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| << | < | > | >> |IndiceScoperte e riscoperte Il tempo spensierato dei libri senza autore 9 Il secolo del talento femminile 28 La scrittura e altre passioni Edith Wharton 49 Anna Achmatova 53 Marina Cvetaeva 59 Nina Berberova 68 Elizabeth Bishop 74 Mary McCarthy e Marguerite Yourcenar 78 Barbara Pym 94 Etty Hillesum 99 Marguerite Duras 106 Carson McCullers 115 Magda Szabó 121 Muriel Spark 124 Zhang Ailing 132 Wislawa Szymborska 138 Flannery O'Connor 145 Ingeborg Bachmann 151 Alice Munro 161 Sylvia Plath 167 Agota Kristof 180 Jamaica Kincaid 184 Da un paese lontano Elsa Morante sposa Moravia 191 Anna Maria Ortese non era una zingara 201 Alice Ceresa, la figlia prodiga 211 Il destino interiore di Cristina Campo 215 Scrivere con il corpo Su alcune fotografie di Frida Kahlo 229 Frida e Trotzkij 237 Il bagno di Frida 242 Il poeta che ascoltava le donne Ovidio e le eroine dell'abbandono 247 Immagini 257 I libri di cui si parla 259 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Per molto tempo ho creduto che i libri non avessero autore. Pensavo che si scrivessero da sé. Ho cominciato a leggere libri la sera, prima di addormentarmi, verso gli otto anni. Quand'ero più piccola, mia madre o mio padre mi raccontavano una storia oppure me la leggevano per convincermi a dormire, che non era impresa facile. Ma presi quell'abitudine anche per un'altra ragione: tutti a casa mia leggevano. Mia madre, che era la grande lettrice, amava i grandi contemporanei, mio padre cercava di tenersi aggiornato sulle novità che si pubblicavano in Francia, il paese in cui aveva fatto gli studi superiori. Inoltre era lui che possedeva le chiavi della biblioteca di famiglia, non molto vasta, ma invece molto decorativa, perché si trattava di volumi ottocenteschi e di inizio Novecento con delle eleganti rilegature — rosso bordò, blu notte, verde scuro, amaranto, castano, azzurro, rosso fiamma — talvolta arabescate di caratteri d'oro. Quei volumi stavano dietro le grate arricciolate di un bel mobile antico a tre ante, orgogliosi testimoni di una sapienza perduta in quel nostro confuso e disgraziato mondo del dopoguerra. Anche la nonna paterna parlava di libri, ma non so se i suoi orari le permettessero davvero di frequentarli. Usciva al tramonto e tornava all'alba, come i vampiri, e in quelle ore leggeva molto, con competenza anzi direi accanimento, ma soltanto le carte da gioco che erano la passione delle sue notti e della sua vita. L'altra mia nonna, quella materna, che a differenza di noi che stavamo a Napoli viveva a Roma, di libri in generale non parlava mai, ma aveva sempre tra le mani molti santini, o immaginette, con le loro speciali preghiere da recitare, e sfogliava anche qualche testo di catechismo, perché invece la sua passione era la Chiesa. Per fortuna avevo una terza nonna, la mia bisnonna paterna: io la chiamavo semplicemente nonnina, ed era forse la persona allora per me più affascinante dell'intero contesto famigliare. La mia bisnonna, che era una vera gentildonna, sapeva molte storie aristocratiche e altrettante ne trovava in certi volumetti con una incantevole copertina rosa che li faceva sembrare una scatola di zuccherini. Tali scatolette costituivano una parte della sua piccola biblioteca, e sul cartone rosa portavano una parola dal suono squillante e seducente, Delly. Probabilmente quei libri cominciai a leggerli prima ancora degli otto anni, ritenendoli semplicemente un'estensione o un completamento, o un supplemento d'indagine, delle storie di visconti e baroni famigliari che nonnina mi raccontava mentre, come le fanciulle delle fiabe, ricamava accanto alla finestra. (Tra l'altro mi sembravano molto più credibili, le storie dei volumetti rosa, e sensate di quelle del nostro fantomatico casato.) Insomma, in casa, in quegli anni della mia infanzia napoletana, benché tutto cominciasse a latitare – dalla concordia domestica al denaro – i libri invece non mancavano. Non c'erano però quelli per bambini, tranne certi libretti dell'infanzia della mia nonna giocatrice, rigorosamente in francese, tra cui spiccava la serie dei romanzi della Comtesse de Ségur, che non mi piacevano affatto soprattutto perché nelle illustrazioni in bianco e nero c'erano delle bambine bruttissime alle quali per nessuna ragione al mondo avrei voluto assomigliare, tanto più che poi, nelle storie, da vivaci e intraprendenti che erano all'inizio diventavano alla fine addomesticate e smorte come povere bestie da circo in gabbia (a quei tempi, cioè gli anni Cinquanta, andavo spesso al circo: i circhi erano un po' miserabili e dunque piuttosto paurosi, io effettivamente ne avevo paura, e speravo sempre che un giorno le tigri avrebbero mangiato quell'odioso uomo con la frusta che le maltrattava e le umiliava). Comunque, tra tanti libri, non c'erano libri miei (io possedevo solo fumetti, i fumetti di Topolino e C., che però mio padre teneva in gelosa custodia, tanto più che era lui a leggermeli nei nostri momenti di idillio). Fu verso gli otto anni che fui iniziata a quella strana, tormentosa forma di proprietà che è la proprietà dei libri. | << | < | > | >> |Pagina 23Ero tutti e nessuno, bambino e adulto, giovane e vecchio, mare e praterie, animale o pietra. Ero donna ma anche uomo, tanto più che nei libri che cominciai a leggere all'inizio dell'adolescenza, Tolstoj o Stendhal o Conrad per esempio, la questione sessuale si presentava in una forma compatta misteriosa e insindacabile, cioè semplicemente come questione amorosa, nella quale mi sembrava che tutti, per volere superiore, fossero allo stesso modo imbrigliati. (C'era stato qualche libro più sessuale, torbido o volgare, che una compagna di scuola pedagogica mi faceva sfogliare nel gabinetto di servizio di casa sua, così che certe oltranze erotiche rimasero a lungo per me avvolte nell'aroma purificatore del sapone di marsiglia. Ci tengo a precisare che non era il gabinetto di servizio di una casa di lusso: le mie due compagne di scuola preferite abitavano entrambe nei pressi di piazza Fiume a Roma, dove, nel 1962, fu costruito l'avveniristico palazzo della Rinascente che portava una ventata di modernità in un quartiere che era ancora come l'aveva lasciato la guerra, cioè polveroso e malconcio. Entrambe abitavano ad un primo piano piuttosto buio, che dava sul cortile interno, cuore di quei palazzi dall'intonaco screpolato che erano stati costruiti nella prima metà del Novecento senza lussi ma con premura borghese. Per questo c'era il bagno di servizio, che era poco più o perfino poco meno di uno sgabuzzino scuro, e nel suo buio si prestava a essere cabinet di lettura di libri proibiti.)Normalmente leggevo di notte, e la mattina svegliarmi era un tormento. Mi piaceva leggere quasi tutta la notte d'estate, quando finiva la scuola e potevo lasciare le due finestre della mia stanza aperte. L'aria entrava e usciva portando gli odori e i rumori del buio. Il profumo notturno degli alberi, l'essenza indefinibile della polvere calda e umida, il lamento di qualche cane nostalgico o infuriato e le urla stonate dei gatti pazzi di passione e gelosia, oppure il sibilo delle auto che nella strada dove abitavo (a quel tempo una casa diversa da quella del soppalco) non erano frequenti, e alle due o alle tre del mattino insinuavano il fascino di una vita che continuava molto a lungo dopo che le famiglie avevano chiuso le persiane – di quella vita di cui anche i libri facevano parte, una vita piena di suono e di senso, e abitata da molti sentimenti, che capivo, condividevo e non sapevo definire. Amavo i libri lunghi, che duravano molte notti. Amavo quell'intimità particolare che si crea di notte tra un libro e il suo lettore, e ho continuato ad amarla negli anni che sono seguiti: i libri che veramente amo cerco sempre di leggerli di notte. | << | < | > | >> |Pagina 28Il 25 febbraio 1980 Roland Barthes fu investito da un veicolo a rue des Ecoles, di fronte al Collège de France. Proprio lì al Collège de France, due giorni prima, il 23, Barthes aveva concluso un singolare seminario, che aveva intitolato "La preparazione del romanzo". Dico singolare perché Barthes non vi esamina uno o più testi, uno o più autori, ma si propone di indagare il territorio incerto della preistoria di un'opera letteraria – il romanzo nella fattispecie – e dunque il modo in cui si manifestano nell'autore il desiderio e la volontà di scrivere. O, per usare le sue parole: "tutto lo spazio mitico del Voler Scrivere". La sua "lenta analisi di tutti gli sforzi, sacrifici, ostinazioni richiesti dalla letteratura (o la Scrittura) dal momento in cui uno le si dedica" procede attraverso numerose stazioni, che lui chiama le Prove dello Scrivere: tra queste molto rilevante è "l'organizzazione metodica di una vita di scrittura" – con questioni più che altro concrete: come cominciare, vivere soli o in compagnia, in che ore del giorno scrivere, o piuttosto di notte, parlare o non parlare di ciò che si va scrivendo... Per percorrere questo spazio mitico-pratico Barthes si serve in genere di tracce biografiche – diari, lettere, notazioni sparse, confessioni – intervistando, per così dire, gli autori attraverso le loro scritture private: benché si tratti di scrittori assai differenti tra loro – dal monumentale Chateaubriand al fiammante Kafka, dall'ossessivo Flaubert al disciplinato Valery e moltissimi altri – pure viene fuori un quadro piuttosto sistematico, o quanto meno organizzato, di quello stato sospeso che precede l'atto di scrivere, cioè come di una preistoria sì, ma in fondo ordinata e consapevole. Finendo di leggere questo testo, mi sono quasi automaticamente chiesta: ma, condotta sulle autrici, sulle scrittrici – Barthes galantemente non fruga fra tracce femminili – una stessa indagine porterebbe a risultati simili? la preistoria delle loro opere è metodicamente percorribile, ordinatamente rintracciabile? Quando, sotto la spinta della mia vita materiale e di quella collettiva, ho cominciato a leggere molti libri scritti da donne, talvolta con una tonalità affettiva o semplicemente con una domanda in più rispetto ai testi degli uomini, ho cominciato anche a frequentarne le biografie, o piuttosto le autobiografie, i diari, le lettere. Barthes, nel suo corso, dice una cosa molto precisa in proposito, a proposito cioè del suo interesse per "la nebulosa biografica", dice che la considera una "maniera di reagire contro il freddo delle generalizzazioni, collettivizzazioni, gregarizzazioni e di rimettere nella produzione intellettuale un po' d'affettività 'psicologica'". Ma quando anch'io, non tanto per rimettere in gioco l'affettività ma proprio per bisogno d'affetto, ho sentito la necessità di penetrare nella nebulosa biografica delle scrittrici, ecco: non sempre vi ho trovato qualcosa che potesse essere raccolto in un quadro ordinato, in un percorso sensato dalla vita all'opera. Spesso non vi ho trovato neppure, la volontà di scrivere con la sua contorta ma caparbia determinazione. Al suo posto, una costellazione mobile di impulsi e azioni, o di moventi e movimenti. A lungo, in passato – in un passato ormai assai remoto quando le donne hanno cercato di venire alla parola pubblica, hanno cercato di mettere in pubblico le loro parole e dunque di farsi autori, di garantirle cioè con il segno del loro nome – spesso per loro scrivere non è stato che uno dei tanti modi per sopravvivere. | << | < | > | >> |Pagina 44Ma, anche se diffido di ogni generalizzazione, vorrei aggiungere qualche altra cosa. Qualcosa che ai miei occhi è un segno di riconoscimento, e un punto, per me, di forte attrazione. Benché tutte queste scrittrici, lo ripeto, siano diverse, pure nella loro individuale e inconfondibile e personale scrittura sento l'eco di una comune condizione, la provenienza da una stessa gens, una gente a lungo silenziosa: il continente nero della femminilità, lo chiamava enfaticamente Freud, ma potremmo più semplicemente dire una tradizione dietro di sé di cui portano ancora il peso e lo stigma, una storia di interni, di interiorità segreta e di silenzio, di esilio domestico, di magie bianche e nere casalinghe, di sogni incomunicabili, di effrazioni taciute o condannate, di un costante corpo a corpo con la fragilità dei corpi. Poi, invece, quando scrivono tutto questo lo portano alla luce, anche solo come una scia, la traccia di una traccia, lo mettono sulla scena del mondo e della letteratura in uno spazio da esplorare, dove spesso l'identità non è che il retaggio di una famiglia spettrale e la sessualità non è che una conseguenza dell'essere vivi, un suo variegato modo, e non più soltanto un univoco segno di riconoscimento o, tantomeno, di elezione o dannazione.Attraverso di loro, i loro scritti e la figura delle loro vite, il Novecento mi è apparso come il secolo del talento femminile: il secolo, dunque, in cui alcune (molte) donne trasportano e insieme contraddicono la loro tradizione, la espongono e la negano, l'offendono e la difendono – intente nella loro scrittura a indagare non questioni di categoria ma, per usare le parole di una di loro, il mistero della nostra esistenza sulla terra, in una nuova ampiezza e con inaspettati contorni. Mi sembra anche, però, che se il talento femminile in letteratura esplode nel XX secolo, alla sua fine, questo specifico talento si estingue. Dopo ci saranno – ci sono, ovviamente, le leggo e le ammiro – donne di talento che scrivono, ma quello strano fenomeno della bestia che parla, di una femminilità che si manifesta e si rivoluziona in una moltitudine di voci provenienti da uno stesso altrove della storia, finisce col secolo, resta una speciale luce, una delle più sfolgoranti, del tempo dai molti chiaroscuri che abbiamo alle spalle. Post Scriptum Ho l'impressione che la mia generazione — quella dei nati dopo la fine della seconda guerra mondiale — sia o potrebbe essere una delle ultime generazioni di donne e uomini che sono approdati alla scrittura direttamente dalla lettura. Niente scuole di scrittura, nessuna indicazione su come diventare scrittori, niente blog e siti specializzati, spesso neanche una precisa ambizione: voglio fare lo scrittore. No, solo leggere leggere leggere e poi scrivere, come un travaso naturale di un atto nell'altro, una necessità fatale, e anche una necessità subordinata a quel primario piacere, leggere, di cui non si poteva fare a meno: non scrivere per esprimere se stessi, ma scrivere per esprimere la scrittura. Le pagine che seguono sono anche una testimonianza di questo apprendistato nei libri degli altri — in questo caso i libri delle altre — non un autore singolo, naturalmente, ma la polifonia delle voci amate, invitanti, tentatrici come quelle delle sirene. | << | < | |