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| << | < | > | >> |IndicePREFAZIONE 7 INTRODUZIONE 9 UN MONDO A PARTE Il progetto 4000 13 L'elenco ufficiale UTAA 22 Un po' di statistica 24 STORIA DELLA COLLEZIONE DEI 4000 I collezionisti 29 Karl Blodig 31 Eustache Thomas 35 Blodig e Thomas: un confronto 39 Altri collezionisti 40 UNA GUIDA AI 4000 Come programmare la collezione 43 La documentazione 94 I libri-guida consigliati 95 Sui 4000 in sicurezza 96 I 4000 SCIISTICI DELLE ALPI 101 Principi generali 102 Definizione delle tre categorie 103 Elenco dei 4000 sciistici delle Alpi 104 LE SALITE PLURIME Storia di un'idea 107 I concatenamenti dei 4000 sulle Alpi 111 I concatenamenti extraeuropei 115 La corsa 82x82 116 I RECORD SUI 4000 122 IL CLUB 4000 Pillole di una storia curiosa 125 Perché un Club 4000? 127 Le attività del club 130 Gli altri club dei 4000 delle Alpi 131 HANNO DETTO 132 CURIOSITÀ 135 CONCLUSIONE 142 PAGINE DI LETTERATURA 145 BIBLIOGRAFIA 169 APPENDICI 1 Elenco allargato di sommità minori 173 2 Altri elenchi 174 3 Comparazione tra i diversi elenchi 177 4 La collezione di Eustache Thomas 180 5 I protagonisti della prima salita dei 4000 182 6 Indirizzi e link 188 INDICE ANALITICO 189 RIFERIMENTI FOTOGRAFICI 191 |
| << | < | > | >> |Pagina 7PREFAZIONE
Kurt Diemberger
Il Cervino. Das Matterhorn. La prima volta, per me che ero ancora adolescente, fu una vera e propria spedizione. Una spedizione cominciata con un'interminabile pedalata. Proprio così, perché in quei primi anni del dopoguerra i giovani alpinisti squattrinati potevano disporre solo della bicicletta. Dall'Austria alla Svizzera. «Pedalare, pedalare, pedalare, scendere, spingere, risalire e ancora andare, andare, andare. Una settimana ancora, prima di giungere ai piedi del Cervino!» scrivevo nel mio primo libro, Tra zero e ottomila. Finalmente, eccola là la sagoma dell'Horn. Una nube ne ricopriva la cima. Quel primo incontro ci intimidì: non ci eravamo immaginati che la montagna fosse così imponente. Davvero volevamo salire lassù? 4200 metri di altitudine. Il rifugio Solvay sembra un nido d'aquila sul filo di cresta. La prima volta che respiriamo l'aria sottile dei quattromila. Tutt'intorno il panorama ci regala scorci emozionanti: la candida cresta del Lyskamm, il Weisshorn, l'Obergabelhorn, la Dent Blanche, le vette del Monte Rosa. Poi, la nebbia inghiotte ogni cosa. Su, uno dopo l'altro, Erich, Gundl ed io. Sotto di noi si spalanca l'abisso della parete nord, che non vediamo ma di cui possiamo ugualmente intuire l'orrida profondità. Finalmente la cresta si inclina. Incontriamo una croce. La vetta? Non può essere che quella. Siamo così contenti che ci mettiamo a ballare. Intorno a noi non si vede nulla, solo la roccia, la neve e la croce. Il mio primo ingresso nel mondo magico dei 4000! Presto sarebbero arrivate altre vette altrettanto alte. Avrei scalato il Monte Bianco e le sue cime. Sarei partito nel cuore della notte per affrontare i gelidi scivoli delle pareti nord. Avrei imparato a stringere la piccozza e il martello da ghiaccio anche con le dita intirizzite. Avrei saggiato la tenuta dei ramponi sul ghiaccio verticale. Mi sarei trovato a rincorrere i sogni più belli sulla grande meringa del Gran Zebrù. E sarei salito ancora più in alto, verso il cielo dell'Himalaya, dove le cime più belle sembrano cristalli. Ma le prime esperienze, quelle dell'adolescenza, non si scordano mai. Per questo, quando ho conosciuto gli amici del Club 4000 e quando ho saputo del progetto di questo libro, mi sono entusiasmato. Anch'io sono socio di questo club delle grandi altezze alpine: lo considero uno straordinario archivio di sogni in attesa di realizzazione. Sogni che, oltretutto, si possono condividere e possono far conto sull'esperienza di chi ha già portato a termine scalate bellissime e ha rinunciato alla gelosia di tenere per sé sensazioni e ricordi. Sfogliando le pagine di quest'opera rara e preziosa saremo tutti in sintonia, catturati dalla lunga onda empatica che collega gli appassionati di alpinismo. Un modo per rimanere idealmente vicini e uniti, anche nel caos delle metropoli, con l'universo delle cime e dei ghiacciai. Berg Heil! | << | < | > | >> |Pagina 13UN MONDO A PARTE
IL PROGETTO 4000
Vi sono imprese che nascono così, quasi per gioco, ma che poi, nel corso del loro svolgimento, si rivelano più complesse, più impegnative, più intriganti di quanto pareva in partenza. Così è stato per il Progetto 4000. "Che cosa ci vuole a determinare una volta per tutte l'elenco ufficiale dei 4000 delle Alpi?", ci eravamo detti all'interno del piccolo gruppo che si è accinto negli anni '90 a questo progetto; poi, però, a conclusione del nostro lavoro, ci siamo accorti che la cosa è stata più complicata di quanto pensassimo. Inoltre — nonostante l'attenzione e la meticolosità usata — qualche piccolo dubbio sui risultati conseguiti ancora l'avevamo. Con una certa ambizione possiamo però ora serenamente affermare che il nostro è stato lo studio più approfondito che finora sia stato fatto al riguardo. | << | < | > | >> |Pagina 17Per un elenco di vette, è ovvio che il concetto fondamentale di partenza è il concetto di vetta. Essa può essere definita, in primo luogo, come qualunque punto della superficie alpina che si innalzi di un certo dislivello rispetto al terreno circostante.I1 punto cruciale consiste dunque nel cominciare a definire un certo dislivello minimo, al di sotto del quale la maggioranza degli alpinisti non è favorevole a considerare quel punto come vetta. Per definire questo dislivello minimo si è proceduto nel modo seguente: – si sono innanzitutto considerati i 4000 delle liste precedenti oggetto di discussione, ossia generalmente ritenuti ai limiti dell'accettabilità; – per ognuna di queste vette si è determinata la sua elevazione sul terreno circostante (ossia: il dislivello tra la vetta e il colle più alto ad essa adiacente), facendo poi la media dei valori rilevati; – da questo semplice calcolo si è ottenuto un valore di dislivello compreso tra 30 e 40 metri. Si può dunque stimare che al di sotto dei 30 metri di dislivello di individuazione non si può sicuramente parlare di vetta in senso proprio. Può esser interessante notare come questo intervallo di 30 - 40 metri coincida con la lunghezza di corda che per lungo tempo è stata considerata come usuale nelle salite alpine occidentali... È comunque importante notare che un tale criterio non stravolge eccessivamente l'idea tradizionale di sommità e gli elenchi di 4000 ad essa collegati. Anzi, si può affermare che un tale criterio non fa altro che dare una veste quantitativa e precisa a quel concetto di vetta già tacitamente e approssimativamente contenuto negli elenchi precedenti e dunque nella mentalità corrente. In conclusione, secondo questo primo criterio, che si può definire topografico, si può considerare un 4000 ogni punta della superficie alpina che si innalza di almeno 4000 metri sul riferimento assoluto e di un minimo di 30 metri sul riferimento relativo (ossia: sul più alto colle adiacente). Questo criterio può eventualmente essere integrato dal valore della distanza (in orizzontale) tra la vetta in questione e le pendici di un altro 4000 adiacente (anche questa infatti è una misura della sua individuazione). Data la complessità del problema, e tenendo anche presente che questo elenco non può fondarsi su un criterio puramente topografico, essendo destinato soprattutto agli alpinisti, è opportuno definire altri possibili criteri. Si è perciò ritenuto di considerarne anche altri due: il primo, morfologico; il secondo, alpinistico. Il criterio morfologico tiene conto della struttura generale e dell'aspetto di una vetta. Per fissare le idee può essere utile considerare il caso del Grand Pilier d'Angle, nel gruppo del Monte Bianco: il criterio topografico lo esclude dai 4000, trattandosi di una semplice spalla; esso però, dalle angolazioni diverse rispetto a quella di saldatura alla massa del Monte Bianco, appare come una struttura imponente e fortemente individuata, tale da farlo considerare una entità a se stante.
Il
criterio alpinistico
considera l'importanza di una sommità dal
punto di vista alpinistico, sia come livello qualitativo delle vie, sia come
frequentazione in senso quantitativo».
4 - Applicazione dei criteri e casi particolari: per quanto riguarda l'applicazione dei criteri di scelta su esposti si è cercato, per quanto possibile, di attenersi al seguente procedimento: A – tutti i 4000 che soddisfano il criterio topografico (T) rispondono alla definizione di vette, e perciò sono stati posti nella lista dei 4000 senza ulteriore esame degli altri due criteri morfologico e alpinistico. Poche le eccezioni a questo primo punto. Esse riguardano più che altro i "gendarmi" o le asperità che, pur soddisfacendo il criterio topografico, fanno parte integrante di vette importanti e ben individuate, come il Gran Gendarme del Weisshorn o altri gendarmi e anticime analoghe; oppure elevazioni come il Naso del Lyskamm, alla cui sufficiente individuazione topografica corrisponde dall'altro lato un'evidente pochezza alpinistica e morfologica. Le vette citate sono dunque state escluse dall'elenco.
B —
tutti i 4000 che non soddisfano il
criterio topografico
(T) sono stati vagliati alla luce degli altri due criteri,
morfologico
(M) e
alpinistico
(A). In questi casi, di risoluzione meno facile in quanto più soggettivi,
vengono qui spiegati singolarmente i motivi per cui la vetta è stata inserita
oppure esclusa dalla lista definitiva.
Gruppo degli Écrins
Pic Lory:
nessuno dei tre criteri è favorevole; l'unico criterio favorevole (nodo
orografico) è svincolato dal concetto di vetta: non è stato inserito
nell'elenco.
Gruppo del Gran Paradiso
Roc:
criterio T non favorevole (dislivello 28 m); criteri M e A anch'essi non
favorevoli: non inserito.
Gruppo del Monte Bianco Dôme du Goûter: criterio T favorevole (dislivello 64 m): inserito. Monte Bianco di Courmayeur: criterio T non favorevole (dislivello minore di 10 m); però la distanza dal Monte Bianco considerevole (circa 600 m), e inoltre i criteri A e M sono favorevoli: inserito. Grand Pilier d'Angle: criterio T non favorevole (semplice spalla); criteri M e A fortemente favorevoli: inserito. | << | < | > | >> |Pagina 21In conclusioneL'elenco completo delle cime prese in considerazione si compone di 128 punte (elenco allargato) che, con l'applicazione dei criteri di vaglio sopra esposti, si riducono a 82: questo è l'elenco definitivo e ufficiale stabilito dal gruppo di lavoro e riportato alle pagine successive. L'elenco delle vette minori è riportato in appendice A.1 (pag 173). | << | < | > | >> |Pagina 29STORIA DELLA COLLEZIONE DEI 4000
I COLLEZIONISTI
Ogni uomo, in maniera più o meno consapevole, è un collezionista. C'è chi si dedica a collezioni di tipo tradizionale: francobolli, farfalle, figurine, etichette, bottigliette mignon, ecc., e c'è chi colleziona cariche, denaro, donne, debiti, sciocchezze di vario genere. Nelle Passeggiate romane Stendhal scriveva: «Nulla rende lo spirito angusto e geloso come l'abitudine di fare una collezione». E Balzac, nel suo Le illusioni perdute, rincarava la dose facendo riferimento a «uno di quei maniaci chiamati collezionisti». E così i collezionisti di vette di 4000 metri, o quelli che si dedicano a tutti i 3000 e persino ai 2000, sono serviti. Eppure, nella storia dell'alpinismo, non sono pochi gli scalatori che si sono dedicati alla collezione di vette. A cavallo dei due ultimi secoli, l'idea di salire tutte le cime alpine superiori ai 4000 metri è già "nell'aria". Tanto che Claire-Eliane Engel, nella sua Storia dell'alpinismo, a proposito di questa passione (o mania che dir si voglia) riporta il giudizio lapidario del grande alpinista francese Jacques Lagarde: «Si possono fare cose grandi per motivi ben meschini!». Con maggiore comprensione, Luciano Marisaldi, nella sua pregevole biografia di Karl Blodig («Blodig il collezionista», in "Rivista della Montagna", n. 211, aprile 1998), commenta: «È discutibile cosa sia grande e cosa sia meschino. L'alpinismo nella sua storia ha oscillato fra un alone di anarchica inutilità e idee rimasticate di superomismo (con tutte le possibili varianti intermedie), e dunque la disputa sarebbe ancorata all'opinabile, e non risulterebbe produttiva. Una cosa però si può dire: alpinisti come Blodig e compagni sono l'esplicita incarnazione di una passione che rode, in forma più o meno sotterranea, la maggior parte degli alpinisti: la collezione. Non è necessario porsi obiettivi ambiziosi come la salita di tutti i quattromila delle Alpi; il virus del collezionismo può annidarsi anche nel più semplice curriculum alpinistico: ognuno si costruisce il proprio, lo organizza intorno a qualche principio fondamentale, a qualche idea di fondo che sembra dare un senso all'insieme. Non c'è alpinista che non abbia il suo quaderno d'appunti, o calepino, o carnet, al quale è sottesa una logica: che può essere degli ultimi problemi, oppure la salita di tutte le vie di una sola parete, o chissà che altro». Ciò spiega perché molti alpinisti si siano da sempre dedicati non solo a «salire le montagne più belle per le vie più belle» – come consiglia il Club 4000 – ma anche a collezionare cime, e in particolare quelle superiori ai 4000 metri, perché, come sosteneva il grande Gaston Rébuffat «a 4000 metri, l'aria ha un sapore particolare». O, per dirla con Piero Falchetti, autore di un bellissimo articolo intitolato «I quattromila delle Alpi» ("Rivista Mensile del Cai", giugno 1970), perché «testimone ad un tempo di buona tecnica e di alta concezione alpinistica, la collezione dei 4000 è una delle più simpatiche e lodevoli collezioni». E tutto ciò con buona pace di Stendhal e di Balzac, che si intendevano forse di collezioni ma non certo di 4000. | << | < | > | >> |Pagina 462 GRUPPO DEL GRAN PARADISOIl Gran Paradiso (4061 m) è spesso uno dei primi 4000 saliti da chi si affaccia all'affascinante mondo dall'alta montagna. Le vie normali, dal rifugio Vittorio Emanuele II (2775 m) o dal rifugio Chabod (2750 m), non presentano difficoltà. Sono particolarmente consigliate con gli sci: la discesa viene considerata una delle più belle delle Alpi. È talmente frequentata e tracciata, che ogni descrizione risulta superflua. La parete nord è frequentatissima, a volte troppo, come peraltro la maggior parte delle nord classiche. Bisogna fare molta attenzione se si è preceduti da altre cordate. In questo caso la prudenza consiglia di scegliere una linea diversa, magari tecnicamente più difficile ma al riparo dalla caduta del ghiaccio staccato da chi ci precede. La via più bella è però la traversata dal Piccolo al Gran Paradiso. Non è difficile, ma è lunga e da non sottovalutare. Si raggiunge il Colle di Montandayné (3723 m) per il facile ed evidente canale nevoso e poi si segue la cresta, scavalcando il Piccolo Paradiso (3925 m) con qualche passo di III+. Vi sono un paio di brevi doppie attrezzate; è bene verificare gli ancoraggi e, magari, a inizio stagione sostituite i cordoni. La salita prosegue con una bella cresta nevosa fino alla vetta principale.
Per queste ultime due salite è consigliabile partire dal rifugio Chabod.
3 GRUPPO DEL MONTE BIANCO
Il gruppo comprende 28 cime sopra i 4000 metri, molte delle quali
decisamente impegnative. Le diverse sommità si prestano a numerosi
concatenamenti, alcuni dei quali costituiscono degli splendidi itinerari
alla vetta principale.
Monte Bianco Il Monte Bianco, con i suoi 4807 m, è la massima elevazione delle Alpi. Riguardo a ciò, sull'autorevole Guide Vallot – La chaîne du Mont Blanc, vol. I, si legge: «Le Mont Blanc est le point culminant d'Europe – car le Caucase appartien déjà au "Proche-Orient" – des Alpes et de la France enfin, depuis les traitès de Paris (1796) et de Turin (1860)». Tale affermazione avvalorerebbe l'ipotesi (discutibile) di alcuni autori, secondo i quali il Monte Bianco sarebbe "la vetta più alta d'Europa". (Sulla "prima salita del Monte Bianco e sulla controversia dei confini italo - francesi, si veda il capitolo «Pagine di letteratura» nella parte finale del libro). In ogni caso, considerando la sua quota decisamente elevata, il Monte Bianco costituisce un obiettivo ambito da tutti gli alpinisti che, almeno una volta nella vita, desiderano raggiungerne la vetta. Ci soffermiamo perciò su questa montagna, comparando tra loro le quattro vie normali di salita, che sono: - la via delle Aiguilles Grises (via normale italiana) dal rifugio Gonella (3072 m) – dislivello da La Visaille al rifugio: 1450 m – dal rifugio in vetta: 1750 – dislivello totale: 3200 – difficoltà: PD/PD+; - la via dell'Aiguille du Goûter dal refuge du Goûter (3817 m) – dislivello dal Nid d'Aigle al rifugio: 1450 m – dal rifugio in vetta: 950 m – dislivello totale: 2400 m – difficoltà: F+/PD-; - la via dei Grands Mulets dal refuge des Grands Mulets (3051 m) – dislivello dal Plan de l'Aiguille al rifugio: 750 m – dal rifugio in vetta: 1750 m – dislivello totale: 2500 m – difficoltà: PD;
- la via dal Col du Midi dal refuge des Cosmiques (3613 m) –
dislivello dal
rifugio all'Aiguille du Midì (da risalire al ritorno): 250 m – dal rifugio
in vetta: 1500 m – dislivello totale: 1700 m – difficoltà: PD/PD+.
Analizziamo nel dettaglio le quattro vie. a - via italiana dal rifugio Gonella: interminabile, solitaria e selvaggia, può essere particolarmente interessante in discesa. Walter Bonatti ha scritto che è la più sicura via di fuga dalla vetta del Monte Bianco in caso di avverse condizioni atmosferiche. | << | < | > | >> |Pagina 63Aiguille de Rochefort, Dente del Gigante, Grandes JorassesAltra classica traversata, che consente di toccare ben otto 4000, è la cresta di Rochefort - cresta ovest delle Jorasses, con partenza dal rifugio Torino (3375 m), pernottamento al bivacco Canzio al Colle delle Jorasses (3818 m) e ritorno per il rifugio Boccalatte (2804 m). Si tratta di un itinerario lungo, faticoso e impegnativo, ma anche indimenticabile. Per alcuni si tratta della cresta più bella delle Alpi. Nel corso dell'itinerario si toccano diversi 4000, che sono, nell'ordine: il Dente del Gigante (4014 m), l'Aiguille de Rochefort (4001 m), il Dôme de Rochefort (4015 m), la Punta Margherita (4065), la Punta Elena (4045 m), la Punta Croz (4110 m), la Punta Whymper (4184 m), la Punta Walker (4208 m). Il passaggio chiave è il superamento della Punta Young (3996 m), situata subito a monte del bivacco Canzio. A sinistra del Col des Jorasses un couloir sale verso la cresta. Bisogna scalare le rocce del versante destro (IV) e poi andare a sinistra per placche poco ripide (IV), raggiungendo quindi per cenge e fessure la vetta della Young. Vale la pena di salire nel tardo pomeriggio, lasciando sul posto delle corde fisse, in modo da risparmiare tempo la mattina successiva. Dente del Gigante (4014 m). È il "4000" più effigiato, assieme al Cervino, e merita una visita a parte. In altre parole, vale la pena salire il Dente in relax, evitando l'affollamento. Il posto è molto freddo e la salita si svolge sulla parete ovest che, come si sa, prende il sole tardi. Con le condizioni meteo adatte, si può attaccare nel primo pomeriggio (occhio ai temporali, però). Ottima alternativa al solito itinerario normale è la via Géant Branché, che presenta attrezzatura un po' vetusta e oppone difficoltà di 6a max: la si prende tirando diritti dal secondo chiodo sul primo tiro della normale. Molto spesso viene percorso solo il primo tratto della cresta di Rochefort, salendo solo l'Aiguille (con o senza il Dente). Per evitare di percorrere la cresta avanti e indietro, si può scendere (o risalire) per il glacier du Mont Mallet. Il percorso è bello e vario; e poi si sa: una traversata consente di vedere diversi ambienti, e pertanto è più consigliabile. Il percorso è frequentato, e perciò normalmente tracciato. Il superamento della crepaccia terminale è complicato; per questo motivo è meglio affrontare il percorso con partenza dal rifugio Torino, in modo da affrontare la terminale in discesa. Una doppia può risolvere l'eventuale problema e poi, a meno di non essere i primi della stagione, si trova quasi sempre un ancoraggio abbandonato da chi ci ha preceduto. La salita all'Aiguille de Rochefort per il glacier du Mont Mallet può essere percorsa in sci, almeno fino alla crepaccia terminale. La segnaliamo perché non sono molti gli itinerari sciistici ai 4000 del massiccio del Monte Bianco. | << | < | > | >> |Pagina 68Monte CervinoMeta e mito per ogni alpinista, il Cervino (4478 m) presenta ben cinque creste di varia difficoltà (le quattro classiche più la cresta De Amicis). Purtroppo tanto è bella la montagna, tanto è brutta la roccia... Per fortuna il passaggio di generazioni di alpinisti ha ripulito le creste, riducendo il pericolo di caduta sassi a limiti accettabili. L'ideale sarebbe salire in settimana, evitando così l'affollamento del week-end. La via più facile è la cresta dell'Hörnli, alla cui base sorge la Hörnlihütte (3260 m); la via normale italiana, la cresta del Leone, è però più bella e impegnativa. Per quest'ultima, si pernotta al rifugio Carrel (3835 m), non custodito. È classica la traversata che, in salita, percorre la cresta del Leone e, in discesa, la cresta dell'Hörnli. Più difficile, perché non attrezzata, la bellissima cresta di Zmutt, relativamente poco frequentata. Purtroppo una valanga ha distrutto il bellissimo bivacco costruito alla base, e ora bisogna partire dalla Hörnlihütte, allungando decisamente il percorso. Dalla capanna si segue per qualche metro la via normale, piegando poi sulla destra e raggiungendo in discesa il Matterhorngletscher. Si superano a sinistra i seracchi, subito sotto le rocce della cresta dell'Hörnli, facendo attenzione alla caduta di pietre staccate dalle cordate impegnate sulla via normale. Si attraversa senza difficoltà alla base della parete nord raggiungendo i ripidi pendii di neve che sorreggono la cresta di Zmutt. Raggiunta la cresta, la si segue fino ai Denti di Zmutt. Si attraversa il primo, si aggira il secondo sulla destra e quindi si prosegue sul filo fino a una forcella di rocce biancastre. Continuando per risalti, si raggiunge una spalla. Si risale un couloir e si arriva sotto un salto strapiombante, chiamato impropriamente Naso di Zmutt (il "vero" Naso non si trova sulla cresta, ma nella parete). Lo si aggira sulla destra per una cengia a volte innevata, in direzione della cresta del Leone, sino alla fine di tale cengia. Si scalano poi direttamente il sovrastante costone e un couloir talvolta verglassato, fino a pervenire su un'altra cengia che attraversa tutto il versante di Tiefenmatten: la Galleria Carrel. La si percorre fino a ritornare sulla cresta di Zmutt, che occorre poi seguire fino in cima. Se la Galleria Carrel è verglassata, conviene abbandonarla percorrendo una lingua di neve che conduce a rocce rossastre. Di là, in obliquo a sinistra, si giunge sulla cresta e, infine, sulla vetta. | << | < | > | >> |Pagina 145PAGINE DI LETTERATURA
LA PRIMA SALITA DEL MONTE BIANCO
Michel Gabriel Paccard e Jacques Baimat partirono nel pomeriggio del 7 agosto 1786. Si incontrarono alle 17.30 all'alpeggio di Mont, ai piedi della Montagne de la Côte e salirono rapidamente in fase di luna piena verso la cima del Mont Corbeau, nei cui pressi si fermarono a bivaccare a 2334 metri, verso le nove di sera. «Oggi l'ascensione al Monte Bianco per una delle vie normali non è particolarmente appassionante. In buone condizioni si tratta di una lunga marcia su ripidi pendii di neve dura e ghiaccio. La definizione che ne aveva dato la mia guida di Chamonix ("Abbassate la testa e camminate come un bue per una dozzina di ore") è abbastanza calzante», scrisse al riguardo C.E. Engel. Ben diversa era la situazione in cui si trovarono Paccard e Baimat: poco si sapeva, allora, dei pericoli dell'alta montagna; i due giovani erano unicamente equipaggiati di sacchi rudimentali, nei quali Paccard portava un barometro fabbricato a Torino e prestatogli da de Saussure, una bussola, un taccuino e una penna per annotare le osservazioni, un'ampolla di inchiostro, un diamante per segnare l'altezza del mercurio sul tubo del barometro; Balmat portava una coperta per due e alcune vettovaglie: pane, carne che in quota gelò, fiasche di acqua sciroppata. Non avevano ramponi, né corda, né piccozza, ma solo due lunghi bastoni ferrati. Non possedevano - e questo è sorprendente perché il medico Paccard ben conosceva i pericoli dei raggi solari in alta quota - occhiali per proteggere gli occhi, e fu così che al ritorno Paccard, quasi completamente cieco, dovette appoggiarsi sulle spalle di Balmat. Non immaginavano nemmeno che ci sono ore nel corso delle quali è meglio girare alla larga da ghiacciai e seracchi; non si curavano di provare i ponti di neve prima di attraversarli; ignoravano nella maniera più assoluta il pericolo delle valanghe. L'8 agosto, alle 4.15, lasciarono il loro bivacco e si misero in marcia. Nonostante le esitazioni di Balmat, che era contrario ad affrontare la via nuova proposta da Paccard, tanto da volere tornare indietro, anche perché preoccupato per sua figlia ammalata (che morì proprio quel giorno), i due giovani procedettero celermente finché Balmat si perse più volte d'animo e si rifiutò addirittura di continuare. Si deve all'energia e alla determinazione di Paccard, che non esitò a portate il sacco del suo portatore, se i due riuscirono a proseguire e a raggiungere la vetta. Sulla cima si fermarono poco meno di mezz'ora: giusto il tempo di segnare con il diamante sul barometro l'altezza del mercurio, di prendere nota della temperatura (anche se l'inchiostro era gelato), di guardare ammirati il panorama. Per un momento pensarono anche di bivaccare in vetta ma, non trovando un posto sufficientemente riparato, alle 18.57 lasciarono la sommità, correndo e scivolando come pazzi. A mezzanotte, al chiaro di luna, erano di ritorno alla Montagne de la Côte e qui si accorsero di avere entrambi una mano gelata. Il 9 agosto, alle 8 del mattino, erano di ritorno a valle. Più che sui particolari di questa straordinaria prima ascensione, è bene soffermare l'attenzione su alcuni dati che, in un'epoca come la nostra, ricca di record e di primati, non possono che sorprenderci: in salita i due savoiardi superarono 2476 metri di dislivello in 14 ore e 10 minuti, vale a dire alla media di 175 metri di dislivello l'ora; da notare che, in prossimità della vetta, ingaggiarono tra loro una vera e propria "volata" vinta da Paccard che percorse gli ultimi 117 metri di dislivello in 11 minuti, cioè alla notevole media (a quella quota) di 638 metri di dislivello l'ora. In discesa percorsero i 2476 metri in 5 ore, alla media di 495 metri l'ora. Da Chamonix l'ascensione fu seguita dal barone Adolf Traugott von Gersdorf che, alle 17, riuscì a inquadrare i due alpinisti nel suo telescopio: è grazie alle sue annotazioni che sono noti i particolari e gli orari dell'ascensione. «È stata un'impresa splendida, la più importante della storia dell'alpinismo» scrisse André Roch, che così descrisse Paccard: «Era intelligente e modesto, coraggioso e intraprendente, veramente un grande e simpatico protagonista dell'alpinismo». Forse non è esagerato affermare che Paccard sia stato non solo il primo vero alpinista, ma anche il primo alpinista senza guide. Il dottor Paccard aveva dimostrato un notevole coraggio: non solo aveva provato l'infondatezza dell'opinione generale che riteneva inaccessibile il Monte Bianco, ma aveva lottato contro il freddo, contro l'aria rarefatta, contro le cattive condizioni della neve (specie sul Grand Plateau), contro l'ora tarda, la tensione e, soprattutto, contro la situazione psicologica del suo compagno, che non aveva la forza d'animo necessaria e voleva rinunciare. Nell'agosto del 1986, in occasione del bicentenario della prima ascensione, alcune guide di Chamonix salirono con l'abbigliamento che presumibilmente avevano Paccard e Balmat e con la medesima attrezzatura o, per meglio dire, con la stessa mancanza di attrezzatura, seguendo fedelmente lo stesso percorso. Il loro commento, al termine di quella ripetizione commemorativa, fu di stupefatta ammirazione per i due primi salitori e per i tempi di salita e discesa registrati. Così nacque l'alpinismo. LUCIANO RATTO | << | < | |