Copertina
Autore Fabrizia Ramondino
CoautoreRenate Siebert, Assunta Signorelli, Ugo Panella [fotografie]
Titolo In direzione ostinata e contraria
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 2008 , pag. 172, ill., cop.fle., dim. 21x20x1 cm , Isbn 978-88-7937-418-7
LettoreFlo Bertelli, 2008
Classe psichiatria , fotografia
PrimaPagina


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Indice


Scarti di speranza
di Assunta Signorelli                                        5

Vite catturate, vite rubate
di Renate Siebert                                           39
  1. Il contesto                                            44
  2. «Avevo preso il sole con le mani, credetemi»           49
  3. «In mezzo ho fatto uno sbaglio e mi sono trovata qua»  59
  4. «Si è fissato con me questo Andreotti,
     mi vuole vedere proprio morta!»                        62
  5. «Piano piano passarono undici anni»                    65
  6. «Un'infanzia maledetta ho avuto io»                    70

Serra d'Aiello
80 immagini di Ugo Panella                                  77

Il ragno nero
Postfazione di Fabrizia Ramondino                          161


 

 

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Scarti di speranza
Viaggio dal "San Giovanni" di Trieste
al "Papa Giovanni" di Serra d'Aiello


di Assunta Signorelli



Vede, la cosa importante è che abbiamo dimostrato che l'impossibile diventa possibile... Magari i manicomi torneranno ad essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma a ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale.

FRANCO BASAGLIA. Rio de Janeiro. 28 giugno 1979


Statale 18, Tirrenia Inferiore, al Km 351 dal luglio del 2006 quasi ogni giorno, un semaforo mi dà il verde per girare a sinistra, raggiungere Serra d'Aiello e lasciare la Salerno-Reggio Calabria, ben conosciuta in Italia per le citazioni di Onda Verde, il programma radiofonico degli automobilisti, come strada interrotta per incidenti, piccole frane, allagamenti, o, quando va bene, per il traffico intenso e rallentato.

Da questo momento, superato il paese di Campora, sarò quasi sola ad arrampicarmi per circa 7 km in mezzo ad uliveti e campi pieni di fiori selvatici.

Il viola, in tutte le sue gradazioni, è il colore dominante tra i fiori e questo mi tranquillizza: da sempre, il viola è il mio colore e ritrovarlo lungo la strada mi pare un buon segno; nonostante gli studi e l'età continuo a lasciarmi trasportare dalla smorfia napoletana. Il mio dna è marcatamente "sudicio" (in opposto al nordico) e a nulla è servita un'educazione rigida e severa: piccole superstizioni e gesti scaramantici sono parte del mio quotidiano cui non potrei, né voglio, rinunciare.

E allora il viola dei fiori mi accompagna, c'è silenzio intorno, nulla a che vedere con la statale 18, è proprio un altro mondo: lì bambini vocianti, macchine ferme sul ciglio della strada che vendono verdure e frutta; d'estate, poi, bagnanti ed ombrelloni la fanno da padroni, costringendo chi guida a improbabili gimkane.

Qui, sulla salita, solo qualche casa isolata, con pochi segni di vita: a volte s'incontra un trattore che esce dai campi o qualche camion che trasporta merci varie.

Curva dopo curva, continuo a salire fino in cima dove la strada si biforca costeggiando un muro convesso, di pietra, quasi un muro fortificato, se non fosse per le finestre ampie in alto e per alcuni archi che in basso lo interrompono.

Senza accorgermene sono nel paese di Serra d'Aiello; alcune case prima della grande curva potevano, per i gerani alle finestre e i panni stesi, far pensare ad un insediamento abitativo. In verità, prima di quelle case, il cartello con il nome c'è, ma quasi si confonde con il paesaggio e poi proprio non ci si aspetterebbe un paese così decentrato, in mezzo ai monti e ai campi, senza riferimenti storici o un suo prolungamento sul mare, come avviene per tutta la costa tirrenica.

Segnali blu, un po' vecchiotti e rovinati, indicano a destra la strada per Cosenza, un cartello bianco diretto a sinistra porta la scritta «Istituto Papa Giovanni XXIII».

L'istituto occupa più della metà del paese: un grande muro, sovrastato da una rete metallica, abbraccia un ampio spazio verde con tre grandi edifici che, nella sequenza di finestre e piccoli balconi, alcuni con panni stesi, evocano più i grandi casermoni delle periferie cittadine che non i padiglioni di un ospedale. Soltanto le reti alle finestre, molte ormai rotte e arrugginite, e le urla che riempiono l'aria, segnalano da subito che dietro quelle reti vive un'umanità altra.

Un supermercato, un negozio di fiori e l'ufficio postale situati dall'altra parte della strada rispetto al cancello d'ingresso, che interrompe il muro di cinta, completano il paesaggio e collocano l'istituto al centro del paese.

Dopo il cancello il muro continua perdendosi in un viottolo in fondo al quale si trova il cimitero. Cimitero che accoglie anche persone dell'istituto, portati qui nell'indifferenza di tutti, in loculi senza nome e senza un fiore, addirittura c'è chi racconta che in alcuni loculi potrebbe aver trovato posto più di un corpo, e questo, conoscendo bene l'ambiente e le dinamiche istituzionali, non meraviglia: a che serve una lapide in cimitero per chi non ha vissuto?

La storia di Serra e dell'istituto è tutta qui: questa disposizione logistica degli edifici, il dispiegarsi di piccole case ad uno o due piani, circondate da piccoli appezzamenti di terreno coltivati ad orto o a giardino, abitate in maggioranza dai lavoratori e dalle lavoratrici della struttura, narra di un paese cresciuto intorno all'istituto, e che da esso ha tratto linfa per il suo sviluppo. Basti dire che la popolazione residente supera di poco le 850 anime e di queste circa 180 sono ospiti del "Papa Giovanni"!

A questo penso mentre aspetto che il cancello si apra per farmi entrare. Sono alla fine del viaggio: ma quale viaggio?! Non solo quello intrapreso questa mattina per venire in istituto, ma anche l'altro iniziato tanti anni fa quando, ancora presenti i postumi del '68, mentre ci si interrogava sul che fare, la lettura dell'Istituzione negata mi aveva portato nel manicomio di Parma per iniziare la mia lunga marcia nelle Istituzioni totali.

Era il dicembre del 1970 quando, dopo una notte in treno, varcavo il portone del manicomio di Parma per un incontro con il professor Franco Basaglia: avevo preso appuntamento, era bastato telefonargli, presentarmi e chiedergli di parlare circa le possibilità per me, studentessa del quarto anno di medicina, di lavorare con lui nel manicomio.

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Vite catturate, vite rubate


di Renate Siebert



                                                Sono molto
                                                irrequieta
                                                quando mi legano
                                                allo spazio.

                                                ALDA MERINI



Su invito di Assunta Signorelli sono stata a visitare a più riprese l'istituto "Papa Giovanni XXIII" di Serra d'Aiello, tra giugno e luglio del 2007, e ho potuto incontrare alcune persone ricoverate. Due donne, Mariannina e Luisella, e due uomini, Giovanni e Domenico, che hanno accettato di conversare con me. Inoltre, ho avuto l'occasione di ascoltare la storia di una madre, Giovanna, che ha quattro figlie, tutte ricoverate lì da molti anni. Non è facile entrare in una realtà tanto stigmatizzata dal nostro comune sentire, incontrare persone che, insieme, ci appaiono del tutto normali ma che sono, nello stesso tempo, socialmente definite come "altro", e che vivono in modo vistoso una vita separata, segnata da ritualità quotidiane che sono diverse da quelle alle quali siamo abituati. In un primo momento la separazione degli spazi istituzionali da quelli del paese circostante appare sfumata: già nelle vie intorno alla struttura vedo alcuni pazienti a spasso o seduti su muretti, gradini o ai bordi della via. Li riconosco dai loro gesti ripetitivi, dal fatto che palesemente non hanno una meta, non sono impegnati in un'attività particolare. Si avvicinano per chiedere una sigaretta o qualche spicciolo per un caffè. Sono gentili, alcuni hanno l'aria sottomessa, avanzano a testa bassa e inclinata, soli; altri sembrano prendersi gioco di noi. Tutti sono uomini, perché le donne, come mi raccontano dopo le mie interlocutrici, non possono circolare da sole, né fuori dalle mura, né nei giardini interni all'istituto. Il cancello è aperto, oltre ai ricoverati a spasso c'è un costante via vai di persone, con o senza un camice, che evidentemente lavorano qui. Sopra l'ingresso centrale di uno degli imponenti palazzi a sei piani che compongono la struttura c'è una grande terrazza in cemento, spoglia, sulla quale si aggirano alcuni uomini che soffrono di disagi psichici e fisici consistenti. Fa molto caldo e loro passano le ore guardando e commentando il via vai giù di sotto. Alcuni sono assorti, non sembrano partecipare a ciò che accade attorno a loro, qualcuno è in sedia a rotelle, ha posizioni contorte. Le finestre di questo piano, e di quelli più sopra, sono chiuse da inferriate: è il luogo dei pazienti gravi. Ma dietro le grate appaiono delle facce, un uomo che gesticola e chiama. Vuole farsi vedere da Ugo, il fotografo col quale siamo venuti e che è molto amato e festeggiato perché è venuto già più volte e ha regalato alcune delle foto scattate. Ha cercato di dare a ognuno/a o quasi la sua propria foto. Questa "restituzione", un gesto umano di riconoscimento e di dignità, gli ha procurato grande stima tra i malati, in particolare, sembrerebbe, tra quelli più disperati e dimenticati. Tutti lo vogliono salutare, toccare, chiedono altre foto ancora. Il suo arrivo procura piacere, crea socialità e comunicazione. Quasi una festa.

Più tardi, con Ugo e qualche educatore, entriamo nel padiglione delle inferriate. Mentre Ugo, tra uno scatto e l'altro, gioca a pallone con un giovane dall'aria di un guerrigliero — fascia da Rambo sulla testa, uno sguardo che non riesco a decifrare, e il loro gioco è duro, perché, come Ugo mi spiega dopo, l'altro s'arrabbia se sente che non si gioca su serio — mi faccio un giro nel reparto. Stanze spoglie di tutto, solo con i letti in ferro. Molte porte sono sfondate, alcuni vetri delle finestre sono rotte. Un ambiente desolato e desolante. In fondo al corridoio una sala dove si mangia. L'idea che tutta la vita di questi uomini, giorno per giorno, anno dopo anno, si svolga qui, in questi pochi metri di cemento brutto con le finestre sbarrate, mi dà panico. Mai un contatto con la natura, il verde, la sabbia, un pavimento che non sia di cemento... I malati, per definizione "pericolosi", appaiono mansueti, rassegnati. Penso che questo, in parte, possa essere dovuto alle tante medicine che prendono. Solo uno dei ragazzi, piuttosto giovane, si avventa sulle mie mani, o meglio sui due anelli che porto. Vorrebbe togliermeli per averli per sé. Al mio imbarazzo e rifiuto si getta per terra e piange, ma non reagisce in modo violento verso di me. Con mio grande sollievo, dopo non molto, usciamo per andare a un altro padiglione, sempre di uomini, ma non chiuso. Anche qui, però, solo muri spogli, cemento e sui visi dei più espressioni rassegnate. In particolare mi colpisce un ragazzo, piuttosto giovane, con un'aria dolce, che è sdraiato sul suo letto, rannicchiato, con un casco da motociclista in testa. L'educatore spiega che è lui stesso a chiedere il casco, e lo tiene giorno e notte, perché è affetto da epilessia. Una misura di autodifesa, sembrerebbe, di protezione da se stesso, insomma. Un malato "pericoloso a sé e agli altri", come recitava una legge del 1904? Mi è difficile volgere lo sguardo altrove, continuo a vedere l'espressione del viso e gli occhi scuri, dolci e espressivi del ragazzo. Anche qui mi colpisce in modo particolare la dimensione del tempo, il tempo dello stare, del sostare senza meta, senza prospettiva. Ha l'aria di un'attesa infinita, ma un'attesa di che cosa? Mi viene in mente ora Domenico, dall'aria del gigante buono, che mi ha confidato nella nostra conversazione che teme soprattutto l'attesa, e non per caso. Doveva stare a Serra d'Aiello per sei mesi, ormai è qui da sei anni: «Ogni tanto vado in palestra, vado alla musica, dopo passo avanti, indietro... Io, sapete di cosa ho paura? Di aspettare. Avete capito che voglio dire io? Tutto questo è. Per aspettare molto, per una cosa, di aspettare... quella è la cosa mia».

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Se penso al lavoro di Assunta dal '70 a oggi, non solo a Trieste dove si è formata con Basaglia, ma in giro per l'Italia e per il mondo a scovare e denunciare la malapsichiatria e a tentare, nei limiti delle sue forze, e spesso ben al di là di esse, di porvi rimedio; e soprattutto se penso a quello che svolge da circa due anni a Paola e ai suoi andirivieni nella ragnatela delle istituzioni, degli addetti ai lavori, dei ricoverati e delle loro famiglie (quando esistono), e al suo lavoro certosino al "Papa Giovanni", dove si è chiusa per mesi, dedicandosi all'osservazione dei ricoverati, degli psicologi, degli infermieri, alla ricostruzione delle storie dei pazienti, di cui nessuno prima si era curato, al suo tentativo di vedere, capire, osservare, prima di agire e parlare, mi viene in mente uno dei maggiori esperti dei meccanismi del potere e della burocrazia che tendono ad annullare l'essere umano: Franz Kafka, che oltre a scrivere nel tempo libero, cioè di notte, per tredici anni, fin quando l'aggravarsi della tubercolosi, di cui è morto poco dopo, non glielo ha impedito, ha lavorato come funzionario dell'Ufficio contro gli infortuni sul lavoro dell'Impero austro-ungarico e, dopo la guerra, della Boemia. Era un funzionario che alla passione per il suo lavoro univa l'indignazione, alla diligenza la denuncia, alla routine l'innovazione: per anni ha girato su trenini a scartamento ridotto, calessi, in motociclette, a piedi per tutti i luoghi più sperduti e impervi della Boemia per scovare grandi e piccole industrie, laboratori artigianali, imprese edili o agricole, mulini o distillerie di alcol, che non rispettavano le leggi contro gli infortuni – e che per altro così evadevano le tasse; disegnando e suggerendo congegni che diminuissero gli infortuni. Scrivendo nelle sue relazioni per esempio: «Il relatore non vuol offendere gli ispettori al lavoro, che sul piano teorico sono sicuramente assai preparati, ma su quello pratico lasciano molto a desiderare. L'incompetenza degli ispettori è dimostrata dal fatto che spesso essi ordinano per i macchinari l'uso di dispositivi di sicurezza che addirittura ne ostacolano il funzionamento, e che di frequente devono essere smontati dagli operai durante il lavoro. Teste e occhi sul lavoro: ecco la migliore protezione contro ogni infortunio». Oppure: «Che cosa mi tocca fare! Nei miei quattro capitanati distrettuali la gente cade come ubriaca dalle armature, precipita dentro alle macchine, tutte le travi si ribaltano, tutte le scarpate si sgretolano, tutti le scale scivolano, ciò che si manda in alto precipita, e si cade dietro a ciò che si fa scendere. E quelle ragazze che nelle fabbriche di porcellana si buttano continuamente sulle scale con pile di stoviglie mi fanno venire il mal di capo». Oppure: «Ho singhiozzato alla relazione del processo di una certa Marie Abraham, ventitreenne, la quale, per fame e miseria, ha strangolato la figlia Barbara, una bambina di quasi nove mesi, con una cravatta da uomo che le faceva da reggicalze e che ella si era sciolta». E infine, in piena prima guerra mondiale, quando Praga si riempiva di reduci di guerra, feriti nel fisico oltre che nei nervi: «Così come nelle fabbriche con l'impiego delle macchine, i nervi delle persone addette al loro funzionamento, sono stati messi in pericolo, scossi e danneggiati, così la componente meccanica, smisuratamente accresciuta, delle odierne operazioni belliche, è stata fonte di gravissimi pericoli e danni per i nervi dei combattenti... Nel giugno del 1916 si potevano contare in Boemia più di 4000 invalidi di guerra affetti da malattie nervose». Propone quindi un'associazione per l'istituzione e la gestione di una casa di cura per malattie nervose a beneficio dei combattenti.

Se Kafka lavorava sugli infortuni sul lavoro e su quelli provocati dalla guerra, Assunta lavora sugli infortuni provocati dalla vita in toto, di cui gli infortuni sul mestiere di vivere e sulla guerra per sopravvivere fanno parte.

Che fare allora? Fare come fa Assunta, come fece Kafka. Intanto. Ma poi? Se Kafka nel suo pessimismo, venato da umorismo tragico, non vedeva alternative all'oppresso che tra «il giardino zoologico o il variété», offrirgli invece la opportunità di fare parte con tutti i diritti e i doveri della comunità umana normale. Ma è normale questa comunità umana? Non è essa stessa, in Calabria, in Italia, nel mondo globalizzato, simile a un giardino zoologico o a un variété? Pure, continuare a lottare perché non sia così, perché ogni iniziativa contro questa direzione più che somigliare a una goccia nel mare, somigli a un'onda, preceduta da altre e da altre seguita, che aiutino l'uomo ad approdare.

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