Copertina
Autore Ermanno Rea
Titolo Napoli Ferrovia
EdizioneRizzoli, Milano, 2007, la scala , pag. 360, cop.ril., dim. 14x22x3,2 cm , Isbn 978-88-17-01832-6
LettoreRenato di Stefano, 2008
Classe narrativa italiana , citta': Napoli
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Indice


Un tipo molto di destra, un naziskin          9
Il cielo era di un azzurro rosato            26
Marmo nero                                   37
Questione di zebre                           47
Non fu subito amore                          59
Lo inseguo come fosse una preda              70
Mio padre a Caporetto                        84
Fiumi di tè alla menta                       92
Non sono un kamikaze                        104
Lo schermo al plasma                        110
Il farmacista filosofo                      120
L'aforisma di Cioran                        136
La fuga della sposa                         145
Garibaldi, amico mio                        163
Scala a San Potito                          171
Il signor Odionapoli                        189
Caracas l'accogliente                       202
Via Luigia Sanfelice                        217
La moglie araba                             224
Argento, rame, avorio, madreperla           233
Rosa sviene                                 246
Colori e vernici                            250
Ebreo per finta                             271
Achtung Banditen                            287
Le dimissioni                               310
Desiderio di uccidere                       316
Addio, Caracas                              337
Post scriptum                               351


 

 

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Pagina 9

Un tipo molto di destra, un naziskin



Ognuno ha le amicizie che merita. Si chiama Caracas e io sono felice che a un certo punto le nostre strade si siano incrociate. È un uomo piuttosto imprevedibile, a essere sincero. Di sicuro, non è una persona dozzinale, di quelle che passano e non lasciano alcun segno. Il suo regno è il pianeta Ferrovia: la sera è sempre lì, ai piedi di quella specie di rampa di lancio che è la statua di Garibaldi, un po' soprappensiero come si addice a chiunque stia per intraprendere un viaggio verso l'ignoto. La Ferrovia è una sconfinata ragnatela siderale e Caracas assomiglia a un astronauta perennemente impaziente di scoprire nuovi mondi.

Una volta mi condusse nella strada dove gli piacerebbe abitare, dove anzi da tempo cerca un alloggio benché senza fortuna. Caracas non ha casa, vive ora qua ora là, per lo più ospite di un vecchio amico che però non mi ha mai presentato (esisterà davvero?). Possiede in compenso uno "studio": un sottoscala dalle parti di Posillipo dove qualche volta si ferma anche a dormire, benché scomodamente, a suo dire.

La sua strada del cuore si chiama Tristano Caracciolo ed è a un passo dalla mia piazza Principe Umberto. Via Tristano Caracciolo è stata interamente colonizzata dagli extracomunitari (arabi e neri, e perciò niente cinesi che si guardano bene dall'avere rapporti sia con gli uni che con gli altri). C'è un ristorante tunisino bianco e azzurro – piano terra e sottoscala – e, poco oltre, una specie di club per soli neri dove Caracas non è mai riuscito a ficcare il naso, sempre scacciato con fermezza nonostante le sue insistenze.

Ha un'aria da segugio in stato di mobilitazione permanente: si ferma davanti a ogni basso, a ogni portone, entra in tutti i negozi – arabi, cinesi, ucraini – si informa, si intrufola, stringe mani, acquista cianfrusaglie, ostenta familiarità: fino a indurre sospetto e irritazione di cui non sempre si rende conto.

Non so perché quella intestata a Tristano Caracciolo l'incanti più di altre strade di questa città nella città. Forse per i suoi palazzi ottocenteschi e monumentali ormai neri di una fatiscenza che si è fatta cenere, abito a lutto. Quando lo seguo nei suoi momenti di maggiore frenesia cerco invano, per farmene una ragione, di penetrare negli ingranaggi più nascosti del suo immaginario laddove germogliano fantasie e pulsioni. Caracas per me rimane essenzialmente un mistero.

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Pagina 47

Questione di zebre



Napoli non è fatta per me, confessò subito alla madre dopo appena un mese, o forse due, che erano arrivati. La raggelò. Sapeva che l'avrebbe raggelata, ma gli parve giusto marcare quella distanza che, se nascosta, avrebbe provocato soltanto danni a entrambi, fraintendimenti a catena.

La madre non rispose e lui non esitò a motivarle, con la stessa asprezza dell'esordio, le ragioni della sua delusione, accusandola di averlo condotto in una città che non assomigliava per niente a quella che lei gli aveva promesso e descritto per anni, fino all'ossessione. «A me, quella Napoli tua, mi piaceva un sacco» le disse. «Ma dove sta? Io pensavo di andare là, e invece tu mi hai portato da un'altra parte.»

Le rinfacciò la perdita dei vecchi compagni di scuola, che rimpiangeva non tanto uno per uno, nelle loro diversitàdi singole persone, ma per quello che avevano in comune: la pulizia di cuore, l'ingenuita, la lealtà, il discorso diretto senza mai doppi sensi o allusioni. Lui aveva pensato che li avrebbe ritrovati tali e quali a Napoli. Almeno così gli era stato fatto credere: vedrai, Napoli non è altro che una Caracas con in più il golfo, il clima, l'allegria, la qualità della gente, la storia, i bei palazzi...

Che inganno! Di più: che frode! Perché in realtà era finito in un luogo... in un luogo... in un luogo...

Ancora adesso, con me, esita a completare il concetto. Coraggio, Caracas, cerca di arrivare in fondo, pronunciale queste due parole che ti sono rimaste in gola!

«In un luogo... senza onore!»

Da buon naziskin, Caracas ha un suo lessico, una sorta di scrigno nel quale custodisce tutte le parole che celebrano la sua poesia politico-esistenziale. La parola "onore", nello scrigno, luccica come una gemma.

Per molto tempo non fece altro che percorrere Napoli in lungo e in largo con estenuanti passeggiate senza meta. Davanti ai suoi occhi scorrevano contemporaneamente due metropoli: la città-sogno nella quale era stato indotto a credere e quella vera, così diversa dall'altra perfino negli odori e nei colori. Annusava l'aria con insolenza: dov'erano le brezze profumate, il mare portato dal vento sin nelle case e nei bar? Napoli era un trionfo di miasmi. Una volta posò il naso sul muro screpolato di un antico palazzo per sentire "l'odore marcio del tempo". Quali cieche passioni avevano potuto indurre la madre a contraffare il fantasma delle proprie origini così spudoratamente? La nostalgia? È un sentimento che può accecare, certo, tanto più se ad esaltarla si mette la gelosia, si mettono gravi dissapori coniugali, la convinzione di avere sbagliato tunnel, di dover correre ai ripari. Fu così che, nelle sue scorribande, affiorò l'ombra paterna, a rendere ancora più travagliato il suo già tanto travagliato trapianto.

L'esplorazione della città, ricorda Caracas, durò a lungo: l'ostilità si affievolì, la curiosità crebbe, diventò frenetica. Scherzare col fuoco gli è sempre piaciuto: si lasciò scippare, raggirare, convincere a scommettere, a scambiare oggetti, relazionando puntualmente la madre su ciascuna avventura patita. Finché un giorno decise di essere arrivato al capolinea, e a un uomo dal quale era stato già raggirato in passato e che cercava di tornare alla carica, fece scattare sotto al naso un coltello a serramanico. L'uomo si piegò letteralmente sulle ginocchia congiungendo le mani in preghiera.

Accadde quando aveva sì e no vent'anni, frequentava con profitto l'Istituto d'Arte di piazzetta Salazar e si era già fatto crescere i capelli oltre le spalle.

Parlando del Caracas di quegli anni dice che si trattava di un «ragazzo d'ordine», «rispettoso dei valori sociali», «per niente incline alla violenza gratuita».

Un compagno di classe lo aveva guadagnato alla causa di un fascismo affollato di miti arcaici, di ansie di giustizia distributiva, di enfasi nazionalistica (la Patria, la Patria, la Patria, come piaceva dire alla madre) e di una soprannaturalità di tipo pagano (la passione monoteista sarebbe arrivata più tardi, quando, in simbiosi mistica con la stragrande maggioranza dei diseredati del mondo, cominciò a guardare con crescente simpatia ad Allah).

Nei nostri incontri parliamo spesso di politica, di tutto ciò che ci divide: lui in principio si mostra riluttante, vorrebbe evitare il confronto. «Voialtri non fate che celebrare la ragione, anzi la Ragione con la erre maiuscola» dice. «Ma in compagnia di quella Signora non se ne fa molta, di strada. E poi, se ti piace tanto la Ragione, se l'ami così svisceratamente, che ci vieni a fare con me la sera in giro per le strade intorno a piazza Garibaldi? Da quelle parti ci bazzica poco la tua Signora. Lei ama piuttosto i salotti perbene dove le parole non hanno peso e la carne non è mai in gioco.»

Per Caracas ciò che non passa attraverso la carne, ciò che non la penetra come una lama, significa poco o nulla. Patire vuole dire patire nel corpo, perché lo spirito di un uomo risiede e vigila là.

Un giorno pretese da me una sorta di giuramento: che io non avrei mai cercato di "convertirlo", di sradicarlo dai principi in cui crede. «Tu vuoi convertirmi!» mi accusa tuttora, di tanto in tanto, soprattutto quando è a corto di argomenti nei nostri lunghi battibecchi ideologici. «Io lo so che ne sei divorato, che a stento riesci a trattenerla, la tua sete di cambiarmi radicalmente, di fare di me un altro. Di convertirmi.» Me lo dice mentre passeggiamo tra le strade della nostra prediletta Stazione Centrale accompagnati da una nube di odori sulfurei, fritti e soffritti di un irrequieto "pluralismo" gastronomico, e lui mi offre premurosamente il braccio «ma soltanto per attraversare», come mi spiega con delicatezza.

Usa il verbo convertire con reale inquietudine, lo concepisce come un'operazione diabolica, una sorta di ipnosi o fascinazione, una violenza magica. Nonostante le mie smentite io sono per lui un irriducibile comunista: un uomo tutto sommato da tenere a bada, pericoloso dietro la sua scorza affettuosa e bonaria.

Voglio davvero "convertirlo"? Forse sì. Almeno un po'. Mi piacerebbe sgombrargli la testa dai fantasmi peggiori che si porta dietro, miti e pregiudizi che poco o nulla hanno da spartire con la sua vera natura di uomo appassionato di tutto ciò che è in fondo al pozzo, degli ultimi della terra, appassionato della sofferenza, dell'umiliazione, in definitiva del dolore.

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Pagina 106

Sennonché i ruoli di Caracas durante le sue allucinazioni non sono sempre chiari. In generale lui è l'arabo, è il torturato con le mani dietro la schiena strette ai polsi, che piscia per terra nel corridoio del carcere per il terrore dei cani con i musi protesi verso le sue carni, il pene pendulo, appendice di una vescica che non sa più trattenere i liquidi (forse è per via di questo piscio, di questo immondo spettacolo, che lo hanno obbligato quella mattina a bere a lungo: per poter filmare la sua disperazione corporale, la fragilità della sua creta).

In generale, dunque, Caracas è l'iracheno. E lui con il suo carico di paura, di umiliazione e di odio. Ma a tratti questa identità sbiadisce per far posto a quella dell'altro, dell'americano. Allora Caracas – ma in maniera imprecisa, spettrale, opaca – diventa colui che porta il prigioniero al guinzaglio. I suoi commilitoni ridono e lui si sente autorizzato a "fare di più", a infierire. Insomma Caracas, nel suo "sogno", vive simultaneamente due stati d'animo opposti. In qualità di soldato torturatore, è sempre più sedotto dalla propria crudeltà, scopre il fascino quasi erotico, carnale, della tortura. Tanto da decidere di togliere il cappuccio dalla testa del prigioniero, convinto che solamente quando riuscirà a fissare le pupille della sua vittima il suo godimento di torturatore raggiungerà il culmine e il totale appagamento. Il gesto che compie è istintivo, inconsapevole, ma motivato nella sua oscurità: le emozioni più grandi sono quelle che si provano guardandosi negli occhi, l'orgasmo è sguardo profondo, visione di ciò che l'altro nasconde gelosamente dentro di sé, che spesso nasconde perfino a se stesso.

Ma nel momento in cui il soldato artiglia con una mano il cappuccio e lo strappa dalla testa della vittima, Caracas cessa di indossae i suoi panni e ridiventa il torturato, l'iracheno, il vinto. Ora che il suo sguardo è stato liberato, non ha più paura di niente, la sua nudità non l'imbarazza più: è lui il più lesto a piantare i propri occhi in quelli dell'americano e a fissarlo con tanta feroce alterigia da costringerlo ad abbassare il capo per primo.

Questa è soltanto una delle varianti della ricorrente "visione" del carcere di Abu Ghraib che inquietò le notti (e spesso anche i giorni) di Caracas nella primavera-estate del degradante 2004. In generale tutto quello che accadeva di particolarmente lugubre in Iraq durante quei mesi lui lo viveva dal di dentro, da testimone "oculare". Non omise mai di raccontarmi i suoi "sogni" e, accanto a essi, i suoi sdegni: sin dove può spingersi l'Occidente nella propria perdizione? sin dove può spingersi il singolo individuo di questa civiltà nel degradare se stesso e il proprio statuto naturale di uomo?

Talvolta mi parlava anche di un suo "progetto", di un'idea che gli frullava nella testa ma che per il momento intendeva tenere per sé in quanto «non si possono confessare tutti i pensieri, tanto più quando questi non sono riusciti ad acquistare una vera consistenza, conservano ancora una sorta di stato gassoso».

Un "progetto", Caracas? Lo guardavo allarmato, lo sospettavo di qualche disegno distruttivo, catastrofico. «Rassicurati. Io non sarò mai un kamikaze. Vedo che non hai il coraggio di chiedermelo, allora te le dico io. Non sarò mai un kamikaze anche se a volte, be', mi ridurrei volentieri in mille pezzi assieme a tutta la città. Soltanto che una strage non servirebbe a niente. Viviamo in un mondo che sta per arrivare al capolinea. L'implosione è alle porte: occorre soltanto aspettare.»

Ma aspettare che cosa?

«Che il meccanismo si inceppi. Il meccanismo della crescita a oltranza, voglio dire. Il vero kamikaze non è il povero ragazzo arabo imbottito di tritolo che si fa dilaniare in mezzo alla folla a Mergellina piuttosto che a Piccadilly Circus oppure in un sobborgo di Chicago. Il vero kamikaze è il sistema di espansione illimitata che ci ha resi tutti prigionieri del mito del benessere. Il vero kamikaze è l'Occidente che vuole dominare il mondo. È Bush.»

Eravamo giusto nel 2004 ed eravamo giusto davanti al Castel dell'Ovo, la fortezza tutta sotterranei e segrete come a ricordarci che la storia degli uomini è una sequela di torturati e di torturatori.

«La questione è che io non amo i vincitori» mi spiegò tornando a parlare dell'esercito americano. «Non li amo in quanto tali. Nella storia come nella vita di ogni giorno. Io per esempio odio Napoleone, tranne quando viene sconfitto. Odio chi vince anche su un campo di calcio o in un incontro di boxe: tifo sempre per l'altro, quello che le prende.»

Sorrisi senza dire niente. Ma dentro di me era tutto un turbinare come di foglie autunnali catturate da un improvviso vortice di vento, mentre, tra stupore e compiacimento, mi dicevo che soltanto lì, in quella metropoli senza senso, anomala fino alla stravaganza, era possibile incontrare un nazi come Caracas, amico e soccorritore di tutti i "vinti" del mondo.

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Pagina 136

L'aforisma di Cioran



Qualche volta mi sveglio molto presto al mattino, e non sempre dolcemente ma di soprassalto, come se qualcuno mi scuotesse irosamente per le spalle: che fai, dormi ancora? Non vedi come è tardi?

Invece è prestissimo, sono le quattro e mezzo. Allora mi alzo e vado in bagno. Dopo, col cavolo che riesco a prendere di nuovo sonno. Non mi resta che abbandonarmi ai miei pensieri. Supino, non so fare di meglio che spaccare capelli in quattro, diventare implacabile con me stesso e con il mondo (dio vi scampi dal risveglio prematuro delle persone miti).

Oggi, 8 febbraio 2006, ho divagato fino alle sei e mezzo. Poi, finalmente, è arrivato il mattino e io sono rimasto inchiodato davanti ai vetri di uno dei miei due balconi (camera 509, Hotel Santa Lucia, vista mare) senza più né parole né pensieri.

Che spettacolo! Che epifania!

Per carità, un'epifania ben nota al sottoscritto che non mancò, ai suoi tempi, di intrattenere rapporti con la Napoli antelucana (soprattutto d'estate ma non soltanto), e tuttavia capace di proporsi ogni volta nel segno del "mai visto", dell'inedito assoluto, della sorpresa che ti fa trattenere il fiato.

8 febbraio 2006: chi ha voluto regalarci oggi una meteorologia così favorevole alla mia insonnia? Viva il caso. O la fortuna, se di questa si tratta. Vedo all'improvviso l'azzurro pastello del cielo che si screzia di rosa laddove la linea degradante del Vesuvio interseca quella più lieve e distante della penisola sorrentina. Non mi era mai accaduto, prima d'ora, di immaginarla come una morbida ascella femminile: il Vesuvio è un seno eretto, rotondo, gelatinoso, sublime; la penisola un braccio che si distende molle sul pelo dell'acqua. Più fisso il "nudo", più mi chiedo se ho il diritto di inquietarmi, di commuovermi, davanti a una cartolina tante volte irrisa (non la chiamavamo la cartolina più stucchevole del mondo?).

Il mare è calmo, senza increspature. Davanti a me il porticciolo del Borgo, stretto tra l'istmo che conduce al Castel dell'Ovo e la scogliera sul fronte opposto, è tutto un ondeggiare di barche, di alberi e pennoni. Vorrei trattenere l'occhio su di loro ma non posso: troppe cose cambiano in velocità via via che l'ascella si arrossa e là, esattamente in quel punto, in quell'incavo, affiora il primo spicchio di sole.

8 febbraio 2006. Sono le sei e quarantacinque del mattino. Mi sento come annichilito nel mio pigiama bianco, davanti al balcone della camera 509 dell'Hotel Santa Lucia. È uno spettacolo di bellezza indescrivibile l'arrivo del nuovo giorno. Al punto di farmelo immaginare come una sorta di risarcimento alla difficoltà di vivere in questa città. Un risarcimento quasi adeguato, congruo, nel senso che, messi sui due piatti della bilancia, splendore e dolore sembrano equivalersi, farsi uno contrappeso dell'altro. '36 della tolleranza, i sorrisi molli della gente, la falsa uma- nità che la pervade rendendo tutti incapaci di ogni for- ma di rigore e di autodisciplina. Maledetta tolleranza! Quali misfatti non siamo capaci di compiere in suo no- me. E va bene, si dice, che cosa sarà mai successo, uno scippo? E che? Non si scippa forse anche a Roma e a Milano? Anzi. Anche a New York? Insomma tutto è le- cito, tutto è cosa 'e niente, inezia, faccenda risolvibile chiudendo un occhio, anzi tutti e due. Quante volte me lo sono chiesto: ma perché poi sia- mo così? Come è successo che questo germe, questa ma- lattia della tolleranza è penetrata dentro di noi fino a con- dizionare la nostra stessa antropologia? La Storia, certo, lo strapotere di una classe avida e cieca, senza neppure un filo di buonsenso e di sentimento. E bello rigirarsi in un letto a due piazze quando non c'è nessuno accanto a te. Senza che te ne accorgi il cor- po si distende di traverso – forse per ripicca o protesta contro chi manca – pretendendo di occupare il maggior spazio possibile, anzi l'intero letto. Le braccia si allarga- no come in una crocifissione; a volte il cuscino rotola per terra e tu hai l'impressione che sia il mondo intero che ti abbandona, ti scappa dalle mani. 8 febbraio 2006, Hotel Santa Lucia, camera 509. I due balconi sul golfo hanno le serrande già alzate. E sta- to uno dei primi gesti che ho compiuto stamattina quel- lo di premere gli interruttori delle serrande: ero ansioso di sapere se ci fossero o no le stelle. C'erano le stelle. Dopo essere andato in naan ,l)nl' rinIast guai( n istante ad ammirare la notte, il mare, le rade luci sulla collina di Posillipo che disegna anch'essa le morbide li- nee di un corpo umano: in alto c'è l'omero, elevato, e pullula di palazzi chiari dalle ampie vetrate; poi la linea si abbassa velocemente, si allunga, si assottiglia, termina come un dito che accarezza l'acqua... Fossi io a decidere, ho detto (o forse soltanto pensa- to), sarebbe questa la mia ricetta: riempirei Napoli di fiori, obbligherei tutti i proprietari di case ad addobba- re con cascate di buganvillee le proprie finestre e i pro- pri balconi fino a far scoppiare d'invidia il mondo inte- ro; poi riempirei la città di semafori e di strisce pedona- li; infine moltiplicherei aree pedonalizzate e corsie pre- ferenziali per i mezzi pubblici, fissando sanzioni pesan- tissime per i trasgressori: multe da capogiro, ritiro di pa- tenti, sequestri di automezzi. E perfino la galera, in cer- ti casi. Ti fa ridere tutto questo, Caracas? Mi è parso di sentire il rumore dei suoi pensieri bef- fardi, tipo: «Cazzo, i fiori!». Ho capito che era lì con me, da qualche parte, nella camera 509. Sì, amico mio, i fio- ri! Una quantità sterminata di fiori a significare... a si- gnificare che il nostro cuore deve cambiare, che dobbia- mo dismettere ogni forma di anarchismo e di arbitrio per consegnarci fiduciosi al rigore e alla disciplina. In- fatti questo e non altro simboleggiano i fiori, tanto è ve- ro che sbocciano soltanto nelle città dove nessuno ose- rebbe calpestarli o reciderli abusivamente. Laddove il rispetto dell'ambiente è ormai diventato istinto. Poi mi sono disteso di nuovo sul letto con la speran- za di riprendere sonno. Macché!

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Pagina 143

Allora gli ho detto: Caracas, voglio farti una confessione. Si tratta di parole difficili che forse è il caso di non ripetere ad alcuno. Talvolta a me pare come se qui da noi il dopoguerra, il funesto dopoguerra della mia giovinezza, non fosse ancora finito. L'ho raccontato a lungo, in un vecchio libro, quel primo dopoguerra: lo descrissi come un tempo senza tempo; gli orologi fermi; la città sequestrata dalla guerra fredda; le fabbriche che smobilitavano; la vita mercantile che languiva; il porto sottratto all'economia perché base strategica della sesta flotta americana e del Comando interalleato attraverso il quale l'Occidente teneva ininterrottamente sotto controllo il bacino del Mediterraneo e tutto il naviglio sovietico.

Per carità, oggi la scena è radicalmente cambiata, le pance appaiono per lo più soddisfatte, spesso sin troppo soddisfatte (l'illegalità, la droga, il contrabbando, l'abuso edilizio saziano, eccome), nondimeno quando io percorro con te certe strade — buona parte del cuore antico di Napoli e oltre — quando ascolto ciò che dice la gente di se stessa e del proprio vivere dentro a questa nube di disagio, di incertezza e perfino di paura, non mi pare né un azzardo né un arbitrio abbandonarmi a talune analogie tra i due "medaglioni": quello degli anni Quaranta del Novecento e quello della Napoli di adesso. Analogie fondate sulla stessa torbida sensazione di una deriva storica non deviata, di un ruolo coloniale, subalterno, marginale della città, reso ancora più visibile da una sorta di rassegnazione collettiva, di pessimismo di massa, di generale conazione all'indolenza che mi richiamano alla mente l'algido aforisma di Cioran secondo il quale "una cosa sola importa: apprendere a essere perdenti".

Ci sentiamo tutti perdenti, Caracas? Siamo stati tutti travolti dalla rete di correità piccole e grandi, consapevoli e inconsapevoli che sta facendo di Napoli la città che "non si può più amare"?

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Pagina 178

«Ma tu come fai a sapere tutto questo?»

«Lo so perché un commissario di pubblica sicurezza, amico di Compagnone, si prese la briga di indagare. Luigi Compagnone e Luigi Incoronato erano grandi amici, non c'era segreto reciproco che non si raccontassero. Così un giorno Compagnone, che da tempo sospettava della donna, decise di vederci finalmente chiaro investendo della faccenda il poliziotto.»

«All'insaputa di Incoronato?»

«Sì, certo, all'insaputa di Incoronato. Fu poi Compagnone a spiegare all'amico, un po' alla volta e con il dovuto garbo, chi era effettivamente colei alla quale si era legato.»

Caracas si ferma di colpo costringendo anche me a fare altrettanto. Siamo a cinque passi dalla Scala. «Se ho capito bene» dice, «Incoronato si ammazzò il giorno in cui si rese conto, in maniera ormai non più dubitabile, di essere rimasto vittima di un immenso raggiro.»

La drastica conclusione di Caracas non mi piace: l'avverto subito stonata pur se apparentemente plausibile.

«Un momento» replico. «Detta così la storia secondo me non funziona. Incoronato, di grandi amori, ne ebbe parecchi.»

«Alludi alla politica?»

«Certo. alla politica. Ma non soltanto.»

«E poi?»

«Alla letteratura.»

«Insomma una delusione si sommò all'altra?»

«Quando si compiono certi passi è sempre la trama che conta. È il tessuto dentro al quale ti senti avvolto: si potrebbe dire la percezione di un destino.»

Vorrei spiegare a Caracas molto più a fondo e in maniera ben più penetrante la personalità di Luigi, la sua vicenda umana e le ragioni che mi spingono adesso a rinverdirne il ricordo. Ma è difficile dar corso a pensieri non tutti ben definiti, a pensieri che quasi non sono pensieri e neppure sentimenti veri e propri, ma ombre, vertigini, sensazioni fragili e fugaci. E che io vedo riflesso in Caracas un personaggio della mia giovinezza del tutto diverso da lui, e però con il suo stesso candore, il suo stesso dolore, il suo stesso affiato per il genere umano. E mi chiedo se per caso non si tratti del medesimo uomo che muore e risorge senza posa; del medesimo invincibile sentire che torna imperterrito a reincarnarsi dopo ogni sconfitta. Può essere insomma che "la passione per l'altro", come i suoi simmetrici contrari, l'egoismo e la nequizia, siano forme costitutive e originarie del vivente umano? Lo stesso mito di Caino e Abele sembra del resto alludere a una sorta di ontologia dei sentimenti. A una loro inquietante autonomia ed eternità.

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Pagina 182

Sto per rispondergli qualcosa quando la scala rimbomba a causa di un gran tuono. Allora Caracas si mette a ridacchiare: «Ci mancava solo il temporale». Vuole sottintendere che ora la situazione è perfetta. Funestamente perfetta.

Minacciava pioggia già ieri (ora è pomeriggio, sono le quindici, forse le quindici e trenta). Quando mi sono svegliato, stamattina, il cielo aveva tutte le sfumature possibili del grigio, come soltanto qui può succedere quando le nuvole, ammassandosi una sull'altra, sfoggiano audaci impasti di smeraldo, biacca, blu di Prussia, con qualche vena di violetto se non addirittura di geranio, qua e là, e truffaldine lame di luce cilestrina. Si potrebbe dire che Napoli è una città che ama soprattutto i grigi, e non soltanto perché li coltivi nel cielo e li pratichi negli intonaci dei palazzi, ma anche dentro di sé, nei propri pensieri più nascosti.

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Pagina 186

Scruto a lungo il mio amico negli occhi. Caracas allora scoppia a ridere ma in realtà è incazzato. «Mica hai armato un simile casino soltanto per chiedere anche a me questa stupidaggine? Io frequento la Ferrovia perché mi piace.»

«Certo che ti piace.»

«E perché sono un fanatico. Ma di quelli veri, consapevole e felice di essere un fanatico.»

«Certo che sei un fanatico.»

Cominciamo a salire le scale in direzione del quarto e ultimo pianerottolo. Mi sento profondamente infelice. Incompreso. Dico: «Fanatico lo sono stato anch'io. E lo è stato Incoronato. Anzi lui molto più di me. Pensa, Caracas, volevamo cambiare il mondo. Sognavamo di redimerlo, di cambiare la stessa natura dell'uomo nella convinzione che la cultura domina la natura e non viceversa come si tende a credere oggi».

Mi fermo e Caracas fa altrettanto appoggiandosi alla balaustra della scala, due gradini più su di me, fissandomi con il suo inconfondibile sguardo proteso, esorbitante, di quando ascolta carico di tensione e di attesa.

«Vuoi sapere che cosa facevamo? Come cercavamo di edificarla, la nostra utopia? Oggi nessuno ne parla più, ma per anni essa ha tenuto il mondo in pugno, ha inquietato e fatto sognare milioni di uomini, sconvolgendone spesso, e definitivamente, l'esistenza. Certo, anche qui a Napoli. Sai che cosa facevamo, non dico tutti i giorni ma spessissimo, due, tre volte a settimana? Andavamo nei vicoli più bui a predicare. Anzi no, non a predicare ma a portare la speranza. La speranza nel vicolo! Non era mai successo. Dicevamo alla gente, al disoccupato, alla madre di sette figli, al ragazzo analfabeta: guardate, gente, che voi siete degli esseri umani con gli stessi diritti e gli stessi doveri di tutti gli altri; guardate che nessuno può umiliarvi o approfittarsi di voi; guardate che voi contate parecchio, anche se vi pare di non contare niente e conterete sempre di più se sarete capaci di agire uniti, di fare corpo unico, di legarvi l'uno all'altro...»

Non ho vergogna a confessarlo: più parlo e mi faccio trascinare dai ricordi più mi commuovo, nient'affatto a disagio per gli occhi di Caracas che mi sono accanitamente addosso, indagatori ma non ostili. Mi guarda dall'alto dei suoi due o tre gradini di vantaggio, concentrato nello sforzo di rappresentarsi con precisione il mondo che gli vado descrivendo, la Napoli di quando avevo vent'anni o poco più con quel partito-passione (la passione del comunismo) che organizzava ogni settimana le nostre spedizioni di piccoli propagandisti della speranza nei vicoli, in periferia, nelle fabbriche, in provincia, ovunque insomma fosse possibile far mettere radici alla pianta della democrazia appena ritrovata.

«Fu un grande partito, Caracas, lascia che te lo dica una persona che lo ha criticato aspramente. Un partito dal fascino travolgente che riuscì a essere nello stesso tempo straordinario e meschino, geniale e stupido, creativo e burocratico, totalitario e assetato di pluralismo. Che cosa non facemmo, allora, soprattutto noi giovani, per amore della democrazia e della città in cui eravamo nati. La rivoltammo da cima a fondo come un vecchio cappotto promuovendo coscienza, accendendo entusiasmi, suscitando orgoglio. Oggi nessuno parla più di tutto questo. Perfino il vecchio archivio dell'ex federazione in cui fu annotato ogni evento, ogni riunione, ogni fatica, ogni iniziativa, giace negletto in uno scantinato di periferia come se tutti avessero paura di quelle carte, di quei documenti.»

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Lo guardai con affetto. Con pena. Stringevo il bicchiere del punch tra le mani per rubargli tutto il calore possibile: osservai la punta delle mie dita bianche, esangui, gelate, e tuttavia incapaci di reggere oltre il calore del vetro. Avrei voluto pronunciare parole indulgenti, affettuose, ma nello stesso tempo mi rendevo conto dell'impossibilità di accondiscendere a me stesso. Eccola, la passione della verità che dettava le sue leggi! Avevo l'obbligo della brutalità: guai a sottrarmi. Mi sforzai di parlargli con voce aspra, metallica. Tu non sai, Caracas, che cosa sono state le persecuzioni razziali in Italia e soprattutto in Germania durante il fascismo. Io sì, ho l'età per saperlo. Tu non sai che cosa è stata la dittatura, che cosa hanno fatto Mussolini, Hitler, le SS. Mi rifiuto di pensare che se tu fossi vissuto a quell'epoca avresti condiviso il loro stile, la loro mentalità, la loro ferocia. Guarda che quella gente mica era schierata dalla parte dei deboli, mica amava i perdenti come affermi di amarli tu. Quella gente aveva una sola ambizione: dominare il mondo in nome di un Occidente depurato da ogni contaminazione razziale; di un Occidente rigorosamente ariano, conquistatore, privo di scrupoli, spietato nell'esecuzione del proprio programma di potenza.

Mi misi a ridere provocatoriamente. «Caro Caracas, tu puoi bendarti gli occhi quanto vuoi, ma quella gente là, se avesse potuto, nelle camere a gas non ci avrebbe spedito soltanto gli ebrei ma anche gli islamici, anche uno come te, una volta che lo avessero pescato con il Corano nello zainetto.»

Mi zittì con il palmo della mano, ma senza dire niente. Voleva soltanto una pausa di silenzio. Ci guardammo negli occhi, consapevoli entrambi che in quel momento tra noi stava accadendo qualcosa di importante, forse di decisivo. Qualcosa che avrebbe dovuto già accadere da tempo ma che avevamo rinviato, spinti, credo, dalla forte curiosità l'uno dell'altro, dalla reciproca meraviglia di convergere e divergere sulle più svariate questioni, di riconoscerci alternativamente simili e dissimili, vicini e distanti.

Alla Ferrovia avevamo soltanto alzato la voce: per la verità l'avevo alzata io. Caracas aveva negato la realtà delle camere a gas naziste definendole un'invenzione, anzi un'astuzia degli ebrei, e io avevo perduto le staffe.

Ora invece parlavamo con calma, il dissapore nascosto sotto la pelle. Parlavamo con la calma con la quale si fanno i bilanci, si tirano le somme, si decide che strada imboccare per uscire da un'emergenza.

«Avrei dovuto immaginare che prima o poi mi avresti presentato il conto.» Lo mormorò così sottovoce che non mi parve il caso di replicare. Mi alzai di scatto. Gli mostrai le punte delle dita gelate. «Ho freddo» dissi. «Camminiamo.»

Si alzò subito anche lui e ci allontanammo verso il centro del piazzale. Sulla destra si profilavano le strutture del molo Pisacane dove si trovano gli uffici della Capitaneria.

Mi appoggiai al suo braccio: fu un gesto istintivo ma non del tutto innocente. Volevo fargli capire che, qualunque conclusione avesse avuto quel nostro incontro (fossimo o no rimasti amici), io non ero mosso da alcun astio verso di lui. Anzi. Avrei continuato a nutrire ammirazione nei suoi confronti: per come si era prodigato a favore di Rosa La Rosa, per come l'aveva amata e accudita; per le sue generose scelte di vita; per il suo disprezzo del denaro e degli agi; per quel suo stravagante spirito missionario; perfino per la sua conversione all'Islam, la religione dei perdenti. Insomma, avrei continuato a tenerlo nel mio cuore, benché costretto per coerenza, per amore di verità e giustizia, per pulizia mentale e morale, a frapporre una barriera tra noi.

Gli strinsi con forza il braccio né glielo mollai quando fummo in prossimità del mare: Caracas, come fai a non capire che intorno alla Shoah si continua a giocare una partita terribile? C'è chi, pur non negando la verità storica delle camere a gas, le colloca nel recinto di una presunta "follia" da attribuirsi a un numero limitato di fanatici. È un modo di circoscrivere il Male, di circondarlo di filo spinato isolandolo in un punto preciso della storia e della geografia e soltanto in quello. Io dico che si tratta di un'ignobile astuzia per salvarsi la coscienza, per dire che l'Occidente non c'entra niente con l'Olocausto, che non ha alcuna responsabilità al riguardo, come se la nostra storia non fosse stata un genocidio dietro l'altro, un'ossessiva, ininterrotta coniugazione del verbo conquistare: a qualunque costo e con ogni mezzo. Ma tu vai oltre, Caracas. Tu neghi che le camere a gas siano state mai usate a danno di ebrei, zingari e altri disgraziati. Tu dici che il male, il Male per eccellenza, non c'è stato. Senza accorgerti che, così dicendo, assolvi – addirittura per non aver commesso il fatto – la tua tanto esecrata civiltà occidentale. Bravo. Davvero un bel risultato!

Quel discorso non me l'ero preparato. Mi fluì dalla bocca spontaneo e incalzante. Mi sentii pago, persuaso io stesso della mia improvvisata perorazione. Quanto a Caracas, si lasciò andare a una curiosa reazione che però non mi stupì e in certo senso non mi dispiacque neppure.

Disse, ma con voce più rassegnata che risentita: «Tu sei come quelli delle tre carte. Conosci l'arte di imbrogliare la gente. Mi stai imbrogliando. Io so che adesso mi stai imbrogliando. Solo che io non voglio essere imbrogliato da te».

Ebbi la percezione della nostra solitudine su quel piazzale vuoto e sconfinato: girai intorno lo sguardo e l'unica presenza umana che colsi fu quella di un ciclista che pedalava, ma a notevole distanza da noi, in direzione ovest, verso il contiguo molo Pisacane.

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Forse mio padre non avrebbe più lasciato la Toscana e la tenuta di San Lorenzo se la "Scugnizza" non si fosse incaponita con la sua Napoli. Questa almeno è l'opinione di mia sorella Liliana, secondo la quale soltanto i pazzi abbandonano il paradiso. La guerra per noi terminò in aprile, con i prati in fiore. A San Lorenzo, sulla cresta di una collina, con un fazzoletto rosso al collo, mi rigiravo tra le mani un gran pezzo di cioccolato che mi aveva regalato il primo americano incontrato in vita mia: «Paisà, magna!».

Non avevo ancora diciotto anni. A quell'età non si mangia da soli una ghiottoneria inaudita come un pezzo di cioccolato – un pezzo intero di cioccolato, e chi l'aveva mai visto? Mi misi a correre a perdifiato sperando di incrociare qualche conoscente con il quale condividere quella gioia. Il soldato, che avanzava in fila indiana assieme ai suoi compagni, mi aveva regalato anche cinque sigarette dentro a uno smilzo pacchetto. Non ne avevo mai visto di simili: che roba, gli americani! Desideravo condividere con un altro essere umano, possibilmente giovane come me, anche quest'altro indicibile piacere. Fumavo già: scorza di vigna.

Quanto a me, non ho il coraggio di pensare che mio padre sbagliò a vendere quei venti ettari di terreno che guardavano il mare dal Cinghiale a Bocca di Magra e a rispedirci tutti laddove eravamo nati. Napoli ormai mi appare talmente inseparabile dalla mia persona, dal mio destino, da non essere disponibile neppure a certi giochi di fantasia. Economicamente, non ci sono dubbi, sarebbe andata meglio, ma poi?

La domanda è sincera, mi sale dal cuore, anche se mi rendo conto che non manca di paradossalità. Io resterò a Napoli soltanto un decennio: dal 1947 al 1957. Poi emigrerò per sempre: Roma, Milano, vagabondaggi vari da un capo all'altro del mondo. Può essere che il senso di tutta una vita (ottant'anni sino a questo momento) si racchiuda soltanto in un decennio, tra i venti e i trent'anni?

Al netto di qualunque enfasi e retorica la mia risposta è affermativa. È in quell'arco di tempo e dentro quella cornice che si definiscono il mio passo d'uomo, il timbro della mia voce, il mio sguardo sugli altri, le passioni che non mi lasceranno più, le incertezze che mi accompagneranno, insieme amiche e nemiche, rassicuranti e divoratrici.

Mio padre riaprì la sua azienda. Sulla carta, avrebbe dovuto tagliare un traguardo dietro l'altro: il mondo non invocava forse soprattutto ricostruzione?

Ma non andò affatto secondo le previsioni.

Il mio problema è tutto qui: perché non accadde quello che invece, quasi per fatalità di cose, sarebbe dovuto accadere? Per quale motivo cominciò al contrario una fase di declino che attraverserà tutto il dopoguerra senza arrestarsi mai, fino a trasformare l'intero polo mercantile della città in una morta gora?

Tuttora, Caracas, piazza Mercato è uno stagno d'acqua verminosa. Quanto al molo Carmine, come abbiamo verificato insieme, le rovine non sopportano più neppure lo sguardo dei curiosi: fatevi i cazzi vostri, come sta scritto sul fianco del marcescente naviglio.

Il mio problema è questo. Da molti anni.

Continuo a esplorarlo con accanimento, ma senza riuscire a trovare altra risposta se non quella che mi sono data tanto tempo fa: Napoli, ancora oggi, non ha digerito il grande furto subito alla fine dell'ultimo conflitto mondiale.

Il furto del mare.

Una domanda a effetto potrebbe essere la seguente: chi ha tradito Carlo I d'Angiò? Non dico nel passato remoto, ma a partire dal 1945. Chi ha fatto scempio insomma delle potenzialità produttive della città, oltre che in campo industriale, anche in campo mercantile?

Caracas, io non sono così miope da non riconoscere che a Napoli la stessa cultura meridionalista ha ignorato sistematicamente il mare, non lo ha vissuto come risorsa, non lo ha rivendicato come diritto. Però è un fatto che fino a tutto il Settecento e oltre la flotta borbonica fu seconda soltanto a quella inglese e che le varie marinerie del golfo vissero momenti d'eccezionale rigoglio purtroppo mai celebrato da alcuna letteratura. Qualche raro libro di storia racconta la passione di re Ferdinando per la navigazione a vapore allora ai suoi esordi, difficilmente viene spiegato tuttavia che nel giro di due anni, dal 1827 al 1828, i Cantieri Navali di Castellammare vararono una fregata da 44 cannoni, una corvetta da 32 e due brigantini; che nel '30 misero a mare la scorridora Etna, nel '32 il brigantino Zaffiro, nel '34 le fregate Partenope (50 cannoni) e Urania (46 pezzi) e che, sempre il medesimo Ferdinando, fanatico della propulsione a vapore, istituì a Pietrarsa il Real Opificio Meccanico Militare che fu la prima scuola di ingegneri meccanici d'Italia.

Il furto del mare!

Quando l'Italia si costituì in nazione il governo, dopo accanite discussioni, finì per attribuire a Taranto la sede di un nuovo Arsenale militare. Sarebbe ingenuo, credo, stupirsi di una tale decisione, non però del fatto che i napoletani la subirono senza eccessive proteste. Il loro silenzio pare anzi scandaloso. Come pare scandaloso il silenzio che avvolge tuttora la storia politica ed economica della città che proprio per l'enorme importanza strategica del suo porto nel Mediterraneo, dovette subirne – alla fine degli anni Quaranta – la sua militarizzazione al servizio della guerra fredda.

Il furto del mare, Caracas.

Il quale furto, è il caso di chiarirlo, costituisce soprattutto una colorita sintesi, una sorta d'invenzione retorica tanto per dare una facile riconoscibilità a quella perdita di ruolo della metropoli che si farà precipizio in un rapido giro di anni.

Quello "scippo", quel tramonto, mio padre lo visse da guerriero, giorno dopo giorno, ma senza mai comprenderlo del tutto. Gli sembrava una sorta di stregoneria, di perversa congiuntura destinata comunque, prima o poi, a volgere in bonaccia come ogni tempesta.

Si stupiva del modesto fido concessogli dalla banca: non avevano più fiducia in lui? La realtà era che le banche, grazie alla loro proverbiale lungimiranza, non avevano più fiducia in nessuno. Non avevano fiducia nel futuro di Napoli.

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