|
|
| << | < | > | >> |Indice7 Introduzione di Giovanni Sabbatucci LA SINISTRA E I SUOI DILEMMI 21 Bernstein e le radici culturali del socialismo liberale 23 Weber e il radicalismo ideologico 25 Il fine è nulla 29 La democrazia e il superamento della visione rivoluzionaria 31 Socialismo erede del liberalismo 32 Turati e la tradizione socialista italiana 37 Le intuizioni di Antonio Gramsci 39 Carlo Rosselli e il socialismo delle libertà 42 Togliatti e il comunismo italiano 45 Come fu dissipato anche «lo straccio di speranza» del centro-sinistra 50 I socialisti di Craxi e il PCI di Berlinguer: l'ultimo duello 58 La prima presidenza socialista della storia d'Italia e i dilemmi del PCI 60 Destini incrociati: la fine del PCI e il collasso del PSI 65 Un paradosso: i comunisti riformisti. La figura di Giorgio Amendola 74 Il riformismo mimetizzato 77 I nuovi riformisti e l'Europa 80 Il crollo del sistema politico, la gioiosa macchina da guerra, la discesa in campo di Berlusconi 84 Il centro-sinistra al governo: ascesa e caduta. Il governo D'Alema 91 Il ritorno del centro-destra, il Congresso di Pesaro e le invettive di Moretti 100 Le difficoltà del paese e l'inadeguatezza del governo 106 La proposta della lista unitaria dei riformisti 108 Il crollo di Forza Italia 118 Considerazioni conclusive 127 Bibliografia |
| << | < | > | >> |Pagina 17C'è una debolezza strutturale del riformismo socialista nella sinistra italiana. Debolezza dovuta all'assenza nella sua storia di un solido filone culturale di socialismo revisionista di stampo europeo. La sinistra italiana è stata portatrice di un riformismo pratico cui non ha corrisposto una riflessione culturale coerente. Ciò ha indebolito la sua stessa pratica riformatrice. Ne ha pagato il prezzo l'Italia, che non ha potuto contare su un'esperienza di modernizzazione analoga a quella guidata in altri paesi d'Europa dalle socialdemocrazie.Le conseguenze di lungo periodo di una tale situazione si scontano ancora oggi. L'Italia resta l'unico paese d'Europa in cui, persino dopo un quinquennio di governo del centro-sinistra, si ritiene non plausibile la candidatura di una personalità della sinistra alla guida della coalizione; il paese d'Europa in cui, più che in altri, un'area radicale e massimalista influenza il profilo e le posizioni della sinistra; l'unico paese europeo in cui la prospettiva di una modernizzazione della sinistra si pone non come processo interno di cambiamento ma nei termini di fusione con filoni e tradizioni lontani. Sono questi gli aspetti di una persistente debolezza della sinistra nel nostro paese, le cui origini vanno rintracciate nell'antica e profonda ostilità alla socialdemocrazia diffusa nella esperienza storica della sinistra italiana. È ormai indiscutibile che quello riformista sia il solo punto di partenza di una sinistra che intenda avere una funzione politica nel secolo che si apre. Non è stato semplice giungere a una tale consapevolezza nel nostro paese. Storicamente è mancata all'Italia una sinistra dotata della cultura politica originata dalla grande tradizione socialdemocratica. Quella che da Bernstein all'incontro con il liberalismo di Beveridge e con le teorie di Keynes, fino all'opera delle socialdemocrazie di governo degli anni sessanta e settanta, è stata all'origine del welfare state e dell'impresa vincente della riforma del capitalismo. A tutto ciò, per una lunga fase, la sinistra italiana è rimasta estranea. Probabilmente il PCI avrebbe potuto liberarsi prima, e in modo diverso, dai vincoli e dai lacci che lo tenevano chiuso nel campo sbagliato. Eppure esso giunse alla scelta riformista solo quando la storia si era incaricata con prove incontrovertibili di indicare dove fosse il torto e dove la ragione nel duello che aveva opposto nel corso del Novecento le due anime della sinistra. Gli studiosi discuteranno a lungo del ritardo con cui esso giunse a riconoscere le ragioni della socialdemocrazia e delle conseguenze che ne sono derivate per la storia della sinistra e dell'Italia. Non convince l'argomento secondo il quale le caratteristiche originali della storia nazionale fornirebbero le spiegazioni e le motivazioni dei limiti della sinistra: il particolare carattere di arretratezza della formazione economico-sociale dell'Italia – esistenza di una questione meridionale e grettezza della borghesia nazionale – avrebbe condizionato lo sviluppo della cultura riformista del movimento operaio. È una tesi che si fonda su un eccesso di storicismo che finisce per nascondere le ragioni soggettive dei ritardi della sinistra. È come se si sostenesse che le responsabilità del deficit riformista della sinistra italiana siano state non dei gruppi dirigenti politici e della loro cultura ma della storia d'Italia. La verità è un'altra. Il gruppo dirigente che ha guidato il partito comunista dalla fine degli anni settanta non aveva alcuna ragione per negare e contrastare l'approdo socialdemocratico. Eppure, esso pervenne alla svolta non sulla base di una revisione critica della vicenda comunista italiana ma perché indotto da fattori esterni inarrestabili. È tuttavia indubitabile che una parte delle responsabilità per i ritardi tocchi agli intellettuali di sinistra. Per decenni essi si sono arrovellati nel tentativo di delineare un corredo di concetti che evitasse di riconoscere le ragioni del riformismo. Di qui la discussione tra riformisti e riformatori, tra il riformismo debole e quello forte. Una discussione sul sesso degli angeli destinata a fornire argomenti per non definirsi socialdemocratici. Oggi sembra che la sinistra italiana abbia smesso di baloccarsi con tali sofismi e sia pronta a dichiararsi senza ambiguità riformista e socialdemocratica. Eppure non tutti i problemi sono risolti. Per molti dei suoi recenti sostenitori la scelta del socialismo democratico è una sorta di ultima spiaggia, la garanzia residua di un legame con le tradizionali issues del partito comunista, con l'orizzonte di interessi sociali e le dosi di antagonismo e diversità che le alimentavano. Non solo. C'è chi sostiene che dal punto di vista storico il riformismo, nel corso del Novecento, si sia distinto dal comunismo solo nei mezzi: il gradualismo e il rifiuto della violenza. Non è andata così. La netta assunzione della democrazia liberale e dell'economia di mercato come valori orientativi dell'azione riformista ha segnato una distanza tra riformisti e comunisti che ha riguardato anche i fini ultimi e non solo i mezzi per arrivarci. Una osservazione merita l'affermazione – invalsa nella discussione interna ai DS – secondo la quale il riformismo non è sinonimo di moderatismo. Non è la destra della sinistra, sostengono alcuni alla ricerca di formule rassicuranti per esorcizzare il timore di essere percepiti come moderati. Si tratta di preoccupazioni del tutto prive di fondamento. Il riformismo socialista è stato l'artefice, in gran parte dell'Europa nel corso del Novecento, di una straordinaria trasformazione dell'economia e degli assetti sociali. Altro che moderatismo! Non è da escludere che, giunti buon ultimi a dichiararsi riformisti, nella sinistra italiana si cominci con nuovi sofismi e con l'assillo di accompagnare la scelta riformista alla proclamazione che non si intende rinunciare al carattere radicale e antagonista della sinistra. Il rischio che si ritorni per questa via agli eterni dilemmi che hanno per decenni condizionato e paralizzato la sinistra italiana non è da sottovalutare. Andiamo quindi al sodo. Il riformismo è la ricerca del cambiamento possibile. La sua missione è creare un accettabile compromesso tra le esigenze del progresso tecnico, la valorizzazione dell'impresa, le aspirazioni alla sicurezza e ad eguali opportunità. Il vero problema è schierarsi senza imbarazzi e reticenze con lo sforzo teso a mettere il pensiero riformista in sintonia con la realtà e le domande del mondo di oggi. La storia italiana del Novecento è stata da varie parti indagata come caso particolare di debole o mancato riformismo. Le ragioni di ciò vanno ricercate nelle tare strutturali del capitalismo italiano e nei caratteri dei suoi gruppi dirigenti. Ma alla debolezza del riformismo italiano hanno contribuito, fortemente, il limite culturale di una sinistra che è giunta tardi e male a riconoscere il riformismo come proprio orizzonte ideale e il limite politico della divisione tra i due partiti storici della sinistra. La svalutazione del riformismo del resto ha radici profonde e antiche nella sinistra del nostro paese. Gli anni venti creano in Italia una grande cesura. L'avvento del fascismo è vissuto da quasi tutta la sinistra come prova dell'inanità e della fragilità teorica e pratica del riformismo. Anche la cultura idealistica contribuì a tale svalutazione. Per Croce e Gentile il socialismo di Turati e il riformismo erano una ideologia della passività, la proiezione politica del positivismo e del mito scientista. La riflessione revisionista in Italia a cavallo tra Ottocento e Novecento avrà come suo leader intellettuale Benedetto Croce; in Germania invece sarà alimentata dal pensiero di Eduard Bernstein. Mentre la critica crociana al marxismo si indirizza rapidamente verso la radicale messa in discussione del socialismo di cui Croce dichiarerà la morte anche nella sua conformazione riformista, l'opera di Bernstein introdurrà, con un secolo di anticipo, tutti i temi che diverranno costitutivi della cultura riformista. La revisione di Bernstein potrà intravedere soltanto le complesse novità morfologiche del capitalismo che prenderanno avvio negli anni trenta e quaranta del secolo scorso e tuttavia la forza di anticipazione e di innovazione del suo pensiero, l'intuizione dei cambiamenti di tematiche che si imponevano ai partiti socialisti nel contesto delle democrazie avanzate appariranno straordinarie. | << | < | > | >> |Pagina 118A orientare gli sforzi nella direzione della costituzione di una Federazione riformista dovrebbe essere la consapevolezza che il nostro paese è giunto ad un bivio. Se non saranno affrontati i nodi di fondo economici e istituzionali che ne condizionano il futuro, il rischio di un decadimento incomberà sull'Italia. In una fase in cui – scrive Valerio Castronovo – contano sempre più le tecnologie, le dinamiche competitive globali e i fattori istituzionali, il capitalismo italiano sta pagando le conseguenze di una configurazione troppo sbilanciata dalla parte delle piccole imprese non più in condizioni di ripetere gli exploit del passato, sia perché sempre più in difficoltà di fronte alla concorrenza del Far East, sia perché l'euro forte ha limitato le loro proiezioni commerciali fuori dai circuiti europei. Ancor prima della bassa congiuntura economica manifestatasi all'inizio del 2000 l'Italia ha accusato una pesante perdita di posizioni e competitività a livello internazionale. Dal 1995 al 2001 il saggio di crescita del PIL è risultato complessivamente più basso della media europea e l'Italia continua a figurare tra i fanalini di coda, nell'ambito OCSE, quanto a produttività ed export, ricerca e innovazione tecnologica, investimenti in capitale umano e infrastrutture. Il paese può fare affidamento su un buon nucleo di medie imprese ma anche le potenzialità di queste imprese saranno prima o poi ridimensionate se non troveranno il supporto di un contesto economico nazionale più consistente e dinamico. E questo richiede adeguate riforme strutturali che rendano meno pesante il carico fiscale sugli investimenti produttivi, più agile il funzionamento del mercato del lavoro, più efficiente l'amministrazione pubblica, minore l'incidenza della spesa corrente, più consistenti i finanziamenti per ricerca e sviluppo. È la complessa impresa riformatrice che il centro-sinistra, alla luce del fallimento dei propositi riformatori del centro-destra, dovrebbe mostrarsi in grado di avviare. La questione già si pose con l'esecutivo guidato da Romano Prodi nella seconda metà degli anni novanta. Il governo di centro-sinistra tra il 1996 e il 2001 con la stabilizzazione consensuale avvenuta in un quadro di concertazione realizzò le precondizioni macroeconomiche perché l'economia italiana potesse competere nelle nuove condizioni di integrazione europea e di internazionalizzazione crescente delle attività economiche. E tuttavia bassa inflazione, conti in ordine e una bilancia commerciale soddisfacente sono condizioni necessarie, non sufficienti. Occorre affrontare quei nodi regolativi, come li definisce Michele Salvati, da cui dipende la competitività complessiva dell'economia e la crescita dell'occupazione. Ciò vuoi dire fare le riforme. Questo è il problema irrisolto della situazione italiana. Una ricerca non reticente delle ragioni che, non solo in Italia, indeboliscono l'effettiva capacità riformista della sinistra condurrebbe, per quanto riguarda il tema delle riforme economico-sociali, alle difficoltà che incontra il sindacato a risolvere in un modo accettabile il dilemma tra la funzione tradizionale di difesa delle garanzie dell'edificio sociale europeo e la capacità di contribuire a disegnare una riforma di tale edificio fiaccato dall'usura del tempo, dai cambiamenti sociali, demografici e delle aspettative intervenuti. Il welfare italiano, scriverà De Rita, «è lontano da chi ne ha bisogno, è fatto per chi ha già un reddito elevato. E la sinistra sembra non accorgersene». Questo tema si pone in Italia come in Francia, in Germania come in Gran Bretagna. Certo, le ragioni delle difficoltà a concepire un'efficace politica di riforme da parte del centro-sinistra si collocano nel quadro di una crisi del modello socialdemocratico affermatosi in Europa nei decenni scorsi. Carlo Trigilia ne scriverà con grande lucidità in un saggio pubblicato dal Mulino nella primavera del 2002. Quel modello riusciva a tenere insieme sviluppo economico e coesione sociale all'interno di Stati nazionali con economie aperte ma ancora fortemente radicate nella dimensione nazionale. La crescente difficoltà di controllo della spesa sociale e la progressiva apertura internazionale delle economie modificano le condizioni che avevano consentito l'espansione di quel modello. Occorrerebbe, conclude Carlo Trigilia, una nuova ricetta capace di ricollegare sviluppo, occupazione e coesione sociale. Ma occorrerebbe soprattutto un cambiamento molto rilevante e difficile da realizzare, nella cultura politica della sinistra, «si tratta in pratica di passare da una concezione statica della uguaglianza sociale basata sulla redistribuzione ad una concezione dinamica nella quale un maggior grado di disuguaglianza può essere accettabile nel presente, se permette un miglioramento delle opportunità nel corso della vita individuale». Dilemmi ardui da affrontare in un quadro nel quale «i tempi della politica sono sempre più brevi rispetto a riforme la cui resa è a medio e lungo termine e mentre il populismo è pronto a sfruttare opportunisticamente la situazione». Su questi nodi cruciali la sinistra europea si impegnerà in modo insufficiente e discontinuo. Eppure essa, tra la fine degli anni novanta e l'avvio del nuovo secolo, ha guidato ben tredici paesi dei quindici che costituivano la Unione europea. La sensazione è che una occasione per mostrarsi all'altezza delle sfide imposte dai cambiamenti sia andata perduta. Su quella esperienza andrebbe condotta una seria riflessione. Il primo ambito di verifica dell'azione di governo dei socialisti dovrebbe riguardare l'Europa. Il raggiungimento dell'obiettivo della moneta unica ha caratterizzato l'azione di governo dei socialisti a cavallo del nuovo secolo, ma insufficiente tra i socialisti è stata la consapevolezza della urgenza della costruzione politica dell'Europa. D'altra parte solo agendo come soggetto politico l'Europa potrebbe nutrire l'ambizione di indurre nei processi di globalizzazione il segno caratterizzante dei principi di apertura, tolleranza e civiltà nelle relazioni internazionali che informano il corredo di valori dell'Europa del dopoguerra. Il secondo limite dell'azione dei socialisti è da rintracciare nell'assenza di ogni serio tentativo di definire una visione comune per quanto riguarda le riforme da avviare nelle economie europee per porre le condizioni di una crescita duratura della competitività e dell'occupazione.
Se questa è la portata dei problemi appare del tutto fatua la formula
secondo cui la sinistra dovrebbe essere, per corrispondere meglio alle sfide dei
nostri tempi, riformista e radicale insieme.
|