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| << | < | > | >> |Pagina 9(Questa storia comincia dalla fine; comincia con la morte del protagonista, Felice Lasco, ucciso con due colpi di pistola da colui che, in giovinezza, era stato il suo amico del cuore. Non sono uno scrittore; sono un vecchio medico in pensione e non m'intendo molto di strategie narrative, sennonché sono venuto per avventura a conoscenza di una vicenda che mi è parsa subito densa di significati non soltanto contingenti, personali, ma che investono l'intera comunità di cui faccio parte: Napoli, e in special modo la più derelitta delle sue aree urbane, il Rione Sanità. Tuttavia, in principio non ho mai pensato seriamente che l'avrei messa per iscritto. Amo la letteratura, ma non è il mio mestiere. Quando però Lasco è stato ucciso dall'uomo che da ragazzo gli era stato più che fratello, ho capito che non avrei potuto esimermi dal raccontarla. Quasi una questione d'onore. E ho deciso che sarei partito dalla fine: una marcia all'indietro alla scoperta, oltre che delle ragioni di un delitto, delle radici del nostro male di vivere in un mondo troppo pieno di ingiustizie. Quanto al titolo, ho esitato a lungo, oscillando tra varie ipotesi che però, riflettendo, si rivelavano ben presto tutte insoddisfacenti. Infine, l'illuminazione: Nostalgia, che è poi il sentimento che domina il protagonista di questa cronaca e ne determina le scelte. La parola «nostalgia» nasce dall'abbinamento di due vocaboli della lingua greca classica: «nóstos», che significa «ritorno», e «álgos», che vuol dire «dolore». Nella letteratura delle origini il dolore imputabile alle difficoltà – talvolta insormontabili – del viaggio di ritorno al proprio luogo di origine fu esplorato a lungo in tutte le sue sfumature. Pur trattandosi di un lemma di conio abbastanza recente, la parola nostalgia sembra insomma far parte del nostro bagaglio genetico, del nostro «arcano» di esseri umani. Ogni uomo la sperimenta di continuo, perché le voci che gli giungono dal suo passato hanno sempre un fascino irresistibile.)| << | < | > | >> |Pagina 11Oreste Spasiano, soprannominato fin da ragazzo Malommo (quasi una condanna o, forse, un presagio), se ne sta seduto nel suo pigiama di felpa accanto a una tazza di caffellatte bollente e a un giornale aperto a lenzuolo sul tavolo. È concentrato ma non teso. Anzi, appare sin troppo padrone di sé, considerate le circostanze. Non si spedisce all'altro mondo colui che è stato l'amico-gemello della tua infanzia e della tua giovinezza senza una ragione di forza maggiore: se lo ripete in continuazione, anche a voce alta, scandendo le parole in quell'italiano approssimativo cui ricorre quando vuole rivestire di solennità le sue sentenze. Pensa di avere obbedito a un comando arrivato dall'alto, da una imprecisata potenza soprannaturale. A volte la vita ti dice: spara! E tu non puoi fare altro che sparare. Da sempre il caffellatte mattutino lo aiuta a darsi un equilibrio, a convivere con la propria natura intemperante, forse perché la bevanda ha l'invincibile profumo dell'assoluzione e dell'innocenza. Oreste Spasiano non chiama mai le cose con il loro vero nome: l'auto-benevolenza lo fa amico delle circonlocuzioni e delle metafore. Ha premuto il grilletto sul bersaglio due notti prima, dopo un agguato ben studiato. Adesso legge e rilegge il resoconto di cronaca del delitto. D'un tratto vorrebbe accendere la radio, ma poi ci ripensa. Si guarda intorno mentre dice, con la voce fredda di chi rievoca un ricordo: strunz! Tu si' strunz rint' e fora. Strunz, strunz, strunz... D'improvviso quella voce gli è risuonata nitida nella testa. È stato l'uomo disteso per terra a parlargli così, è ferito all'addome e lui gli si avvicina a grandi passi con la pistola ancora in pugno. Quante volte da ragazzi se le sono scambiate, quelle parole di rabbia-ironia-amore-odio-accusa. Sempre senza alcuna conseguenza. Strunz! Puozz'itta' 'o sang. Bella, la sua cucina piena di comodità; bello, il suo vasto appartamento all'ultimo piano di un vecchio e malandato edificio del Rione. La strada si fregia presuntuosamente del titolo di «vico» e si snoda tra due labbra appena schiuse dalle quali affiora una multicolore schiuma costituita dai panni stesi ad asciugare in maniera permanente da muro a muro, come archi di trionfo. Dovrebbero profumare l'aria; invece l'impregnano di uno strano odore che sa di marcio. Il suo gaudio mattutino, Spasiano detto Malommo, lo coltiva con ansiosa voluttà fin dal momento del risveglio. Apre gli occhi, e subito il ricordo dell'ineffabile aroma mette in subbuglio i suoi sensi. Poco dopo, di fronte alla tavola imbandita (latte, burro, pane tostato, zucchero, caffè, svariati vasetti di marmellate e miele), celebra il rito del primo sorso, rigorosamente a occhi chiusi, in uno stato di concentrazione quasi religiosa. Tutto parte dalla cavità nasale, è lì che si concentra il profumo del caffellatte bollente, come risucchiato da una pompa invisibile. Dalla cavità nasale si trasferisce al bulbo. Il tratto è breve, questione di un lampo, spiega con benevolenza ai suoi soci più devoti che lo guardano increduli. E ancora più breve è il tratto dal bulbo al cervello, passando attraverso l'etmoide. Fine del percorso. In conclusione, senza il cervello non si fa un cazzo nella vita. Non si gusta neppure un caffellatte. Capito? È tutto scritto sull'Enciclopedia medica. Me ne intendo, cazzo. La sua fama di duro, di uomo al quale non bisogna mai dire no, non è però incontrastata. Non soltanto adesso, in questa fase di disgrazie multiple in cui alla Sanità la camorra si è frantumata in mille schegge, tutte prive di vera autorità. Ma anche un tempo, quando dominavano certi capifamiglia capaci non soltanto d'impaurire ma anche di beneficiare di una certa quota di consenso grazie a regalie, protezioni, benevolenze. Insomma c'era stato chi aveva saputo collocarsi parecchio più in alto di lui, talvolta addirittura con l'appoggio dello stesso Spasiano, sempre attento a scegliersi nemici alla sua portata, senza pretendere di combattere battaglie troppo più grandi dei suoi muscoli. Escluso dal gioco della droga, controlla la macchina del taglieggiamento, dello strozzinaggio, della prostituzione, della ricettazione (metalli preziosi e gioielli) e di qualche altra attività minore, ma non per questo poco lucrativa. Malommo vive solo. Ha svariate amanti, che convoca a turno. I lavori domestici sono affidati a due filippini, marito e moglie, di assoluta fiducia; abitano nel suo stesso stabile e arrivano alle sette del mattino nel suo appartamento di cui posseggono le chiavi. L'articolo sul quotidiano è intitolato DELITTO PERFETTO ALLA SANITÀ? Nel sommario, a caratteri un po' meno vistosi, la storia viene così sintetizzata: «Ignota sia l'identità della vittima che quella dell'esecutore. L'uomo assassinato, privo di documenti, forse proveniva dal Nordafrica». Spasiano ha già letto la cronaca tre volte, ma non gli basta: pensa che vi sia ancora qualcosa da scavare in quel mare di parole. Il giornalista descrive il corpo di un uomo raggomitolato accanto a due grandi bidoni d'immondizia. La polizia non ha trovato addosso al cadavere alcun documento. Nella strada nessuno ammette di averlo mai conosciuto. Tutto lascia pensare a una fredda esecuzione compiuta con due colpi di pistola: uno, esploso da lontano; l'altro, a meno di un metro di distanza. Due fori: al ventre e al centro della fronte. Spasiano agguanta la tazza dalla quale attinge in modo incauto un abbondante sorso che gli scivola come una lama incandescente lungo la lingua fino alla gola. Sussulta. Vorrebbe maledire il mondo, ma prima che la maledizione gli salga alle labbra, ecco che il risentimento si è già sciolto in nuovo gaudio. Il profumo del caffellatte dilaga ormai dappertutto come fosse il suo fiato stesso a propagarlo, il suo corpo, il suo passato, il suo attaccamento a un rito mai trasgredito. Si alza e va a schiudere la finestra della cucina che viene subito invasa dalle voci e dai rumori della strada. Dio, quanto si chiacchiera a Napoli! E in quel quartiere, poi. Come se parlassero in modo simultaneo, oltre ai vivi, anche i morti, l'incalcolabile esercito sterminato dalla Signora con la falce in non meno di una ventina di secoli (o di più?). Una tale romba da strappare urla d'angoscia: e zitti un momento, cazzo!, chiudete quelle boccacce, spegnete quei maledetti motorini che saettano per vicoli e vicoletti sibilando come frecce di Apache: addo' fujte? dove scappate come inseguiti da un nemico mortale? Ride. Pensa: si credono tutti alla portata di quel Peppino che si fa trasportare in moto da un suo moschillo e, agitando una pistola in pugno, grida: cà cumann'je! Ma la sua protesta non è del tutto sincera. Talvolta la romba lo infastidisce, certo. Ma perlopiù ne è compiaciuto. Pensa che quella sinfonia tutta timpani e piatti che sale dalle viscere della sua Sanità sia, tutto sommato, una manifestazione di vitalità possente. Anche il gesto di schiudere la finestra della cucina è per lui un rito, un'abitudine, forse perfino una nevrosi. Ha bisogno di entrare subito, ogni mattina, in contatto con la strada, ha bisogno proprio della maledetta romba, non meno del tazzone di caffellatte, per sentirsi carburato al punto giusto: tanto quanto esige la gestione di un'azienda come la sua (la chiama proprio così, azienda). Malommo è un lavoratore metodico, pignolo, incline alla burocrazia, capace, se necessario, di dominare la propria natura violenta a vantaggio della strategia e dell'astuzia. Anche nella vendetta conosce l'arte della pazienza. Non che dimentichi. Anzi. Sa controllare la sua sete di rivincita. Si ritira con il giornale nella sua stanza da letto, si siede su una poltrona di cuoio bianco e si mette a leggere per la quarta volta la cronaca del quotidiano che il giornalaio gli ha lasciato accanto alla porta come tutte le mattine. «Dopo una giornata di indagini rimane ancora sconosciuta l'identità dell'uomo trovato ucciso ieri mattina accanto ai bidoni della spazzatura alla salita dei Cinesi. Tutti dicono di non sapere chi sia, di non averlo mai visto, ma gli inquirenti non sembrano credere del tutto a queste testimonianze. Ovviamente anche a noi, che abbiamo compiuto un lungo sopralluogo sul posto, gli abitanti della strada hanno dato la medesima risposta. Con la differenza che al cronista le loro parole sono sembrate sincere e attendibili. «Il mistero alimenterà a lungo le nostre pagine. Lo diciamo perché all'apparenza la vittima sembra essere uno straniero, arrivato forse dal Nordafrica (stando almeno alle etichette della camicia e della giacca), il che non renderà né semplice né rapida la sua identificazione. «Il corpo dell'uomo, sui sessant'anni, è stato scoperto poco dopo l'alba da una donna che si era avvicinata ai bidoni per liberarsi di un piccolo carico di rifiuti. Non lo ha visto subito. Era accartocciato accanto a un cumulo di sacchetti che da giorni si andavano moltiplicando a ridosso dei bidoni strapieni. Uno dei ginocchi era un po' sollevato. Indossava blue-jeans su scarpe gialle, che sono state la prima cosa che ha colpito la donna. Non ha capito subito. Poi ha emesso un grido di spavento. "Con un calcio ho liberato la sua faccia da un paio di sacchetti che la ricoprivano e l'ho guardata: Dio mio, che orrore..." ha dichiarato, dopo essersi fatta promettere che per nessuna ragione al mondo avremmo rivelato la sua identità. «È opinione della testimone, condivisa da parecchi altri abitanti della strada e del quartiere, che lo sconosciuto sia rimasto vittima di un agguato per motivi di droga, ormai alla base di tutte le rivalità, controversie, gelosie, alleanze e rotture tra i diversi gruppi criminali di questo quartiere-scandalo. Ma anche su questa lettura del delitto la polizia ha í suoi dubbi, benché al momento preferisca non motivare il proprio scetticismo.» Spasiano distoglie lo sguardo dal giornale. A che punto dell'articolo ha letto che il cadavere indossava un giaccone grigio sopra un maglione nero a girocollo e aveva al polso un bracciale di cuoio al quale era appesa una piccola moneta d'oro a mo' di ciondolo? Scorre in velocità il testo residuo finché rintraccia il capoverso che cercava. Come gli era potuta sfuggire la presenza di quell'oggetto al polso di Felice Lasco, l'amico inseparabile della giovinezza da lui spedito, non senza una certa pena e tuttavia con grande determinazione, all'altro mondo? Infatti non gli era sfuggita; non del tutto. Non ne conservava un ricordo nitido, ma annebbiato e confuso, sì. Il ciondolo attaccato al filo di cuoio forse lo aveva intravisto mentre frugava nella giacca del cadavere sottraendogli portafogli, carte varie, un taccuino d'indirizzi, il passaporto. Lo aveva intravisto, salvo dimenticarsene subito. Spasiano scuote la testa: ciondolo o non ciondolo, la polizia non tarderà a dare un'identità al cadavere. Il problema non è questo, ragiona, il problema è se gli investigatori riusciranno a dare un senso compiuto alla vicenda, a risalire sino a lui e al movente che ha armato la sua mano. Quel movente giace sepolto sotto un'impenetrabile coltre di polvere: quarantacinque anni e oltre di silenzio e di oblio. Una corazza. Riusciranno a dissotterrarlo? Si avvia in bagno per le abluzioni mattutine. Si sente in una botte di ferro (è tra le sue espressioni favorite). Anche perché è sicuro di aver agito senza testimoni e, in ogni caso, con il volto protetto da un passamontagna. Si studia a lungo davanti allo specchio con quello sguardo intermittente, privo di pazienza, proprio di chi non è abituato a fissare negli occhi troppo a lungo nessuno, neppure se stesso. E mentre s'insapona la faccia per radersi fin quasi a nasconderla del tutto dietro la schiuma, rivede il film dell'agguato. È notte fonda. Non piove ma il selciato è bagnato e sa di muffa. Luccica come se i basoli fossero specchi neri nei quali la notte rimira compiaciuta se stessa, le ombre dei palazzi, un balcone dentro una pozza d'acqua. Spasiano è imbacuccato in un gran cappotto blu scuro, il bavero alzato, un cappello con la visiera calata sugli occhi. Sa che Felice Lasco passerà per quel vicolo poco dopo la mezzanotte. Lo sa perché lo sta facendo pedinare da tempo, perché conosce le sue abitudini, perché gli sembra di aver intuito un desiderio di provocazione, quasi di sfida, da parte sua: sono qua, non mi nascondo, non ti temo; uccidimi, se ne sei capace... Quando lo scorge da lontano si schiaccia con il corpo ancora di più contro il portone che ha scelto come nicchia di appostamento. La sagoma di Felice è inconfondibile. Il suo passo è regolare ma lento, il passo dell'uomo soprappensiero. Anche da ragazzo era così, sempre concentrato. Che fai, ruorme?, gli diceva sferzante Malommo. Feli', scètate! Strunz!, replicava Felice. E scoppiavano entrambi in una fragorosa risata. Vivevano incollati l'uno all'altro. Avevano cominciato a incollarsi quando portavano ancora i calzoni corti. Avevano la stessa età, appena sette mesi di differenza, che tuttavia Oreste, ora per scherzo ora in modo serio, pretendeva di accampare come vantaggio in materia di decisioni. Cà song'io ca cumanno: so' cchiù viecchio 'e te. Felice di norma non rispondeva. Gli sorrideva ironico e accondiscendente. | << | < | > | >> |Pagina 62Molla 'a borza, o quanno è vero Dio, quanno è vero Dio... La sera è una polvere fitta color topazio o, se preferite, giallo carcere che incipria funerea le facce dei passanti. Sui sessant'anni, la donna è ferma al centro della piazzetta affollata. Sembra indecisa se svoltare a destra o a sinistra. Stringe in pugno la cinghia di una grossa borsa di pelle munita di una luccicante fibbia metallica. Accanto a lei, un ragazzino tra i dieci e i dodici anni guarda in alto le cime dei palazzi, incuriosito chissà da che cosa. Felice accelera, ma non troppo, cercando di contenere al massimo il rumore del motore. Lo vuole la regola: la vittima va affrontata di sorpresa; nulla deve metterla sull'avviso. La raggiunge di spalle. La sfiora come un colpo di vento mentre Oreste, dietro di lui, cerca di eseguire lo scippo con il consueto strappo secco. Ma non riesce a impossessarsi della borsa: la donna se l'è assicurata al polso. In un caso precedente, lui aveva subito mollato la presa, lasciando, sì, la malcapitata per terra, ma indenne. Questa volta invece – nonostante le urla disperate del ragazzino che accompagna la donna; nonostante il corpo di questa sul selciato col braccio teso e le gambe nude fino alla pancia – Malommo continua a stringere il bottino con l'aria di non volerlo cedere per nessuna ragione al mondo. Carogna! Felice è furioso. Molla 'a borza, o quanno è vero Dio, quanno è vero Dio... Ha appena azionato il freno bloccando la moto. Può accadere di tutto: la polizia, la folla inferocita... Felice continua a gridare. Dopo un ultimo inutile strappo, Oreste infine rinuncia alla sua impresa insensata e Felice può ripartire a tutto gas dissolvendosi nella ruggine di quel crepuscolo polveroso. Abbandonarono la Vespa nei pressi dell'Orto botanico: si trattava di un mezzo contraffatto, uno dei tanti motorini fantasma che si aggiravano in quei giorni per Napoli. Avrebbero dovuto pagare una penale al ricettatore, ma questo non aveva molta importanza: la bravata era durata troppo a lungo per rischiare di riportare quel ferrovecchio laddove lo avevano preso in consegna. Il giorno dopo Felice dormì ininterrottamente: di tanto in tanto sembrava svegliarsi, emergere da un fangoso gorgo, allora tentava di sollevare il capo dal cuscino, il busto dal materasso, ma una mano sconosciuta, misteriosa, l'obbligava a tornare supino e accartocciato tra le coperte, ansioso di sprofondare di nuovo nel suo acquoso letargo. Non era la prima volta che gli succedeva. Anzi. Ogni volta che un buio sentimento d'impotenza s'impadroniva del suo animo paralizzandogli la volontà, lui non sapeva fare di meglio che consegnarsi a un lungo stato d'incoscienza. Avrebbe voluto essere determinato come Oreste. Che ci poteva fare se invece quel tipo di vita, il mondo circostante, perfino la sua casa con sua madre e il patrigno, insomma tutto lo riempiva di disgusto? Ogni tanto accarezzava vaghi sogni di fuga, ma la fuga non aveva mai una meta, era un puro andare, oppresso dal rimpianto di ciò che aveva perduto: il quartiere, la madre, il patrigno, la casa, Oreste... Il giorno seguente, privo di notizie, Oreste andò a cercarlo, ma la madre di Felice gli disse che il figlio aveva la febbre. Il quarto giorno fu invece Felice che andò a cercare Oreste. Allora sei vivo? Ripresero a scorrazzare insieme per il quartiere, in apparenza senza motivo e senza pensieri, in realtà entrambi convinti di aver raggiunto un punto di svolta, di essere a un passo da quell'evento decisivo che prima o poi imprime la definitiva direzione di marcia alla nostra vita. Questa sorta di minacciosa imminenza turbava soprattutto Felice. Dopo l'episodio della donna distesa per terra in lotta con la ferocia di Malommo; dopo quel momento di panico e di nausea si sentiva prigioniero di domande ormai non più suscettibili di essere oscurate, represse come aveva fatto sino a quel giorno. Per esempio: ma chi diavolo era di preciso Oreste Spasiano? Poteva essere che in lui agisse una predisposizione naturale alla crudeltà, a quella cattiveria dei cattivi propria di chi, non soltanto non esita a praticarla, ma in modo aperto ne gode? E chi era lui stesso che, pur vivendo come viveva, non cessava poi di stupirsene, di sentire quelle imprese estranee, come compiute da un altro? Un giorno mi farai piangere, lo so ('nu juorno me farrai chiagnere, 'o ssaccio). Quando una volta la madre pronunciò queste parole, a conclusione di un disperato sfogo sulla sua condotta dissennata, Felice desiderò di morire. Aveva la bocca piena di saliva che non riusciva a deglutire. Erano soli nella stanza di lavoro di lei, che poi era anche la camera da letto matrimoniale. Era sera. C'erano, come sempre, svariati scatoloni pieni di pelli che riempivano l'ambiente di un profumo dolciastro. In parte erano pelli già cucite, già guanti, anche se da rifinire e stirare; altre invece erano soltanto tagliate. Sul comò c'era una piatta mano metallica simile a un piccolo candelabro ebraico fatto di dita leggermente allargate. Poi c'era la Singer, la sedia, e c'era lei, che ne occupava un lembo. Aveva la schiena diritta (non senza un evidente sforzo muscolare) e i capelli ricci che andavano da tutte le parti. Lo fissava con lo sguardo di una madonna addolorata. Ma anche di una madonna soffocata dall'ira. Felice invece non la guardava, non ne aveva il coraggio. Guardava per terra. Guardava straziato la sua incapacità di decidere. Amava con intensità la madre, ma tra lei e lui la vita aveva frapposto come un diaframma, un ostinato impedimento: il legame con Oreste, trasformatosi con il tempo in vincolo esclusivo, perfino intollerante di qualunque concorrenza. Si sentì schiacciare dal peso della propria inadeguatezza, della propria impotenza: la sua salvezza era in altre mani. Pensò che soltanto la vita, perfino a sua insaputa, avrebbe potuto cambiare le carte in tavola. E non sapendo che cosa dire, si abbandonò passivo al suo mutismo abituale. Comunque, quella sera, non fu il silenzio di Felice a mettere fine al suo scontro con la madre, bensì l'arrivo del patrigno. In sua presenza la donna non rimproverava mai il figlio, non faceva mai allusioni alla sua vita irregolare, e ciò (così afferma Felice) per volontà soprattutto del marito. Nella sua modestia, era un uomo saggio oltre che buono: pensava che umiliare il ragazzo avrebbe soltanto peggiorato le cose. Uscì di casa che piovigginava. Era a pezzi. Non avendo alcuna voglia d'incontrare Oreste, rinunciò a cercarlo orientando i suoi passi verso piazza della Sanità. Oreste, nelle serate vuote, se ne andava di preferenza ai Vergini, nel cui chiassoso brulichio si sentiva del tutto a proprio agio. Ne amava perfino il lezzo di cavolo marcio di cui la strada è perennemente impregnata, così come ne amava la rumorosa, carnale trasgressività. Caotica e sboccata, sontuosa e fatiscente, via Vergini si chiama così perché nella notte dei tempi vi si adorava Eunosto, dio della castità: le donne insomma non vi erano molto apprezzate. Per sua fortuna Oreste era all'oscuro di questo discutibile costume, tanto è vero che si stava recando a un appuntamento galante del quale, per la prima volta, aveva preferito non far cenno alcuno a Felice. Quanto a quest'ultimo, allorché fu ai bordi di piazza della Sanità si fermò sotto una tettoia. I suoi capelli grondavano rivoli di pioggia che, attraverso il collo, tendevano a raggiungere anche le parti più protette del corpo. Tremava, benché non facesse affatto freddo, anzi l'aria sembrasse pervasa da un vapore tiepido. La pioggia aveva aumentato d'intensità un po' alla volta, fino a diventare torrenziale, obliqua, carica di elettricità. Lì per lì non se n'era dato pensiero: aveva continuato a camminare con spavalda sicurezza sfidando gli scrosci violenti che sembravano lavargli, oltre il corpo, anche i pensieri. Poi d'un tratto, in prossimità della piazza, aveva sentito il bisogno di un riparo. Restò assorto a contemplare il grande slargo semicircolare sulla sua sinistra: ebbe la sensazione di essere avvolto in un nero lenzuolo zuppo. Il selciato di basoli lo spaventò: non lo aveva mai visto così deserto e traslucido, come spennellato di vernice trasparente sulla quale la pioggia accendeva fugaci lamelle di luce. Sollevò la testa verso il cielo e, sul lato opposto, vide scorrere i fari delle automobili lungo il breve tratto del ponte napoleonico controllabile dalla sua postazione: sovrasta la basilica da dominatore, affondando i giganteschi pilastri di tufo nella sua carne viva. Fissò a lungo il viavai sul ponte: una scena remota come iscritta in una diversa realtà – aerea, sospesa nel cielo, una Napoli «di sopra» con la quale lui aveva poco o niente da spartire. Poi abbassò lo sguardo concentrandosi su una grossa pozzanghera che si era formata davanti a lui. Pensò con rinnovato pentimento alla madre: le stava infliggendo pene senza fine con quella sua vita sciagurata. E magari, quella vita, l'avesse sentita come sua: scelta, vocazione, bisogno. Macché. La praticava senza nessuna convinzione, come una sorta di obbedienza non sapeva dire a chi o a che cosa. Oreste c'entrava e non c'entrava. Era lui, Felice Lasco, il solo colpevole, lui con il suo bagaglio di incertezze che lo rendevano uomo soltanto a metà, mezzo uomo, non uomo d'un pezzo come avrebbe voluto essere. Oreste Spasiano invece non aveva problemi di questo genere. Era d'un pezzo, appunto. Vorresti essere come lui? Non era la prima volta che gli saliva alle labbra questa domanda. No, meglio essere mezzo uomo piuttosto che uno Spasiano intero. E sputò con sdegno nella pozzanghera. Però, nello stesso tempo in cui agiva così, ebbe come un moto d'affetto, quasi uno slancio fisico verso l'amico di sempre, uno slancio che lo fece piegare in avanti. Strunz!, disse a voce alta. | << | < | > | >> |Pagina 128Una domenica mattina si rifiutò di dire messa. Accadrà anche questo, ma parecchi anni dopo rispetto all'episodio appena ricordato. Lo anticipo, forse in modo indebito, perché illumina come nient'altro le varie facce del rapporto di questo prete anomalo con il quartiere toccatogli in sorte come un destino. Don Rega aveva le sue buone ragioni per non voler celebrare, quella mattina, il rito eucaristico. Durante la notte era stato ammazzato un ragazzo da una baby-gang che, a bordo di scalcagnati e rombanti scooter, aveva fatto irruzione nella piazza su cui si affaccia la basilica, sparando all'impazzata al solo scopo di terrorizzare il territorio e affermare il proprio primato nel controllo del mercato della droga. Era un'estate agli sgoccioli. La giovane vittima era stata colta da una pallottola sparata a casaccio, pagando con la vita il piacere d'intrattenersi all'aperto con amici e ragazze sino a notte fonda. A detta del parroco, la celebrazione della messa tra le mura del tempio sarebbe stata un modo come un altro per cercare di normalizzare l'accaduto, facendolo digerire dal quartiere in forma interiorizzata e personale. È questo che volete? Negli occhi gli fiammeggiava la rabbia per non essere compreso dal suo gregge. Era la prima volta che qualcuno lo contestava in modo aperto. Non era mai successo. Erano soprattutto un paio di vecchietti, entrambi ex falegnami, personaggi miti e silenziosi che adesso lo guardavano stupefatti scuotendo la testa. Per la verità non erano i soli a dissentire: scuotevano l'argenteo capo anche alcune anziane e linde signore, una delle quali osservò che la messa è la messa e che quel giorno era domenica, il che la induceva a rivendicare il suo sacrosanto diritto all'eucaristia. Altrimenti, sarebbe stata costretta a rivolgersi a un'altra chiesa, a un altro parroco. È vero, è domenica, replicò sconsolato il prete, ma non si tratta di una domenica qualunque. Per la Sanità questa è una domenica maledetta, come fate a non capirlo? Fissò la ribelle negli occhi, le prese tra le sue entrambe le mani e la chiamò per nome. Assuntina, le disse, il nostro dovere non è quello di soffocare gli incendi sociali, semmai di accenderli. Bisogna protestare! Contro la camorra, ma non solo. Anche contro la politica che ci lascia sempre più soli... Io non voglio negarti la messa cui hai diritto; soltanto non voglio che sia un rito di pacificazione. Non ci può essere pacificazione in questo quartiere fino a quando continuerà a scorrere sangue innocente. Comunque intendo trovare il modo di accontentarti. Allora don Rega, d'accordo con altri preti che frattanto erano arrivati in chiesa, decise, come si dice, di salvare capra e cavoli: la messa sarebbe stata comunque celebrata, ma non nel tempio, bensì all'aperto, nella grande piazza antistante la basilica, in maniera da trasformarla in un evento aperto a tutti, capace di parlare al cuore dell'intero quartiere. Furono tutti d'accordo, compresi í fedeli sino a quel momento più polemici con il parroco. Questione risolta, dunque? Neanche per sogno. Anzi è proprio a partire da questo momento che le cose mostrano di complicarsi in maniera ancora più grave, perché non si fa in tempo a spostare neppure un tavolino che arriva il veto del questore allo svolgimento della messa all'aperto. Ha paura, spiega la dirigente del commissariato addetta alla sorveglianza della zona, che si riversi in piazza l'intera Sanità. Ma è quello che vogliamo, obietta padre Rega, che vive quel divieto come una conferma dei suoi sospetti: le autorità pubbliche non vogliono che la protesta dilaghi, vogliono racchiuderla all'interno di un tempio affinché lì svapori, in maniera da non creare altro disordine. Non ci sto, dice allora il prete, determinato a disubbidire a quell'ordine a qualunque costo. Ma, nonostante le apparenze, non si sente affatto «colui che decide»; semmai «colui che obbedisce»: a un altro se stesso molto più vigile e attento di quello che si muove sulla scena. Quest'ultimo infatti – come mi confiderà in seguito – è soltanto un uomo svuotato dall'accaduto, quasi istupidito dalla fine così tragica e prematura di quel ragazzino falciato da altri ragazzini abituati a pensare che la morte possa essere anche un gioco, una festa, un'esibizione collettiva. Erano arrivati a bordo di quattro scooter passando sotto il ponte murattiano con il suo tufo maestoso, irrompendo nella piazza come cavalieri dell'Apocalisse tra raffiche incrociate di kalashnikov e mitra Uzi, armi importate da guerre lontane. Nel fuggi-fuggi generale della residua gioventù nottambula, il destino aveva scelto però il suo agnello sacrificale, quello che doveva morire a ogni costo, colpito, forse per caso, forse in maniera deliberata, proprio per rendere più «persuasiva» la spedizione: siamo capaci di tutto; non c'è niente e nessuno che ci possa far paura; qui comandiamo noi; noi e nessun altro. Ecco a che cosa sarebbe servita la messa all'aperto: a riconsacrare quel suolo così barbaramente profanato durante la notte. Al diavolo i veti del questore! La celebrazione eucaristica, pur nel trambusto generale, fu organizzata con rapidità. A mezzogiorno i preti erano già tutti al loro posto di combattimento, di fronte a una folla straripante, discesa senza paura dai vicoli che sovrastano la piazza. Come lava, disse don Rega, orgoglioso della combattiva scelta compiuta. Per la camorra infatti, quel che stava succedendo era uno schiaffo in piena faccia in quanto mostrava per la prima volta l'esistenza di un'incrinatura vistosa nel rapporto di contiguità e omertà tra popolo e delinquenza. Consapevole di questo, padre Rega non esitò ad affondare il dito nella piaga. Non c'è nessuno, oggi, in mezzo a noi, in grado di definirsi innocente, gridò. Siamo tutti colpevoli. In quanto nessuno ha fatto quel che doveva fare per impedire che quella tragedia si consumasse sotto i nostri occhi. Fecero sentire la propria voce anche gli altri preti, riaffermando a loro volta, più o meno, lo stesso concetto: siamo tutti colpevoli. Citarono il libro di Daniele: «Noi abbiamo peccato»; il vangelo di Luca: «Se non vi convertite perirete tutti»; il profeta Isaia: «Guai, gente peccatrice, popolo carico d'iniquità [...]. Le vostre mani grondano sangue...». Molte donne piangevano, forse più persuase di altre che quelle parole coglievano nel segno, mettevano a nudo le loro personali responsabilità di madri corrive, vittime di un pernicioso clima sociale che le vuole sempre piegate, e in maniera convinta, alla volontà maschile. Si possono immaginare perciò la sorpresa e la soddisfazione del parroco quando – conclusa la messa – vide irrompere nella sacrestia un numeroso gruppo di donne che lo accerchiarono in una sorta di baldanzosa morsa umana – voci e volti carichi d'inedita tensione: basta, siamo stanche, non possiamo più permettere che i nostri figli finiscano così! Siamo decise a reagire, e voi preti dovete aiutarci. Vogliamo organizzare una fiaccolata di protesta per le strade del Rione... Non era mai successo. Il parroco quasi si chiedeva se le stesse soltanto sognando, quelle parole, quella scena, se insomma fossero vere oppure facessero parte di una fantasiosa irrealtà. No, era tutto vero. Infine anche alla Sanità – laddove era stato di recente maggiormente umiliato – il diritto alla vita trovava il modo di essere riaffermato: in maniera diretta, senza intermediazioni di sorta. Per volontà di popolo. Con un'imponente assemblea pubblica all'interno della basilica, il giorno dopo, lunedì, la manifestazione fu organizzata e definita in ogni dettaglio. Il corteo sarebbe partito l'indomani, all'imbrunire, proprio da quella piazza profanata, agitando uno striscione sul quale sarebbero comparse, ben leggibili, due parole soltanto: No Camorre. Chi lo dimenticherà più quel martedì di mobilitazione e di lotta?, mi ripete spesso padre Rega, consapevole che certe battaglie non si vincono da un giorno all'altro e che ce ne vorrà di tempo prima che la Sanità possa dire di aver trionfato nella guerra contro se stessa.
Il corteo in ogni caso fu un grande successo; sfilarono
molte migliaia di persone e anche lo striscione contro le camorre fece a
intervalli la sua comparsa. Poi però scomparve.
Andò tutto per il verso giusto? Beh, qualche screzio, chiamiamolo così, ci fu.
In particolare uno. Accadde quando alcuni giovanotti dall'aria tracotante (forse
erano stati loro a togliere di mezzo lo striscione anticamorra) in un rabbioso
battibecco con i ragazzi della comunità di don Rega ammonirono questi ultimi a
far bene la loro scelta: o cu' nuie, o cu' chillullà (con quello là). Il
parroco, insomma.
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