Copertina
Autore Carla Ravaioli
Titolo Lettera aperta agli economisti
SottotitoloCrescita e crisi ecologica
Edizionemanifestolibri, Roma, 2001, La talpa di biblioteca 28 , pag. 160, dim. 110x180x10 mm , Isbn 978-88-7285-257-6
CuratoreCarla Ravaioli
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe ecologia , economia , politica
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Indice

PREMESSA                                     7
I fatti della crisi ecologica                9
di Carla Ravaioli

IL DIBATTITO                                41
Lettera aperta agli economisti              43

Se il capitalismo disprezza la natura       47
di Giorgio Lunghini

Trasformare l'ambiente in ricchezza         53
di Angelo Marano

L'economia della natura                     57
di Riccardo Bellofiore, Emiliano Brancaccio

Come crescere con cautela                   65
di Giorgio Ruffolo

Dalla carità ai diritti                     69
di Augusto Graziani

Ecologia ed economia. Sviluppo non crescita 75
di Giuseppe Prestipino

Ascoltiamo i segnali spediti dal Sud        79
di Valentino Parlato, Giovanna Ricoveri

Gli sciamani e lo sviluppo                  83
di Giacomo Becattini

Sostenibile. Ma a che prezzo?               89
di Giuseppe Gavioli

I suggerimenti di Gregory Bateson           95
di Enzo Scandurra

Dalla crescita allo sviluppo               101
di Silvia Boba

Bioeconomia, la via del futuro             107
di Giorgio Nebbia

Quando la teoria non vede la vita          115
di Bruno Trezza

Lo stato, i bisogni il ciclope             123
di Giorgio Lunghini

Cari economisti, sturatevi le orecchie     127
di Carla Ravaioli

I limiti della crescita                    135
di Paolo Sylos Labini

L'evoluzione dell'economista               141
di Piero Bevilacqua

APPENDICE                                  147
I numeri della crisi ecologica             149

 

 

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Pagina 9

I FATTI DELLA CRISI ECOLOGICA
di Carla Ravaioli



In apertura della «Lettera aperta agli economisti» si faceva riferimento al mutamento climatico come a quello che, tra i tanti problemi connessi allo squilibrio ecologico, si pone come l'emergenza più grave, capace di conseguenze irreparabili. Il dibattito sulle pagine del «manifesto» non si era ancora esaurito quando i giornali incominciarono a dare a piena pagina e con titoli sensazionali notizie di uragani, tornado, frane, alluvioni, che a ripetizione, sempre più frequenti e rovinosi, colpivano zone via via più estese del globo. Lo spazio insolitamente dedicato alla materia si doveva, oltre che alla estrema distruttività degli eventi, anche al fatto che le catastrofi questa volta non toccavano più solo Venezuela, Colombia, Guatemala, o Cina, Vietnam, Cambogia, Laos, paesi poveri e lontani, avvezzi a ogni genere di maledizioni, o magari quel Terzo Mondo di casa nostra che da sempre è per noi il Mezzogiorno, ma si abbattevano su nazioni vicine, ricche e orgogliose, come Francia e Inghilterra, e su regioni opulente come le nostre Emilia, Lombardia, Piemonte, Liguria.

La coincidenza non era fortuita, né dovuta a particolari virtù divinatorie dei promotori della lettera.

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Pagina 16

Nella disputa al calor bianco tra ambientalisti e (una parte della) comunità scientifica, che a lungo ha occupato la stampa di tutto il mondo, e che non è qui possibile riprendere nemmeno nei suoi argomenti centrali, questo è forse l'aspetto meno insistito, che forse invece potrebbe risultare decisivo, se debitamente considerato. La libertà che gli scienziati sacrosantamente rivendicano, non può tuttavia non darsi dei limiti: quelli che ogni tipo di libertà deve darsi, arrestandosi là dove rischia di ledere la libertà altrui. Ed è appunto il rischio che la ricerca di base si trova ad affrontare nel momento in cui i suoi ritrovati vengono usati per applicazioni tecnologiche, destinate all'immissione sul mercato e all'utilizzo pubblico; nel momento cioè in cui si tratta di vagliare nel modo più accurato e ineccepibile quello spazio di ignoto che sempre si apre tra la scoperta scientifica e la sua traduzione in bene d'uso, assicurando una sperimentazione a prova di garanzia totale.

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Pagina 36

Qualche voce diversa di recente si è però levata. Al di là dei nomi consacrati della critica radicale internazionale (da Gorz a Chomsky, da Latouche a Beck, da Jonas a Bourdieu, da Castoriadis al gruppo francese degli Antitutilitaristi) anche in Italia, e anche tra gli economisti, qualcuno mostra di capire qual è la reale posta in gioco. Faccio il caso di Domenico Siniscalco, un economista appunto, che scrive: «Per ridurre le emissioni di gas serra occorrono politiche incisive, in grado di modificare gradualmente stili di vita e modelli di produzione e consumo, ben al di là di quanto previsto dal Protocollo di Kyoto, che rappresenta solo un primo passo nella giusta direzione.» E precisa: «In discussione è il modello di sviluppo e il rapporto tra Paesi industriali e Paesi meno sviluppati». Faccio il caso di un intellettuale non certo portatore di istanze rivoluzionarie come Sergio Romano, il quale anche dimostra di cogliere la gravità del problema, che la maggioranza degli economisti rifiuta di vedere: «Anche se è difficfle quantificare l'evoluzione del degrado ambientale nei prossimi anni, sappiamo ormai che l'esplosione demografica, l'aumento della produzione industriale, l'uso indiscriminato degli idrocarburi, l'industrializzazione dei paesi sottosviluppati e le catastrofi ecologiche del socialismo reale hanno alterato gli equilibri del mondo. Stiamo consumando la natura senza permetterle di rigenerarsi, e la natura ferita reagisce lasciandoci intravedere una biblica combinazione di siccità e diluvi». E non solo parla della necessità di «una gigantesca e costosa riconversione industriale», ma accusa anche il rischio connesso a una «internazionale degli interessi industriali che cerca di far valere le proprie ragioni».

Sono analisi condivisibili e affermazioni coraggiose, nessuna delle quali tuttavia affronta direttamente, chiamandolo per nome, il nodo del problema, cioè la crescita illimitata della produzione, programmata e posta in essere in uno spazio come l'ecosfera terrestre che illimitato non è, e nemmeno estensibile a piacere. La nostra lettera, sia pute nella forma inevitabilmente concisa di un appello, diceva della necessità di «rimettere in causa i paradigmi tradizionali della scienza economica» e esplicitamente parlava di «contenimento della crescita produttiva». Ma questo è il punto su cui gli economisti, e non loro soltanto, si mostrano più irriducibili. Così è stato dieci anni fa con i miei intervistati ai massimi livelli della scienza economica i quali, pur con la scarsa partecipazione di cui ho detto, sovente finivano per ascoltare le mie ragioni, e magari ammettere che la loro disciplina dovrebbe mostrarsi più sollecita verso la crisi ecologica, ma nulla concedevano in fatto di crescita: una categoria indiscutibde, da osservare come un dogma, una verità di fede. Così probabilmente è stato nel caso dei tanti, anche amici e compagni, ripetutamente quanto inutilmente invitati a rispondere alla nostra «Lettera». Così è per la grande maggioranza dei rappresentanti di una disciplina cui sempre più la società fa riferimento, ma che non sembra avere risposte per una delle più pressanti urgenze d'oggi. E allora appare una sorta di miracolo un Sylos Labini che nel suo intervento sul «manifesto» afferma: «La crescita economica è veramente importante sotto l'aspetto dello sviluppo umano fino a un certo livello critico, oltre il quale la crescita materiale è sempre meno importante».

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Pagina 43

LETTERA APERTA AGLI ECONOMISTI
Associazione per il rinnovamento della sinistra



Sempre più allarmanti sono le analisi delle condizioni ecologiche planetarie e le previsioni delle loro conseguenze, in particolare imputabili al mutamento climatico e all'aumento della temperatura media (valga per tutte la fondata possibilità di un innalzamento del livello dei mari, tale da sommergerte entro il secolo circa metà delle aree costiere del mondo). Analisi e previsioni elaborate dall'ambientalismo più qualificato e responsabile, oggi fatte proprie anche dalla maggioranza della comunità scientifica internazionale, ora concorde nel riconoscere in questi fenomeni il peso decisivo delle attività umane, della qualità e delle quantità di produzione, tipiche delle economie industriali.

Di fronte a questa situazione, che rimette in causa i tradizionali paradigmi della scienza economica, sarebbe altamente auspicabile una argomentata presa di posizione da parte degli economisti, i quali finora (con l'eccezione di esigue minoranze) indicano l'aumento della domanda e dei consumi e la crescita del Pil, come la migliore soluzione dei problemi d'oggi. Eppure recenti episodi (Seattle e non solo) hanno rivelato l'esistenza di una consapevolezza ecologista nel sociale; cioè di qualcosa che può insidiare le basi dell'economia capitalistica di mercato (la quale con la crescita e il suo continuo rilancio si identifica) più di quanto possano farlo oggi le classiche, e certo irrinunciabili, rivendicazioni salariali e normative dei lavoratori. Qualcosa che forse, qualora venisse fatto proprio dal nucleo attivo del lavoro dipendente, potrebbe aprire nuovi orizzonti storico-politici per il ridimensionamento dell'attuale ordine socio-economico.

Ci rendiamo conto, certo, che un arresto o un forte contenimento della crescita, specie perseguito in un solo paese, sarebbe rovinoso anche per gli strati popolari. La globalizzazione infatti costringe tutti i paesi a competere su diversi piani, che convergono ancora una volta nell'incremento dei ritmi di crescita. Perciò un'inversione di tendenza dovrebbe aver luogo almeno su scala continentale ed essere compensata dal simultaneo espandersi, mediante iniziative pubbliche democratiche, di settori non mercantili, indirizzati alla produzione di «beni sociali», necessari a uno sviluppo reale (non dunque solo quantitativo e monetario) della ricchezza durevole e delle risorse vitali al servizio delle persone: una produzione per sua natura non lesiva dell'ambiente.

Noi siamo convinti che solo da un confronto serio tra le culture dell'ambientalismo e quelle degli esperti di economia e politica economica possano venire stimoli e proposte tali da prospettare una possibile via d'uscita da questa drammatica contraddizione del nostro tempo, per una scelta responsabile tra i vincoli della globalizzazione competitiva e l'urgenza di prevenire danni irreversibili alla vita di tutti. È agli economisti dunque che ci rivolgiamo innanzitutto per avere risposte e possibilmente per aprire un incontro.

Carla Ravaioli, Mario Alcaro, Fulvia Bandoli, Piero Bevilacqua, Giovanni Berlinguer, Gianfranco Bologna, Marcello Buiatti, Paolo Cacciari, Giuseppe Chiarante, Marcello Cini, Elettra Dejana, Enrico Falqui, Franco Ferrarotti, Fabrizio Giovenale, Pietro Greco, Pietro Ingrao, Isidoro Mortellaro, Roberto Musacchio, Giorgio Nebbia, Giuseppe Prestipino, Eligio Resta, Franco Russo, Massimo Serafini, Pierluigi Sullo, Enzo Tiezzi.

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