Copertina
Autore Lidia Ravera
Titolo La guerra dei figli
EdizioneGarzanti, Milano, 2009, Nuova biblioteca 77 , pag. 302, cop.ril.sov., dim. 14,5x22x3 cm , Isbn 978-88-11-68366-7
LettoreAngela Razzini, 2009
Classe narrativa italiana
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


I   MILLENOVECENTOSESSANTASETTE
    SARÒ IL TUO SPECCHIO                7

II  MILLENOVECENTOSETTANTASETTE
    EROI                               81

III MILLENOVECENTOSETTANTOTTO
    VOGLIO SOPRAVVIVERE               159

IV  MILLENOVECENTOTTANTUNO
    VITA NUOVA                        231


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

Alle nove di sera la cucina è da considerarsi zona neutra, deserta come il teatro di una battaglia conclusa. I resti della cena sono stati riposti, avvolti dentro pezze di tela e sistemati nella ghiacciaia, accanto ai blocchi celesti che si comprano al mattino. Il tavolo è stato sparecchiato, i piatti lavati sgocciolano sul marmo del lavello. Soltanto l'odore del riso con l'uovo e la fontina, quel riso giallo che si appiccica al palato, restituisce la stanza alla sua funzione. C'è una pace intensamente precaria, pace di tutti filati via. Emma per prima. La permanenza a tavola è stata un supplizio, la madre con le labbra serrate nel silenzio minaccioso delle donne di solito loquaci, il padre, che loquace non è mai stato, costretto a dire piccole frasi inutili, senza altro scopo che una pia volontà di normalizzazione. Che ore sono. Che agosto è. Come si stanno accorciando le giornate. Stai dritta. Se chiudi le spalle diventi gobba. Emma ha drizzato le spalle. Drizza le spalle tutte le volte che glielo chiedono. Maria no. Maria quando il padre le ordina di drizzare le spalle, si curva come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco. «Non sei spiritosa», dice il padre. Maria abbassa il mento fino a toccare lo sterno, da quella posizione contrita biascica parole incomprensibili. Il padre dice: «Parla forte, se parli devi fare in modo che tutti ti ascoltino». Maria ripete scandendo le sillabe: «Tu fai mo-ri-re dal ri-de-re in-ve-ce. Ah ah ah». È così tutte le sere, dall'inizio di agosto. Minime variazioni. Questa sera è stato peggio.

Maria zitta, il riso ai bordi del piatto. La madre zitta. Il padre perso nella sua recita di famiglia intorno al desco. Inutile far sapere a tutti che vorrei lavarmi i capelli, pensa Emma. Lavarsi i capelli è considerato un gesto di inutile civetteria, una di quelle scelte avventate che coinvolgono sprechi quali l'accensione dello scaldabagno, litri d'acqua, bottiglie di shampoo. La Famiglia non è parsimoniosa se non secondo i dettami di un isterismo intermittente: la corrente elettrica e il telefono e il gas sono rispettati come divinità capaci di distruggere, con la cadenza implacabile di bollette che non possono non essere pagate, ogni progetto di stabilità e decoro. Emma non ha acceso lo scaldabagno a gas, non può accenderlo da sola, deve avvicinare un fiammifero a una fenditura, e aspettare che esploda una vampata di fuoco azzurro. Le è rigorosamente vietato compiere quell'operazione considerata di massimo rischio. Non può chiedere a Maria di accendere lo scaldabagno per lei. Non quella sera. Maria si è alzata da tavola con un contegno che non ammette confidenza, neanche con lei. Emma pensa che scalderà un pentolino d'acqua.

Dalla finestra della cucina, ermeticamente chiusa nonostante la serata ancora estiva, si distingue la sagoma scura del Monviso. Nel giardinetto, un largo corridoio coperto di ghiaia, la luce è accesa.

Emma sistema sul fuoco il pentolino, si ripromette di mescolare l'acqua bollente all'acqua fredda del rubinetto del bagno, prende una brocca di vetro. Si muove con la cautela di un ladro. Attende, spia dalla finestra, così alta che deve alzarsi sulle punte dei piedi per arrivarci: il padre fuma la pipa, seduto su una consunta sedia a sdraio gialla portata lì dalla casa del mare, la madre non c'è. L'assenza della madre dal giardinetto, poiché non è nell'ordine delle cose umane l'ipotesi che sia uscita da sola, la situa presumibilmente in casa.

Emma si inoltra nel salottino in stile tirolese su cui affaccia la porta del bagno. È socchiusa, entra con circospezione. Vorrebbe chiudersi dentro ma chiudersi dentro non è ben visto dalla Famiglia. Non si sa mai che cosa può succedere quando una persona è nel bagno, nel bagno è consigliabile essere soli, ma non irraggiungibili. Se la porta del bagno è aperta e tu ti senti male puoi gridare, se i soccorritori si scontrano con una serratura, si perdono minuti preziosi e tu puoi morire, affogata soffocata elettrificata. Per evitare che Maria si ribelli alla regola della porta non chiusa, la chiave è stata sottratta e nascosta in qualche luogo segreto. Emma entra nel bagno e spinge lo sgabello rosa contro il fragile baluardo di quell'entrata non protetta. Un gesto più che altro simbolico, anche un gattino potrebbe spostare lo sgabello. Emma prepara la brocca senza accendere la luce, emulsiona nelle mani lo shampoo. Ha i capelli lunghi fino alla metà della schiena. Sono il suo vanto e il suo cruccio, hanno un bel colore castano dorato e sono mossi da onde naturali, ma sono sottili e come sfiniti verso le punte. Per asciugarli di solito arrotola una larga ciocca attorno al cilindro di cartone della carta igienica, la ferma con pinze che si chiamano becchi d'oca sulla sommità della testa, quindi gira, meticolosa, tutto il resto della capigliatura attorno alla fronte e alla nuca, per stringere poi quella complessa costruzione in un vecchio foulard di seta della madre strappato agli orli. A quel punto c'è soltanto da aspettare, lontana dalla premurosa violenza della Famiglia, che i capelli si asciughino da soli.

Restare con i capelli bagnati è uno dei sette rischi capitali. Insieme alle correnti d'aria, l'assenza di una maglietta di lana a contatto con la pelle, l'aglio fritto, le cipolle crude, cenare al ristorante, dare confidenza agli sconosciuti.

Guardinga, Emma accende la luce sul lavandino.

I capelli, fradici e freddi, le hanno bagnato la camicia bianca. È la sola camicia che può indossare per andare in piazza. Non può uscire con uno di quei terrificanti abitucci a quadretti bianchi e azzurri, che ricordano le vacanze in colonia degli orfani. La madre ne ha fatti confezionare sei, comperando la stoffa a una svendita di tovaglie. Spinta dall'orrore per l'idea di doversi infilare nel costume di quell'estate disastrosa, Emma trova il coraggio di tirar giù la stufa dal soppalco che ospita le cose dell'inverno, la accende sfidando il dio dell'elettricità, si toglie la camicia e la sistema davanti alle resistenze illuminate d'arancione.

Non sa dove appoggiarla, così resta lì, in canottiera, una canottiera da bambina che non tiene conto di due seni di proporzioni già ragguardevoli, la schiena fredda per il contatto con i capelli bagnati, il viso in fiamme per la vicinanza della stufa, le braccia nude tese a sorreggere l'unica camicia con cui può affrontare la Piazza.

Si sente, per un attimo, ma con un'intensità a cui non è abituata, stanca di tutta quella fatica.

Ha tredici anni, è paziente, ha voglia di essere felice.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 85

Davanti allo specchio della toeletta dell'autogrill, un mozzicone di kajal fra le dita macchiate di nicotina, Emma segna con una riga nera l'orlo interno della palpebra inferiore, annerisce la palpebra superiore, sfuma con il polpastrello, allunga la forma dell'occhio sottolineandone il taglio orientale, si pizzica gli zigomi per ottenere un po' di contrasto al pallore compatto della carnagione. Resta per un attimo ferma, a guardare le fosse scure in cui affonda il suo sguardo, si passa un rossetto quasi marrone sulle labbra screpolate, si spazzola i capelli con energia, strappa quelli rimasti nella spazzola, li guarda disegnare ghirigori sul lavandino.

Si guarda di nuovo, riflessa nello specchio.

Lentamente, fissandosi, si fa il segno della croce. Mormora: «Gesù, fammi la grazia. Ti prego».

Si vergogna per aver ceduto alla superstizione e allora alza la voce e continua, cercando di scherzare, come se qualcuno potesse sentirla.

«Se mi fai la grazia, io... mi comporterò come se Tu esistessi davvero, tu, Maria, Dio padre onnipotente... tutta la compagnia. Farò proseliti. Andrò in giro a predicare.»

Nello specchio è entrato il volto di una donna che la guarda. Emma ripete il segno della croce e si infila nel gabinetto che si è appena liberato. Mentre si abbassa le mutandine le batte il cuore. Ha sentito qualcosa muoversi. Ne è certa. Ha sentito qualcosa di umido. Guarderà la striscia di cotone rosa e vedrà la macchia rossa del sangue mestruale, un rombo dai contorni irregolari, che metterà fine all'incubo. È da dieci giorni che aspetta di vederlo e lo vedrà. Il viaggio, il costante peso che le ha aggravato la parte bassa della schiena, la nausea e quel gusto di carta bagnata, tutto fa pensare al ciclo, la normalità femminile ristabilita. Invece no. Niente macchia, niente di niente. Fissa la stoffa immacolata, appena appena umida di sudore, e improvvisamente sa.

Farà il test di gravidanza. Ma ormai non ha dubbi, non è stata graziata.

Esce dalla toeletta, attraversa il bar e l'area mercato dove sono in mostra grosse forme di parmigiano e caciotte e salami e biscotti. Il cibo esposto la disgusta, cammina svelta in direzione dell'uscita. Vicino alla cassa rallenta per guardare i giocattoli, le trombette, le caramelle. Prende una bambola, la posa.

La cassiera la tiene d'occhio: osserva i jeans sfrangiati, il maglione da uomo un po' sformato e i piedi, nudi in un paio di sandali inadatti alla stagione. È evidente la tribù a cui appartiene. Potrebbe avere una pistola nascosta nei pantaloni, potrebbe rubare tutte le bottiglie di whisky. Potrebbe tirare fuori una bomboletta spray e dipingerle la faccia di rosso.

E adesso che cosa fa? Emma bacia una bambola con la cuffietta azzurra. Poi sorride alla cassiera.

«Aspetto un bambino», dice, raggiante e improvvisamente bellissima. La cassiera restituisce il sorriso.

«Auguri.»

«Grazie.»

Emma esce dall'autogrill e si avvicina alla macchina, si accorge che sta ancora sorridendo, non è certa di saper dissimulare lo spavento. E neppure la gioia. Non è certa che i due sentimenti possano coesistere.

Giorgio le indica, con un gesto severo, tre pacchi di wafer, un rasoio, una confezione di tappi per le orecchie, un sacchetto di ovatta, tutto buttato nel portabagagli aperto.

Guido ha di nuovo rubato. Emma guarda il bottino, con accurata indifferenza.

Guido ridacchia, contento che non si unisca alla riprovazione di Giorgio.

«Non arrivavi più. Avevo paura che ti avessero beccata, magari ti tenevano in ostaggio perché ti hanno vista con me.»

Giorgio si rimette al volante.

«Andiamocene, questo qua è proprio un idiota.»

Guido recita: «Le merci esposte costringono il cittadino al consumo. Fregarle è un gesto rivoluzionario.»

«Be' non farlo quando sei con me il gesto rivoluzionario, astieniti, cazzo. Non ho intenzione di finire in galera per un pacco di wafer.»

«L'esproprio proletario è un valore in sé, non importa se è un salame o un kalashnikov.»

«E dov'è il proletario? Saresti tu?»

«Dopo che mi hai costretto a pagare benzina e autostrada sì, sono abbastanza proletario.»

La discussione prosegue rituale. Giorgio è figlio di una coppia di insegnanti cattolici, la quota di illegalità che è disposto ad accettare è minima. Non gli piacciono le allegre trasgressioni, la violenza che chiama «lafcadiana» citando Gide, contesta l'autoriduzione del biglietto del cinema, gli assalti al banco delle primizie, la requisizione del caviale beluga. Vorrebbe una rivoluzione seria, preparata per bene, inoltrando domanda in carta da bollo.

«Il superfluo, bisogna insegnare ai borghesi a farne a meno, non bisogna distribuirlo ai proletari.»

«Augh.»

Guido ha un padre ricco, che vive a Modena e lo mantiene a Milano, dove dovrebbe studiare legge. Abita in una casa di ringhiera, sul Naviglio, a Ripa Ticinese. Emma ha preso l'abitudine di rifugiarsi lì, quando la coabitazione a sette, nella comune di via Lorenteggio, le pesa troppo. Quando ha bisogno di solitudine, o di dormire fra oggetti graziosi. Naturalmente questo succedeva prima che Sandro la portasse a vivere in un residence, mirabile luogo dall'arredamento standard ma scintillante di cromature, con le lenzuola cambiate due volte a settimana e la vasca da bagno pulita.

La discussione si interrompe perché Guido si è voltato verso Emma, che tace e guarda, fuori dal finestrino, la città, nelle sue propaggini periferiche.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 107

Il 10 di luglio, prima di dormire, Emma scrive sul quaderno: FOLLIA. E sotto, dopo uno spazio bianco:

C'era un cerchiolino sulla superficie del cilindro, un cerchiolino blu sulla mia pipì. Ombretta mi ha accompagnata al consultorio e lì c'era questa ragazza sarda, piantata su due gambe pesanti, con una bella faccia quadrata. Mi trattava benissimo ma con un sorriso di pietra. Credevo fosse una ginecologa, anche se stava in jeans e maglietta. Invece no. Ha detto che i ginecologi non servono a un cazzo. Io non sono riuscita a nascondere la mia paura. Mi ha lasciata sola nella stanza d'attesa, Ombretta diceva che lì sono bravissime, che ci hanno fatto il karman un sacco di amiche sue, io ho detto che io non voglio fare nessun karman che io voglio partorire e fare in modo che vada tutto bene. Mentre lo dicevo pensavo che non sono affatto sicura, allora lo dicevo di nuovo, aggiungendo particolari psicologici e ogni volta che lo dicevo diventava un po' più vero. Dopo dieci minuti, si è aperta la porta e mi hanno fatta entrare nel posto dove fanno gli aborti. Accanto al lettino (quello orribile dove ti devi mettere con le gambe per aria) c'era la ragazza sarda, ma c'erano anche altre ragazze, vestite normali, però soltanto col pezzo di sopra, tipo la maglietta o la camicia. Sotto erano nude e ridacchiavano, come le bambine a scuola, nell'intervallo. La ragazza sarda ha detto che dovevano andare di là e cominciare, che lei aveva da fare con me e poi le raggiungeva, che cominciassero a guardarsi una con l'altra. Quando siamo rimaste sole, ha detto: È il self-help, devono imparare a usare lo speculum, qualsiasi donna è in grado di controllare lo stato dei suoi genitali, hai letto Noi e il nostro corpo? Io ho detto no, non l'ho letto e lei ha staccato da un chiodo sul muro un camice bianco troppo lungo e l'ha indossato. Si stava infilando dei guanti di gomma quando io ho detto: Scusa, ma me ne devo andare. Lei ha detto: Guarda che sono una ginecologa. Io ho detto: Certo certo ma non si tratta di questo. Lei ha detto: E allora di cosa? Ho detto: Niente, mi sono ricordata che ho un appuntamento. Lei ha provato a sorridere un po' meglio, ma non ha proprio la mascella adatta, metteva le labbra come per sorridere e la pelle della faccia andava a sbattere contro le ossa e restava lì, tutta arricciata, senza modificare lo sguardo. Ha detto: Vuoi che ti faccia vedere il diploma di laurea? Allora Ombretta che era entrata con me, perché qui a Roma le donne fanno tutto a due a due (io vado al bagno e lei viene con me, se va al bagno lei mi dice dai vieni che andiamo a pisciare), ha detto: Ha paura che vuoi farla abortire, lei questo bambino se lo vuole tenere perché pensa che così avrà almeno un rapporto autentico nella sua vita, che tutto è finto anche con gli uomini ma un figlio no quello anche se non sei tanto portata per l'amore riesci ad amarlo. Erano le cose che avevo detto io nella stanza d'attesa, ma a sentirle dette da lei, così, tutte di fila, senza pause, mi sono sembrate false. Così è successo di nuovo: mi sono messa a piangere. Io non la sopporto questa cosa del pianto. È come se tutto quello che mi serve per vivere si stesse sciogliendo, ogni volta che piango perdo muscoli, accessori, anni e munizioni. La ragazza sarda mi ha abbracciata. Aveva addosso un odore di pulito nauseante. Dev'essere una di quelle che si lavano col bagnoschiuma al gelsomino e poi mettono il deodorante e sopra il profumo. Ha detto: Guarda che io voglio solo visitarti. L'ha fatto.

Ha detto che andava tutto bene. Ha detto che dovevo fare un tot di analisi del sangue. Mi ha detto dove dovevo andare per non pagare. Ha detto quando ci dovevamo vedere di nuovo. Poi ha detto: Come mai lui non ti ha accompagnata? E io ho detto: Lui chi? Ombretta mi ha guardata come cercando di farmi capire qualcosa. Poi ha detto: Lui lavora, magari viene la prossima volta e adesso dai andiamo che io ho da fare. Me l'ha spiegato dopo, mentre aspettavamo il tram per tornare al lavoro, che non devo dire cose come «il padre non c'è», perché a quel punto ti fanno un sacco di storie. Che storie, ho detto, che gliene importa del padre, sono femministe o no? E Ombretta ha detto: Sì, però sono più vecchie di noi e lo sanno che se non hai un uomo allora è meglio fare il karman e pace.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 245

L'ha portata a casa sua. Per la prima volta.

Non riesce ad ascoltarlo, mentre le parla diffusamente di certe tensioni che animano la vita quotidiana del giornale. Non riesce a prestare attenzione alle frasi ben distese che Sandro le porge come omaggi alla loro intimità mentre entra ed esce dalla cucina, portando il cestino del pane, l'oliera, un piatto di peperoni al forno preparati dall'Assuntina, la donna di servizio che ha ereditato da sua madre e che, nonostante i sessantanove anni, ancora ha energia da vendere. Si muove per la camera da pranzo come una turista in un museo, esagera l'attenzione per ogni quadro. Ce ne sono parecchi. Si ferma davanti a uno che le pare di riconoscere. Se pensieri pesanti non le affollassero la mente, impedendole qualsiasi godimento, lo troverebbe bello. Per i colori terrestri, rosso mattone e giallo fieno e marrone fango, per le sagome dei contadini, per la ragazza vestita di bianco in primo piano con le guance rotonde e senza occhi. Pensa che potrebbe dire qualcosa di bello su quel bel quadro con il tono stupito e appagato delle anime davvero sensibili, pensa che Sandro la approverebbe, che loderebbe il suo istinto, come ha fatto altre volte. Ma Sandro appoggia un piatto di affettati sul tavolo e dice: «È un Guttuso. Occupazione delle terre. L'ha regalato Guttuso a mia madre, e mia madre l'ha regalato a me. Vieni a mangiare».

Emma siede sul bordo di una sedia imbottita e ricoperta di velluto giallo. Il tavolo è al centro di una stanza rettangolare, lunga e stretta, che culmina con la porta finestra aperta verso un terrazzo pieno di fiori.

«Come sta tua madre?» Mentre pronuncia la domanda si rende conto che sta perdendosi in salamelecchi.

«Mangia, bambina, perché stai lì a guardare il prosciutto?»

«Sta bene tua madre?» Esagerare, perché no? È tale l'ansia, il disagio che le mette addosso quell'appartamento, inutile nasconderla.

«Sì, no, non lo so... perché mi chiedi di mia madre?»

«Non riesco a dimenticare la prima volta che l'ho vista. Ti ricordi? Tu vivevi in quel pezzo di casa contadina con Donatella e Maria e non mi ricordo chi altro, quei due tipi sardi... io ero arrivata fin là per vedere Maria.»

«Eri una bambina, certo che mi ricordo. Ho avuto voglia di saltarti addosso subito. Dal primo momento che ti ho vista. Però mi sono trattenuto fino al raggiungimento della maggiore età. Eroico.»

«Tua madre era spiritosa come te, era divertente come te, era a suo agio nel mondo. E questo la situava fuori dalla categoria delle madri... Anche tua moglie è così vero? Non è lagnosa e gelosa come le mogli. Scommetto che anche lei è a suo agio nel mondo. Si muove in questa bella casa tenuta scrupolosamente pulita dalla tata della tua infanzia senza mai sbagliare un passo e se si guasta la tata della tua infanzia la sostituirà con la tata della sua infanzia, perché avete avuto infanzie simili... Guttuso è amico di tua madre... E sua madre da chi se li faceva regalare i quadri da giovane? Morandi? Manzù? De Chirico?»

Sandro mastica lentamente e la guarda con un principio di preoccupazione.

Emma vorrebbe fermarsi, vorrebbe mondare la sua voce da quell'inutile severità, ma non riesce a esercitare alcun controllo, sente che le sue zone d'ombra stanno prendendo il sopravvento.

Non ha ancora toccato il prosciutto, lo speck, il salmone che Sandro le ha sistemato nel piatto. Anche il piatto è un quadro, lo guarda, con un'attenzione critica, come se fosse una natura morta.

«Ho il sospetto che non sia stata una buona idea, invitarti a cena a casa mia.»

«No, non è stata una buona idea. Perché l'hai fatto? Sei stanco? Portarmi in ristoranti troppo costosi perfino per i tuoi amici borghesotti non ti è sembrata una precauzione sufficiente? O volevi mostrarmi il tuo habitat... Qui vive l'uccello in cattività, questa è la sua gabbia. Oppure il suo nido... no, troppo lindo per essere un nido. Mentre scaldavi i peperoni e spolveravi di zucchero le fragole mi sono spinta fino alla nursery. Sembra un negozio di giocattoli prima dell'orario di apertura... I nidi sono pieni di erba secca, ci sono rametti ribelli, bave di fango, piume volanti... qui stagna una perfezione da catalogo...»

«Non ti sembra un po' fuori luogo la polemica sugli stili di vita della...»

Lo interrompe.

«Della borghesia? No, per carità... So bene che siamo tutti rientrati nei ranghi. È solo che... se devo misurare la distanza fra questa casa e quella in cui ti ho conosciuto mi sembrano passati più di quindici anni. Tipo: un secolo.» Si tampona la bocca con il tovagliolo anche se non ha ancora toccato il cibo. Si accorge dell'inanità del gesto e beve un lungo sorso dal calice panciuto del vino rosso. «Io li detesto i secoli, non mi piacciono le ere geologiche, vado meglio coi giorni, i mesi, gli anni... ma già gli anni mi stanno sulle palle... Non l'hai mai vista casa mia. Devi venirci una volta. Ci sono due camere. Quella dove dormo io è anche la camera di Bambino, quella in cui dorme Ombretta è anche il salotto. E poi c'è la cucina, dove mangiamo, che è abbastanza grande e abbastanza accuratamente sporca da permetterci di ricordare i bei tempi della comune.»

«Perché non cambi casa, Emma. Guadagni bene adesso.»

«Non durerà: mi sono fatta subito riconoscere... Mia madre me lo diceva sempre: non facciamoci riconoscere, era uno dei capisaldi del suo sistema educativo... Non le ho dato retta: mi sono fatta subito riconoscere. Tiro continuamente fuori dalla borsa dei libri, mi rifiuto di riciclare le barzellette degli anni Cinquanta, non faccio ridere, non rido, non mi sintonizzo mai sugli umori dominanti e continuo a provare un sincero disgusto per la televisione in tutte le sue forme.»

«E questo ti riempie di orgoglio?»

Sandro ha il piatto vuoto, gli occhi stanchi, una ruga sulla fronte che rimane anche quando la perplessità lascia il posto a un principio di noia.

Emma se ne accorge e incomincia, lentamente, a tagliare il prosciutto. Ha lo stomaco chiuso.

Inghiotte a fatica e poi sorride.

«Meno male che c'è tua moglie di mezzo... Se io e te ci sposassimo dimagrirei fino a scomparire.»

«Mi dispiace di averti portata a casa. Non immaginavo.»

«Non ti intendi di psicologia dell'adulterio. Mai portare l'amante dove abita la moglie.»

«Non dire quella parola.»

«Amante? Perché... E quella esatta.»

«Non ti somiglia.»

«Lo so, ma non abbiamo un lessico adeguato, noi che siamo rimasti incagliati in stili di vita giovanili e rivoluzionari.»

| << |  <  |