Copertina
Autore Ermanno Rea
Titolo La dismissione
EdizioneRizzoli, MIlano, 2002, La Scala , pag. 374, dim. 140x223x36 mm , Isbn 978-88-17-86957-7
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe narrativa italiana , storia contemporanea d'Italia , storia sociale , citta': Napoli
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Pagina 9

«L'espressione malinconica dei tuoi occhi, la tua aria tra rassegnata e distratta, i tuoi gesti molli... ecco un buon punto di partenza. Che cosa c'è dentro di te in questo inizio avanzato di millennio?»

Bella domanda per cominciare un libro. Una grande desolata radura, che cos'altro potrebbe esserci? Quanto ai miei «immediati dintorni» (strano modo di alludere a mia moglie Rosaria), hai fatto bene a tirarli in ballo tra le prime quattro domande che mi hai sottoposto, "tanto per entrare in argomento". Giusto una settimana fa Rosaria mi ha preannunciato infatti di essere in procinto di partire «per un periodo di riflessione» (si dice sempre cosi quando un matrimonio comincia a traballare).

Non è la prima volta. Di "pause di riflessione", nell'ultimo anno e mezzo, se n'è concesse ben tre (è partita, è tornata, e ha continuato a tacere, a ignorarmi: proprio come prima). Questa sarà la quarta. Me lo ha comunicato mentre era a letto e faceva finta di leggere un giornale. Io sfogliavo alcune carte seduto dietro a un tavolino a pochi passi da lei.

In genere o lavoro li oppure in cucina: la casa è piccola, è inevitabile sorvegliarsi a vicenda. Il suo sguardo era di ghiaccio e mi sono chiesto che cosa passasse di preciso per la sua testa. Ma non ho detto niente. Né commenti né domande. Nessuno sa tacere più di me quando decido di tacere. Non lo faccio per calcolo, nel senso che il silenzio fa parte di me, della mia natura.

Immagino che andrà, come in passato, per qualche tempo dalla sorella, che vive nei pressi di Roma, in modo da essere nel contempo vicina a nostro figlio (si traferi nella capitale che non aveva ancora vent'anni).

Mi sono impegnato a raccontarti la mia vita senza neanche l'ombra di una reticenza; a denudarmi innanzi tutto come uomo: marito, padre, amante, macchina di pensieri e di sentimenti quale ogni essere umano è. Intendo stare ai patti sino in fondo. A partire da subito.

Non credo che tra me e Rosaria esista un effettivo pericolo di rottura. Ma se rottura dovesse esserci, ti assicuro che il colpo potrebbe risultarmi insopportabile al di là della mia stessa immaginazione. Io non so se ciò che provo per mia moglie sia amore: so però che si tratta di un sentimento che pervade tutta la mia persona, rendendomela indispensabile in ogni senso, perfino olfattivamente, come odore che mi accoglie quando la sera torno a casa.

È una donna minuta, molto minuta, ma che ispira un grande senso di forza. Ha una figura ancora giovanile, un volto dai lineamenti sottili e regolari. Un suo identikit potrebb'essere quello della calda saggezza: intelligente, capace di molte premure e chiacchierona; piuttosto golosa ma poco amante dei fornelli (quante sere abbiamo comprato pizze al Calamaro e ce le siamo portate a casa in allegria: pizze, birra e un paio di frolle o, in alternativa, di bignè del Sandomingo). Né religiosa né superstiziosa (mai vista fare gesti di scongiuro, ma pronta a rabbuiarsi se ero io a farli), lettrice accanita di libri e giornali; piena di attitudini sociali: sino a poco tempo fa, oltre ad aiutare di mattino il fratello che ha ereditato con lei una piccola azienda paterna, frequentava con assiduità la Circoscrizione, impegnata, per amore del prossimo, ad assistere pensionati, vecchi, disabili.

Una volta costituivamo una specie di coppia perfetta: lei era la mente, io il braccio. Mai uno screzio, una gelosia, un malinteso. Sino a quando, qualche anno fa, Rosaria venne a sapere qualcosa di me che non sapeva, che io le avevo taciuto. Ne rimase profondamente ferita, maturando nei miei confronti un sentimento di delusione che non è riuscita più a vincere.

Sono almeno due anni che frequenta quel luogo oscuro e angoscioso che si chiama indecisione, senza rendersi conto che ogni giorno che passa un nuovo pezzetto del nostro rapporto va in frantumi: che cosa resterà fra tre mesi, cinque mesi, al massimo un anno? Ma lei non sembra rendersene conto. È una donna forte che d'improvviso ha scoperto dentro di sé gli abissi dell'esitazione, restandone spaventata. Una "decisionista" di colpo incapace di decidere.

Ho le mie colpe, questo è naturale. Ho commesso errori e te ne parlerò, anche in maniera diffusa, quando ti parrà il momento. Niente di particolarmente grave, comunque. Li ho commessi un po' alla volta, in lenta progressione, senza rendermi conto del pasticcio nel quale mi andavo cacciando.

Ed eccomi alla fabbrica. Anzi, all'ex fabbrica. Ne rimane in piedi ancora un pezzo - il treno di laminazione - ma per fortuna sta per andare via anche quello. Meno male: la sua presenza era diventata un incubo per tutti. Pensa, sono dieci anni che il tuo amico Vincenzo Buonocore assiste al medesimo spettacolo: come si sgretola e scompare - ma piano, pianissimo, una scheggia per volta - una grande acciaieria pur condannata in blocco in maniera irrevocabile. Quando si dice un'agonia. Dieci anni possono essere una vita, e tu vuoi adesso che io te li racconti uno per uno: devo essere proprio pazzo ad averti detto di si.

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Le voci della grande svendita andavano e venivano sulla cresta del vento: si smontano le colate continue a favore dei cinesi; si smonta l'altoforno 5 a favore degli indiani; si smontano i forni a calce a favore della Malesia; si smonta il treno di laminazione a favore della Tailandia; sono in vendita carriponte di ogni potenza e portata; si cedono al miglior offerente vagoni ferroviari, binari, due immensi scaricatori da pontile addetti al prelevamento dei minerali dalle navi (Malesia?); si vendono motori elettrici per ogni esigenza, da 500 a 5000 volt (l'Ilva, dicevano tutti, è come il maiale: una volta che lo hai ammazzato non butti via niente). Perfino il cemento frantumato si sarebbe trasformato in oro, e non soltanto per i tondini di ferro in esso contenuti (li vendemmo ad altre acciaierie) ma per se stesso, il cemento, che, macinato una seconda volta, sarebbe stato commerciabile come materiale inerte da utilizzare nei sottofondi stradali. Ed erano in vendita suppellettili, scaffali, attrezzature per uffici...

All'ora della mensa, il tema delle cessioni ovvero della svendita del patrimonio, era una fonte inesauribile di alterchi tra i tavoli. Ognuno la pensava in un modo, ognuno viveva l'approssimarsi della fiera da una sua personalissima prospettiva emotiva.

Quell'anno non ci furono suicidi, almeno che io ricordi, ma numerosi ricoveri di carattere psichiatrico. Fu Rosaria a mettermi per prima in guardia contro le mie stesse ansie e ubbie. «Si comincia così e si finisce tra le braccia del dottore» mi ammonì. «Sai quanta gente a Bagnoli tira avanti a furia di Serenase? La chiamano depressione agitata.»

Eravamo come in una specie di limbo - vorrei che questo fosse ben chiaro davanti ai tuoi occhi - né di qua né di là. L'Ilva era ancora in piedi, anzi intatta. Non respirava più, questo è vero, ma sarebbe bastato poco a rianimare il suo sistema venoso, a rimettere in marcia i suoi potenti polmoni.

L'ultima colata era avvenuta quattro anni prima, nell'ottobre del 1990, e io la ricordavo come se si fosse svolta il giorno avanti. Mi ero svegliato all'alba come d'abitudine: il golfo di Pozzuoli emergeva dai vapori della notte venato di un rosa carico, corallino, inconfondibile indizio di tempo sereno. Non credo di sbagliare affermando di avere allungato alcune occhiate alla fabbrica e alle sue lingue di fuoco in maniera niente affatto sbadata o meccanica. Anche perché il mio punto di osservazione era (e resta) tra i più elevati di Bagnoli: un appartamentino a oltre venti metri sul livello del mare (sesto piano) con due piccoli terrazzi uno dei quali orientato proprio in faccia alla collina di Posillipo e quindi all'Ilva e a Nisida. E poi: quei fuochi, quel corallo, non erano sul punto di scomparire per sempre? (Rievoco spesso con Rosaria l'alba di quel giorno, e lei puntualmente conferma: «Certo che c'era tempo sereno; certo che il cielo aveva striature rosa carico, coralline, anzi fucsia».)

Nella mia vita ne ho conosciuti pochi di momenti brutti come quello. Quando anche l'ultima goccia di metallo si era trasferita in basso, l'uomo addetto alla lingottiera aveva strozzato il tubo scaricatore mentre il tecnico di esercizio dava il segnale di fine colata. Non so chi scrisse che tra i presenti c'era stato qualcuno che si era coperto il volto con le mani. Giuro che non fui io a compiere quel gesto: non c'era emozione nel mio cuore; soltanto un grande gelo.

Sento di essermi affacciato invece alla balaustra della piattaforma e di essere rimasto a fissare imbambolato la parte inferiore dell'impianto. Accanto a me il coperchio della lingottiera continuava ad ansimare, ma sempre più piano, a intervalli più lunghi proprio come accade a chi sta per rendere l'anima a Dio.

Ne è trascorso di tempo da quell'infausto giorno. E dai febbrili mesi che lo precedettero, quando ancora eravamo in trincea aggrappati a un filo di speranza. Io, "Super CCO", ero dappertutto; mi arrampicavo come una scimmia sulle scale in carpenteria che montavano dalla base dell'impianto su su fino alla piattaforma e ancora più su, risucchiato dai continui appelli degli uomini addetti all'esercizio: corri, Tarzan, qui c'è troppo vapore, una perdita, un casino; Tarzan, si è inceppata la valva della falsa bramma; Tarzan, qui c'è un rullo che balla... Mi chiamavano Tarzan, purtroppo. Oppure Super CCO. Sfottevano, certo. Ma soltanto in parte.

Ne è trascorso di tempo: addirittura un decennio, se non di più, rispetto a oggi. La chiusura dell'area a freddo avvenne l'anno dopo. Nel '92 si fecero vivi i cinesi, interessati soltanto alle colate continue (non li ricordo curiosi di altro, a differenza degli indiani che si spostavano in continuazione da un reparto all'altro e sembrava che volessero comprare l'Ilva in blocco, fino all'ultimo utensile).

Toccò a me fare gli onori di casa. Per la verità, in quell'occasione, non ebbi affatto la sensazione di un loro reale interesse per l'impianto: forse a causa del comportamento sorvegliato della delegazione, delle loro facce così neutre, indifferenti, attentissimi a non lasciar trasparire né pensieri né emozioni come incalliti giocatori di poker.

La trattativa invece andò avanti. Tornarono a Bagnoli l'anno dopo, mentre io ero in missione a Taranto; poi ci fu una missione italiana che si recò a Meishan, ma della quale non potetti fare parte sempre perché in trasferta altrove. Infine, eccoli adesso sul punto di tornare: questa volta per sorvegliare - ad affare concluso - le varie fasi di smontaggio, di imballaggio e di carico dell'impianto sulle navi.

In sostanza, io non ho altro da raccontarti che questo, non vorrei che tu ti facessi troppe illusioni. La mia vita in buona parte comincia e finisce con le colate continue. È capitato così, punto e basta. Ma a te sarà sufficiente la cronaca di un semplice smontaggio? Si tratta di una faccenda tutto sommato terra terra, anche se io l'ho vissuta in tutt'altro modo, con animo grandioso, se mi è concesso dirlo, consapevole che quella era la mia grande occasione e guai se me la fossi lasciata scappare. Temo che sia la sola nota memorabile della mia grigia biografia. Pensaci bene: cos'altro avrò da raccontare ai miei nipoti se non la fatica di un colossale smontaggio che è stato nello stesso tempo un estenuante e brutale addio al passato? D'altronde sono fatto cosi: non è da me assistere in modo passivo a quel che succede, devo essere dentro alle cose, devo partecipare, devo impugnare uno scettro, se è possibile.

Né devi pensare che l'esperienza sia stata soltanto dolorosa: c'è sempre una faccia lieve, amena, perfino eccitante nei grandi avvenimenti umani, compresi i più foschi e drammatici; c'è sempre un momento in cui la tensione corre a sciogliersi da qualche parte o indossa una specie di abito da festa. Ne abbiamo fatti di brindisi con i cinesi; ne abbiamo trascorse di serate assieme, più o meno in allegria. Ce ne siamo fatte di confidenze. Ricordo come fosse ieri il giorno in cui Chung Fu, con la sua aria circospetta e cospiratoria, mentre ci intrattenevamo da soli, quieti quieti, alle colate, mi disse d'un fiato nel suo mezzo inglese-mezzo italiano: «Perché non vieni a stare con noi in Cina? Dicci una cifra e trattiamo».

Stava per venirmi un colpo. «Ma io...»

Aveva perfettamente capito quanto mi costasse separarmi dal mio impianto, ma per favore, non lo dovevo fraintendere: l'offerta lui me la faceva in nome della Cina. Non ero io ad avere bisogno del suo paese, era il suo paese che aveva bisogno di me.

Di me?

Certo, confermò, pur con il suo sorriso enigmatico.

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Del resto, anche se fossi riuscito a parlargli, che cosa sarei stato in grado di dirgli? Che mi stavo adoperando soltanto affinché le colate continue non avessero avuto troppo a soffrire a causa del trasferimento da Bagnoli a Meishan? Non mi avrebbe capito. L'uomo senza volto era impigliato in un diverso ginepraio psicologico, era tra quelli che pensavano che ci fosse ancora qualcosa da salvare, mentre secondo me non c'era altro da salvare che l'integrità dell'impianto. Impedendo per esempio agli uomini addetti all'esecuzione materiale dello smontaggio di risolvere qualunque difficoltà o problema sostituendo la fiamma ossidrica alla pazienza e all'intelligenza - tanto chi se ne frega se si taglia o si sbullona, ci penseranno i cinesi a mettere le cose a posto...

Non avrebbe capito cioè che per una persona del mio genere, con il mio passato e i miei limiti, viene prima di tutto la macchina: siviera, paniera, lingottiera, i rulli dentro ai segmenti, le stampigliatrici, la falsa bramma, i cannelli da taglio e via elencando tutto l'armamentario, un pezzo dietro l'altro. Perché la macchina è sacra, è tutto. È ordine e disciplina. È razionalità. In definitiva, è quanto di pulito e rispettabile resta ancora in questo mondo caotico.

Forse avrebbe addirittura riso della mia ansia di vedere sbullonate le colate continue con un lavoro amorevole e certosino; avrebbe scambiato per semplice follia la mia pretesa di sorvegliare che nessuno si fosse permesso di offendere il mio impianto con piglio da demolitore, con l'impazienza di chi vuole far presto a ogni costo. «Tu sei pazzo, Buonocore, pazzo da legare» avrebbe detto. «Tu non hai capito che noi dobbiamo impedire a ogni costo che la fabbrica scompaia. Per noi, è questione di vita o di morte.»

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Il professore allora commentò: «A volte la storia sa essere capricciosa e imprevedibile. Di rado, ma capita».

Il governo fu costretto a promuovere un'inchiesta su Napoli - l'inchiesta Saredo - che si può considerare in maniera legittima, anche se figurata, il primo atto costitutivo dell'Ilva, il primo passo che doveva poi condurre all'edificazione materiale dell'acciaieria. Essa fu concepita insomma, almeno in parte, come vaccino contro la locale malasocietà. Una fabbrica-medicina, una fabbrica-terapia: non si era mai vista una cosa del genere! Fu un grand'uomo, un grande meridionalista, ad architettare il disegno: Francesco Saverio Nitti.

Nel salone gremito della libreria si udiva a stento il respiro un po' accelerato della folla. Pendevamo tutti dalle labbra del professore: quante cose non sapevamo. «Quante cose vi sono state tenute nascoste», disse lui, leggendo nel pensiero degli ascoltatori.

«Sei stanca?», chiesi in un orecchio a Rosaria. Scosse il capo. Non si sarebbe mossa di lì per tutto l'oro del mondo. Lui intanto divagava, saltabeccava con il discorso di qua e di là facendo della parola mite, sussurrata, carezzevole un'affilatissima lama. Chi dice che la grazia e l'incanto non possono passare attraverso una bocca devastata, equina? Spesso lo sguardo del professore indugiava nel vuoto, cioè sugli scaffali zeppi di libri. A un certo punto disse: «Sento qui dentro la presenza di mondi infiniti. Non esiste l'aldilà; esistono i libri. Sono loro la resurrezione. Sono loro il giudizio universale. Sono loro la memoria di ogni cosa».

Riflettendo sui rapporti tra Napoli e la fabbrica scomodò anche la psicanalisi: dove bruceremo più le nostre lordure? Quando era giovane andava spesso con la sua ragazza a fare l'amore al Parco delle Rimembranze, perché là la notte era incendiata dalla fabbrica con le sue ciminiere incandescenti. Da Bagnoli saliva verso la collina una miscela di odori acri che faceva battere il cuore come un afrodisiaco. Né erano loro due i soli, lassù, che si godevano lo spettacolo della rossa Ferropoli e, potendo, si accoppiavano. Si udivano ansiti sparsi; ogni cespuglio era un'alcova, senza contare le automobili che sussultavano e cigolavano raccontando di inauditi orgasmi.

«Amici, non scherzo, noi amavamo Bagnoli. Perché rappresentava mille cose insieme ma, prima di tutto, perché incarnava ai nostri occhi una salutare contro-cartolina della città. Una contro-cartolina che trasformava in alacrità l'indolenza, in precisione l'approssimazione, in razionalità l'irragionevolezza, in ordine il caos, in rigore la rilassatezza. L'amavamo perché introduceva in una città inquinata - la Napoli della guerra fredda, dell'abusivismo selvaggio, del contrabbando - valori inusuali: la solidarietà; l'orgoglio di chi si guadagna la vita esponendo ogni giorno il proprio torace alle temperature dell'altoforno; l'etica del lavoro; il senso della legalità...»

«Molti» soggiunse «non mi credono quando dico che questa è stata una città fondamentalmente proletaria. Quello che anzi mi pare oggi in via di volontaria cancellazione è forse proprio questa tradizione, questo vecchio cuore.»

Concluse affermando che vi è un'età della vita in cui si è portati a cogliere soprattutto i significati reconditi degli avvenimenti, il loro lato simbolico, allegorico. «E se la dismissione» disse «stesse diventando più che una necessità da declicare al singolare, più che una semplice sottrazione da compiere in serenità e fiducia, un rito di autocannibalismo collettivo? Voglio dire che, prima ancora che orrenda, la parola dismissione mi fa paura per quel suo mostrare grandi fauci spalancate, per l'aggressività evocata da quel suo ininterrotto sibilare, per le sue pretese onnivore, per la sua capacità di alludere al mondo intero: per lo meno al mio mondo, al mondo di coloro che hanno la mia stessa età e hanno vissuto le mie stesse esperienze, coltivato le mie stesse speranze.»

Fu una serata indimenticabile. Senza scoppi d'ira, senza urla, accuse, bestemmie, come avveniva di norma a quell'epoca quando si discuteva di quell'argomento. Una serata piena d'ombre, di fantasmi del passato, dominata da un professore dal sorriso in apparenza bonario, capace però di tenere in pugno, proprio con quel sorriso, il più inquieto e teso degli uditori.

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Pagina 116

Risposi per le rime. «Anche lei esagera a fidarsi tanto di me. Io non sono del tutto sordo al fascino del tradimento.»

Si mise a ridere. «Ma via! Questa volta l'ha sparata grossa! Sono sicuro che invece lei è al fondo un poeta: ha tutta l'aria di parlare con le macchine.»

E poiché io scuotevo la testa come succede a chi si sente oggetto di burla, lui disse con tono premuroso: «Ho detto qualcosa che non va? Qualcosa di offensivo? Perfino a me, sa, capita di parlare talvolta con le macchine, benché io sia un mezzo umanista: pensi lei, sono laureato in Filosofia, il che dimostra una volta di più quanto possano essere infinite le vie del Signore. Insomma: ci parla o no con le macchine?».

«E come potrebbe essere il contrario? Crede che si possa vivere per anni in costante comunione con qualcuno o qualcosa senza che questa comunione si trasformi prima o poi in colloquio? Dottore, la mia non è stata una vita facile. Lei sarà pure un umanista, un filosofo, ma per certo di tipo speciale dal momento che non è all'oscuro di ciò che succede su una fossa di colata. Ero poco più di un ragazzo, apprendista primo siviera, quando cominciai a parlare con le macchine.»

Annuì con vigore, forse per impedirmi di andare avanti. Ma io continuai a sfogarmi. Il mio compito, dissi, consisteva nel conficcare l'estremità appuntita di un palo lungo cinque metri in un buco in fondo alla siviera. L'operazione si compie prendendo una rincorsa in maniera da colpire l'obiettivo con una certa violenza, senza la quale difficilmente lo scaricatore, una specie di rubinetto imbevuto di cemento di pronta presa fissato all'estremità del palo, resta ancorato nel buco.

Non sempre riuscivo a centrare il bersaglio. Poiché il palo scorreva su un altro palo sistemato a croce, bastava un piccolo intoppo, un'oscillazione da niente a far andare a vuoto il tentativo. Allora scappavano le prime parole. E poiché una parola tira l'altra, ecco che le parole diventavano mille, diecimila, tutto un lungo e complicato discorso. Diretto al palo collocato di traverso; oppure a quello armato in punta di scaricatore; oppure al buco della siviera; o infine alla siviera stessa. Tante parole. E non soltanto per protestare. Si parla anche per blandire, per offrire la propria amicizia, per muovere a compassione. Chi dice che una macchina non possa mostrarsi nei nostri confronti anche compassionevole? O, al contrario, dura, ostile, astiosa? Essa in verità, questo almeno io credo, si rende conto quando colui che la manipola ha un tocco maestro, esperto, rispettoso, e quando invece si tratta di dita aggressive e brutali, prive di qualsiasi intelligenza e finezza. Io non intendo attribuire un'anima alla macchina, come potrebbe accadere a qualcuno di troppa immaginazione. Intendo attribuirla - o non attribuirla - agli uomini che la frequentano. Il punto è essenzialmente questo: l'umanità della macchina è prima di tutto un riflesso della nostra umanità. Se c'è, c'è. Se non c'è, che cosa può fare la macchina se non farsi essa stessa specchio della nostra stupidità diventando a sua volta cieca e brutale?

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Pagina 140

Scommetto che tu non hai mai assistito a uno spillaggio, con la lancia ossidrica manovrata a mano che buca il tappo di copertura del foro di colata in maniera da lasciare la ghisa libera di sgorgare dal ventre dell'altoforno. Sapessi quante volte, durante la fase di apprendistato, subito dopo l'assunzione in fabbrica, pensai di farmi trasferire a quel reparto; sognai di manovrare anch'io la lancia circondato da compagni attenti e ammirati. La verità è che l'altoforno, ma forse tutta l'acciaieria, è un universo popolato da persone convinte di essere venute al mondo per mostrare quanto spirito eroico risieda, per tradizione, dentro di loro.

Soprattutto un tempo, l'orgoglio virile del rischio portava molti a rifiutare l'uso di indumenti protettivi; tradizione e retorica ci volevano tutti a torso nudo, coraggiosi sino all'insensatezza, rispettosi delle gerarchie, animati da un forte spirito di gruppo: uno per tutti, tutti per uno.

Quando arrivò a Bagnoli nel 1981, una delle prime misure che adottò il nuovo direttore del personale fu quella di minacciare sanzioni pecuniarie nei confronti di quanti si fossero ostinati a trasgredire le norme di sicurezza: per esempio catturando lo spaghetto incandescente e rigirandolo con un gesto di diabolica quanto superflua abilità. Oppure usando la bocca, i denti, per fermare una miccia in un detonatore di fulminato di mercurio invece delle speciali pinze di ottone antiscintilla.

Ecco perché quell'immaginario Buonocore armato di lancia ossidrica non aveva paura di nulla, affrontava con gesti di deliberata imprudenza quell'opera di perforazione che forse non è propriamente pericolosa, ma insomma, almeno nella scenografia, lo è, in quanto deve mettere in comunicazione il mondo esterno con le viscere del vulcano (duemila gradi di temperatura ottenuti dalla combustione a strati alternati di coke e materiali ferrosi con l'insufflaggio di vento caldo dal basso).

Per quel che mi riguarda, questi entusiasmi mi sbollirono presto. Sono per fortuna un uomo cauto, con i piedi per terra. E tuttavia mentirei se dicessi di non avere condiviso a mia volta, e di non condividere tuttora, il mito dell'acciaieria e perfino un po' della sua mistica, della sua retorica. A modo mio, certo. Conformernente ai gusti del mio tempo, della cultura del mio tempo.

Il che, credimi, non fa alcuna differenza dal punto di vista dei sentimenti e del senso di appartenenza. L'Ilva che scompare è una dissolvenza che non soltanto mi riguarda ma mi comprende. «Dobbiamo imparare a dismettere innanzi tutto noi stessi» dissi un giorno di particolare malumore al mio amico Arturo Scuderi. «Distruggere all'improvviso una fabbrica può essere anche un'operazione semplice. Distruggere di colpo una civiltà, una cultura, una forma mentis è un altro paio di maniche.»

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Pagina 223

In quel momento ci raggiunse la voce della madre che ci annunciava che il caffè era pronto e ci invitava a unirci a loro. Mi diressi subito verso la cucina; la ragazza invece si mosse più lentamente, di malavoglia.

Per giustificare la nostra prolungata assenza dissi a Martinez dell'acquario, della mia meraviglia, e anche del mio dispiacere, nel constatare che Marcella se n'era liberata: se non del grande contenitore di vetro, che era ancora li, di tutto quello che c'era dentro. Allora lei, che avrebbe potuto benissimo restarsene zitta, non so perché si mise a raccontare in maniera via via più dettagliata e crudele del suo pesce-angelo, di com'era la sua faccia piena di espressione, del colore dei suoi occhi, della sua bocca orlata che si muoveva in modo ogni giorno più innaturale e sofferente. Finché una mattina cessò all'improvviso di boccheggiare: si guardarono per l'ultima volta negli occhi, poi lui si rigirò pancia in su mentre i pesciolini rossi accorrevano da tutte le parti, gli si raccoglievano intorno come consapevoli che l'irreparabile era accaduto. «Fu in quel momento» disse Marcella «che mi sembrò di capire una grande verità sulla quale però non mi era mai capitato di riflettere prima, e cioè quanto sia stupido affermare sia che la vita vale la pena di essere vissuta sia che non vale la pena.»

«Spiegati meglio», le intimò accigliato Martinez.

Marcella si guardò le mani; poi guardò me e mi sorrise. «Significa solo che la vita va presa per quello che è. Si tratta certamente di un'esperienza, ma che comincia e finisce senza portare da nessuna parte. Un fiammifero che si accende nel buio della notte e subito si spegne senza che tu sia riuscito a vedere nulla. Tutto qui, zio Carlo.»

«So io quel che vuole dire» si intromise la madre. «Che la vita va patita e basta. Alla sua età, cose da pazzi.»

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