessanta era diventato patrimonio nostro, occidentale, anche la critica del formalismo: Jakobson, Lotman e altri erano giunti da noi, facendoci conoscere un mondo dei primi anni del Novecento eccezionalmente avanzato e che corrispondeva ai problemi e alle esigenze del nostro lavoro. Bachtin — da quel poco che avevo potuto capire — portava il discorso dei formalisti su un nuovo piano, all'interno di un'ermeneutica antropologica o di un'antropologia della letteratura. Il mio problema era adattare alcune di quelle categorie allo studio di certi fatti di mia più stretta pertinenza, in quanto studioso di letteratura italiana: che voleva poi dire Manzoni e, in modo più sfumato, Dante. A differenza delle conclusioni che venivano tratte dal cosiddetto strutturalismo francese, che portava alla cancellazione dell'autore e a un esercizio ormai privo di referenti, per Bachtin le forme erano profondamente, intimamente, legate con il reale. Era un'idea della letteratura come mondo vitale, dove il parlato gioca una parte primaria e nel quale si riflettono le grandi figure dell'immaginario e della volontà sociale dell'uomo: era la vita stessa nella sua esuberanza, tradotta in forme. E mentre lo strutturalismo dichiarava che il testo letterario è un testo senza fine, la cui conclusione è da lasciare all'arbitrio del lettore, Bachtin confermava la vecchia tradizione romantica di una grande filologia universale, che conduceva a un'antropologia del testo dove le forme erano nello stesso tempo problema e atto di conoscenza. Più che un sistema normato, la letteratura diventava così un cammino plurale verso la verità, in una sorta di pienezza singolare, dove la parola che ripete se stessa, che vive ancora nel tempo, è il diverso che porta con sé il simile. Di qui il gioco delle analogie, della continuità dei fenomeni del simbolico, l'idea della parola che si libera e diventa immagine profonda, entro coordinate interpretative inevitabilmente antistoricistiche. Per uno che aveva in mente una storia della cultura legata alle cose e alle istituzioni questa era la strada attraverso la quale l'analisi del linguaggio diventava, quanto più era tecnica, tanto più interpretazione, descrizione di fatti. | << | < | > | >> |Pagina 78In una lezione dal titolo Buoni lettori e buoni scrittori, Nabokov dà una singolare definizione dello scrittore. Lo scrittore, dice, è a un tempo tre cose: per un verso un affabulatore, per un verso un mago, per un verso un maestro. Questo vale per tutti, ma a maggior titolo per lui, e se c'è un libro che mirabilmente attesta la compresenza di queste tre funzioni è proprio Fuoco pallido, dove il lettore è irretito in una continua sfida, come destinatario di un racconto – anzi di più racconti in uno –, e insieme spettatore di un mirabolante gioco di artificio. Nabokov come pochi altri ha sostenuto che il testo letterario è nella ricchezza dei suoi particolari, nella dimensione solare, cioè nella verità che si irradia direttamente, non nelle verità lunari, che sono le astrazioni ricavate dal concreto. Dalla sua disciplina di scienziato – entomologo, specialista delle farfalle – gli viene una capacità di osservazione straordinaria, la pazienza del dettaglio e, nello stesso tempo, lo scatto di colui che cattura l'esemplare raro, se ne esalta e insieme ne diventa il carceriere spietato. Qualche cosa di questo genere si può addebitare anche alla sua scrittura; ma quando parla della vita nel suo mistero, si coglie in lui – ed è fra le qualità più alte della sua pagina composita – una sorta di tenerezza, che nasce dal gioco dell'ironia e della malizia, perché il gioco dell'ironia e della malizia è, alla fine e sempre, una funzione dell'umanità.Come avessi trovato Fuoco pallido, nella prima edizione italiana di Mondadori, non so dire; probabilmente sul bancone di una libreria. Lo prendo perché è di Nabokov. Nel momento in cui lo leggo, mi accorgo che è un romanzo travestito da operazione filologica o, forse, visto da un'altra angolazione, è un testo sulla filologia travestito da romanzo. Decido dunque di aprire il corso leggendo Fuoco pallido. La mia idea era di cominciare a sorpresa con un testo che finge di essere il commento e l'edizione critica, munita addirittura di varianti d'autore, di un poema. Fu il modo che scelsi per mostrare come la filologia, attraverso il gioco a tratti beffardo di una sofisticata invenzione narrativa, potesse deridere se stessa, proporre le proprie procedure come elementi di una storia falsificata e mendace. Non era tanto, in quel caso, la voce del grande scrittore russo-americano che mi interessava, ma la possibilità di aprire un dialogo con gli studenti muovendo da una guardatura eterodossa, da una prospettiva aperta fin da subito alle peripezie della fallibilità, come ha da essere sempre l'interpretazione di un testo quando non è dogmatica, ovvero quando è buona filologia. L'intenzione non era ovviamente screditare la disciplina ma piuttosto riproporla nella vivezza del suo esercizio, benché praticato sul confine indecidibile fra verità e menzogna, come accade al narratore-filologo del romanzo; e illustrare come l'artigianato dell'interprete si facesse riflessione irridente e la riflessione irridente diventasse, a sua volta, rigore, razionalità imprevista, semplicità di ciò che è comune e insieme oltremodo complesso. Devo dire che, benché ai ragazzi qualche cosa sfuggisse durante le lezioni, restò loro l'idea della filologia come di un accesso alla letteratura che non si esaurisce nei protocolli operativi di una tecnica, ma garantisce un'apertura diversa, una disponibilità nuova, una capacità di adeguarsi alla singolarità di ogni atto di parola, fino al punto di ridere dei propri stessi teoremi. Il romanzo di Nabokov non è una stravaganza e neppure, come è stato frettolosamente classificato, un campione del postmoderno. Di là da ogni etichetta, che poco vale, Fuoco pallido testimonia come pochi altri libri il potere della letteratura, che svela e che nasconde, che riluce di verità e muove la fantasia. In fondo, anche il nostro Dante conosce, dall'alto della sua sacralità, le astuzie e le trappole della scrittura, quando l'esilio converte l'io del poeta in un pellegrino profetico cui è consentito di contemplare un mondo invisibile di verità eterne da una grazia che lo riscatta, nella dignità di una parola resa capace di penetrare il mistero della storia. | << | < | > | >> |Pagina 84Di intensità particolare si rivelò il nostro compito domenicale quando fu la volta di dare una voce italiana (non era la prima ma fu certo la più intensa) alla pagina di Céline, che in Italia è stata una rivelazione probabilmente prima che nella stessa Francia, dove lo scrittore aveva un conto aperto – che non è chiuso del tutto neppure oggi – per via dell'antisemitismo e di altre vicende legate alla seconda guerra mondiale. Compivamo schedature lessicali fra gli autori italiani, Gadda e altri, per vedere quale linguaggio era il più conveniente ad accogliere la forza del testo francese, la sua capacità straordinaria di rendere il silenzio, indicato dai famosi puntini di sospensione della petite phrase. E si facevano degli esercizi ad alta voce per calcolare l'oralità interna alla scrittura e si chiedeva a un ascoltatore, che in questo caso era mia moglie, se la frase arrivava con forza oppure se si perdeva per strada e mancava il risultato espressivo che si voleva produrre. Io vocalizzavo il testo francese, Guglielmi leggeva il testo italiano e lentamente si procedeva. La sfida era quella di conservare il timbro del parlato, che in francese, anche nelle formule di cliché, è energico, mentre in italiano è privo di midollo, non ha tensione. Questi esercizi portavano a sentire veramente quella musicalità che serpeggia e si appiatta nelle pieghe degli enunciati ed emerge solo se si legge ad alta voce – una musicalità dissimulata, che si espande in un racconto bituminoso, dove si direbbe quasi, in certi momenti, che l'azzurro del cielo si rifletta nel fango della terra. E ne viene una strana commistione, che è probabilmente l'incanto profondo di Céline, uno degli scrittori che ha fatto sentire di più la forza del corpo e ciò che nel corpo non è corpo.| << | < | > | >> |Pagina 91Non sono stato e non sono un collezionista. Del collezionista mi mancano l'ossessione dell'ordine e quella del pezzo unico. Ciò che mi è sempre importato in un libro era che comunicasse delle idee – e allora era un libro raffinato – ma non ho mai avuto il culto delle prime edizioni; se qualche esemplare raro, qualche volta, è entrato in casa mia, è stato per caso e il dato della sua preziosità era, comunque sia, d'ordine secondario. La biblioteca è sempre stata, per me, il luogo dove si verifica empiricamente il rapporto fecondo tra ordine e disordine, dove si registrano le ragioni, le speranze, le delusioni del lettore-raccoglitore, che resta sempre legato alla vita e aspetta dalle occasioni di ricavare le verità che contano. Nel caos vivente della biblioteca, che ricorda un poco il «disordine mentale» di cui parla Hayek, quando descrive la condizione nella quale ha prodotto le sue cose migliori, si trovano in certi momenti delle regole, delle simmetrie, delle rispondenze; allora il disordine lentamente si anima, come una specie di spazio che dall'oscurità passa alla prima luce e dal chiarore dell'alba al giorno pieno. Quando la propria biblioteca esorbita dai luoghi deputati e invade ogni spazio domestico può naturalmente diventare un problema per coloro che vivono con te. In casa mia questa situazione ha dato luogo a una battaglia giurisdizionale con mia moglie, che non ha mai avuto fine. Come per ogni aspetto del nostro appartamento, avrebbe desiderato che anche i libri fossero «in ordine». Non perdonò mai a padre Pozzi di aver detto una volta, affacciandosi sulla soglia del mio studio, «Che bella biblioteca!». Ma era proprio il cumulo dei volumi affastellati, l'immagine quasi di un organismo vivente che si presentava allo sguardo partecipe dell'amico studioso a sedurlo, del tutto indifferente al fatto che i libri fossero o meno a posto. Anzi. Il libro fuori posto è sempre una sfida per colui che si avventura nella ricerca, con l'ansia e la felicità di ritrovare ciò che era solo nascosto, e sembrava perduto. La biblioteca diventa allora una sorta di foresta e il lettore un cavaliere errante che ripercorre vecchie leggende, vecchie storie, vecchie illusioni, con il desiderio di un ordine sempre conteso e mai raggiunto sino in fondo. Quando le dita percorrono gli scaffali, alla caccia del volume perduto, se ne ricordano i colori, i caratteri esterni della collana; ma poi accade di confonderli, ci viene il dubbio di cercarlo con un colore mentre ne aveva un altro, e allora tutto diventa aleatorio e qualche volta è proprio il caso a condurci alla meta. È come giocare a guardie e ladri in un labirinto: si vuole un libro, non lo si trova: si rinuncia. Si ricomincia con altri libri, ma di questi, tre sono scomparsi; è una sorta di maledizione, che si scioglie o con la resa, o con la felicità del ritrovamento. Succede poi spesso — ed è una cosa singolare — che, quando si cerca un libro, ci si affacci alla mente una serie di rapporti possibili; allora, dalla ricerca di A si passa a B, C, D... E talvolta è disperante, perché si ha la sensazione di vagare senza costrutto, finché un segno positivo non suggerisce una traccia da seguire, grazie alla quale i conti della nostra quéte finalmente tornano, anche se non è più A che abbiamo trovato. Allora B o C o D emergono dal silenzio e dalle pieghe dell'oblio, come la voce di un Lazzaro che torna a discutere. Perché la biblioteca è un luogo continuo di rinascita: da un verso celebra il tempo e forse ciò che lo distingue, la morte; ma dall'altro è la vita che irrompe. La biblioteca è un dominio pieno di mistero dal quale attingiamo una realtà più profonda: dalla polvere del passato ricaviamo ragioni del presente; ciò che pareva immobile, consegnato all'inerzia del già vissuto, si modifica secondo le nostre prospettive di oggi. Essa diventa così il luogo della stabilità e della metamorfosi, della protezione e del rischio; è il mutamento in ciò che continua, è il vegliardo e il giovane, è l'apertura verso qualche cosa che attraversa il tempo e i suoi confini lineari. In un certo senso, ogni biblioteca è popolata da fantasmi che, possiamo pensare, durante la notte riprendono la parola, in attesa che i viventi la rifacciano propria, un po' come le mummie nel Federico Ruysch. Sono le voci dei libri. Alcuni di questi, di voci ne hanno due. Sono i libri che nascono da un dono, che sono una dichiarazione di amicizia, che sono, anzi, all'origine, la verifica di un'amicizia, vissuta attraverso piccole emozioni e rinnovata dall'idea e dalla parola di un grande scrittore. E così che quei libri hanno due voci: la voce propria, grande, che fa piacere riascoltare quando ci si sente sciocchi, poiché la distanza è tale da giustificare il nostro essere sciocchi; e la voce che si aggiunge, piccola e domestica, che racconta la storia di quel libro, la trama delle emozioni che l'ha reso nostro per sempre. |