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| << | < | > | >> |Indice9 Prefazione 19 Introduzione 19 1. Ancora... 21 2. L'ultimo Convivio 25 3. Il discorso anoressico-bulimico 29 1. Il pieno e il vuoto 29 1.1 Il vuoto e la sostanza 31 1.2 Il corpo come luogo dell'Altro 35 1.3 La pulsione orale: mangiare il vuoto 42 1.4 Il vuoto della brocca 44 1.5 Bisogno e domanda 48 1.6 Domanda e desiderio 51 1.7 Il sogno della bella macellaia 57 1.8 Circuito del godimento e circuito del desiderio 67 1.9 Il desiderio della larva 69 1.10 Lacan e l'anoressia: un'aporia feconda 75 1.11 Un desiderio debole 80 1.12 La madre-coccodrillo 86 1.13 Un'identificazione adesiva 91 1.14 Metafora paterna debole 95 2. Via estetica e via morale nell'anoressia-bulimia 95 2.1 Le due vie 95 2.2 Il controllo dell'Altro 98 2.3 La battaglia del peso 100 2.4 Quantità/qualità 104 2.5 Mangiare la schiuma 105 2.6 Una malattia dell'amore? 107 2.7 La domanda d'amore 111 2.8 Donne invisibili 113 2.9 Padre, non vedi che mangio? 119 2.10 L'anoressia isterica 120 2.11 La scena primaria dell'anoressia 124 2.12 Il potere del significante 124 2.13 La funzione dello specchio 131 2.14 Il potere dell'immagine 137 2.15 Il godimento dell'immagine 141 2.16 Il corpo-magro come feticcio 145 2.17 Anoressia-bulimia e adolescenza 150 2.18 L'alpinista di Binswanger 153 2.19 Perché le donne? 159 2.20 Ravage 161 2.21 L'Ultima cena 168 2.22 Il sistema del super-io anoressico-bulimico 173 2.23 Malattie della volontà 179 2.24 La "spinta alla Cosa" 190 3. L'olofrase anoressico-bulimica 190 3.1 Un mistero in piena luce 193 3.2 Fenomeno e struttura 194 3.3 Anorexie hystérique o anorexia nervosa? 197 3.4 Nevrosi o psicosi? 201 3.5 La clinica freudiana: distinzione strutturale di nevrosi e psicosi 204 3.6 Il concetto di borderline: una terza struttura soggettiva? 210 3.7 Una clinica a metafora debole 216 3.8 L'olofrase anoressico-bulimica 221 3.9 Logiche del trattamento 231 3.10 Diventare segno 236 3.11 Il corpo che muore 240 3.12 Una clinica del preliminare 247 3.13 La rettifica soggettiva 248 3.14 Certezza e verità 253 3.15 L'anima bella 257 3.16 Inconscio e interpretazione 265 3.17 L'opacità della lettera 269 3.18 Condizione dell'interpretazione: l'enigma al posto dell'evidenza 270 3.19 Ostacolo all'interpretazione: l'evidenza al posto dell'enigma 274 3.20 Un eccesso di evidenza 276 3.21 Il furto dell'evidenza 280 3.22 La borsa e la vita 287 4. Il ritorno dello spettro 287 4.1 La carne impassibile 293 4.2 Sindrome culturale? 298 4.3 Patologie della modernità 301 4.4 Il rifiuto e l'offesa 305 4.5 "L'appetito tenuto a freno" 309 4.6 Anoressia-bulimia e il discorso del capitalista 313 4.7 "Il ritorno dello Spettro" 322 4.8 L'avere e/o l'essere 324 4.9 La ricerca del fallo 331 Bibliografia 341 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 9PrefazioneL'ultima cena è un libro pubblicato nel 1997 da Bruno Mondadori, in una stagione dove la letteratura clinica di impronta psicoanalitica, e non solo, intorno all'anoressia-bulimia appariva ancora esigua. Fu un piccolo caso letterario: un saggio di psicoanalisi lacaniana applicata allo studio dell'anoressia-bulimia riuscì a radunare un numero imprevisto di lettori che dopo dieci anni giustifica una nuova ristampa. La fortuna de L'ultima cena si spiega a mio giudizio per un intreccio di ragioni. Innanzitutto fu un libro militante, con il quale un giovane psicoanalista lacaniano, che dirigeva un'istituzione specializzata nella ricerca e nel trattamento dell'anoressia-bulimia, prendeva chiaramente partito contro la segregazione medico-psichiatrica dell'anoressia-bulimia, imperante nelle strategie terapeutiche focalizzate sulla correzione autoritaria del comportamento alimentare e contro la sua riduzione sociologistica a malattia causata dall'industria della moda. Era un libro che prendeva partito innanzitutto nel campo del trattamento: la psichiatrizzazione e la medicalizzazione dell'anoressia venivano contrastate perché incapaci di tenere conto del particolare del soggetto, il quale costituisce invece la spina dorsale dell'etica della psicoanalisi. Per questa ragione L'ultima cena rivendicava, contro un uso universale, anonimo e classificatorio della categoria clinico-diagnostica di "anoressia mentale", la particolarità del soggetto come cruciale, imponendo così, alla luce della struttura del soggetto e dei suoi criteri differenziali (nevrosi, psicosi e perversione), una revisione critica dello stesso atto diagnostico, decostruendo il riferimento all'anoressia mentale come insieme di comportamenti fenomenici standard e valorizzando invece la declinazione al plurale dell'anoressia-bulimia. Si trattò di un passaggio tanto elementare quanto fondamentale che continua a orientare attualmente la nostra pratica terapeutica: l'uso al singolare dell'anoressia-bulimia come diagnosi a sé stante doveva essere sostituito con un'attenta discriminazione differenziale delle diverse possibili declinazioni dell'anoressia-bulimia: nevrotica (isterica o ossessiva), psicotica (melanconica o come compensazione di psicosi latenti, schizofreniche o paranoiche) o perversa. Questo nuovo indirizzo clinico che L'ultima cena contribuì a sostenere trovò ai miei occhi una conferma nella pubblicazione, nel 1998, dell'ultimo libro di Mara Selvini Palazzoli e dei suoi collaboratori intitolato singificativamente Ragazze anoressiche e bulimiche, con il quale uno dei maggiori studiosi di queste patologie mostrava di smembrare una categoria monolitica in varianti possibili, dunque in diversi "tipi" di anoressia-bulimia, ricongiungendosi alla prospettiva che L'ultima cena aveva inaugurato un anno prima. L'accusa che già in quegli anni veniva rivolta dal discorso medico-psichiatrico e dalla psicologia clinica a orientamento cognitivo-comportamentale alla psicoanalisi classica era quella di una inanalizzabilità fondamentale del soggetto anoressico-bulimico. Di fronte a una malattia che invadeva così drammaticamente il corpo e la vita del soggetto, l'applicazione classica della psicoanalisi rischiava di restare rinchiusa in una sorta di idealismo interpretativo senza ottenere alcuna efficacia terapeutica. In polemica con queste tesi L'ultima cena sosteneva la psicoanalisi applicata alla terapeutica come una via efficace nella clinica dell'anoressia-bulimia, anche se si esprimeva criticamente nei confronti di un'applicazione standardizzata della psicoanalisi (regressione, transfert, interpretazione) a questo genere di pazienti, i quali risultavano refrattari all'azione simbolica dell'interpretazione analitica. Un diverso uso della psicoanalisi veniva profilato; un uso che accentuava non tanto la regressione e il valore semantico dell'interpretazione quanto piuttosto la necessità di un trattamento preliminare del godimento, la centralità dell'atto analitico e la crucialità strategica di un trattamento preliminare della domanda. L'ultima cena fu uno dei primi libri psicoanalitici in Italia dedicati al tema dell'anoressia-bulimia dove si sosteneva la necessità di un adattamento particolare del cosiddetto setting analitico a questi pazienti, mettendo in risalto l'importanza della relazione terapeutica più che l'azione della decifrazione simbolica. Tra le ragioni del successo de L'ultima cena, al suo carattere militante si deve aggiungere che non si trattava solamente di un libro di psicoanalisi sull'anoressia ma di un libro lacaniano sull'anoressia. Un libro lacaniano che contribuì a far conoscere non solo la clinica dell'anoressia-bulimia ma anche, più in generale, il pensiero clinico di Lacan. Per uno strano percorso, da me assolutamente non previsto, questo libro diventò infatti per molti dei suoi lettori un'introduzione alla clinica di Jacques Lacan in un periodo nel quale il pensiero di Lacan in Italia sembrava finalmente destinato a essere sdoganato dagli stereotipi degli anni settanta, che lo inchiodavano al cliché del maestro tanto carismatico ed esoterico quanto privo di un effettivo rigore e di una competenza clinica adeguata. Una terza ragione del successo de L'ultima cena credo riguardi íl suo stile di scrittura. Avevo deciso di dedicare questo libro ad Anastasia, una mia paziente che portò con sé il mistero della sua vita morendo per gli effetti di una lavanda gastrica mal calibrata, dopo l'ennesimo tentativo di suicidio avvenuto ingurgitando una scatola di aspirine. Fu l'unico caso, dei molti che in questi anni di lavoro ho potuto seguire, che si concluse con la morte. Tuttavia questa morte lasciò in me una traccia indelebile e avvenne proprio nella fase di revisione finale del testo. La presenza di Anastasia e del dolore profondo che provocò in me la sua perdita mi portò a riscrivere gran parte del libro imprimendogli un tono più lirico. Ne uscì una sorta di lingua mista, nella quale il lavoro teorico sui concetti si mescolava a una certa ispirazione poetica. Una lingua che alternava la riflessione metapsicologica ai frammenti tratti dalla mia pratica di psicoanalista che provavo a ritagliare con la delicatezza di cui ero capace. L'effetto fu tale che insieme ai concetti, il libro si popolava anche di nomi propri: Beatrice, Elena, Sara, Elisa, Sonia... L'ultima cena era infatti un sogno che una di loro mi raccontò e che assunse ai miei occhi il significato di un vero e proprio paradigma del rifiuto anoressico: disertare, tradire la tavola dell'Altro, elevarsi fittiziamente a una trascendenza priva di corpo... Fu dunque il ricordo vivo di Anastasia che mi impose uno stile di scrittura che intendeva essere volutamente antagonista dello stile arido e senza vita delle trattazioni medico-specialistiche dell'anoressia. Questo stile ebbe l'effetto di avvicinare al libro anche un pubblico cosiddetto non specialistico di lettori. Qualcuno a conclusione di una presentazione presso la libreria Feltrinelli di Ancona mi disse che raramente nei libri di psicoanalisi dedicati alla clinica aveva incontrato una scrittura capace di emozionare. Ancora oggi lo ricordo come un commento tra quelli per me più significativi del mio lavoro. Infine, un'ultima ragione spiega a mio giudizio la relativa fama conquistata da questo libro. Essa riguarda la concezione di fondo dell'anoressia-bulimia che in esso si esprime. Per essere sintetico direi che ne L'ultima cena viene espressa una teoria fondamentalmente romantica dell'anoressia-bulimia. Il romanticismo disperato delle anoressiche e delle bulimiche consiste nel mostrare, secondo strategie solo apparentemente opposte, tutta la distanza che separa la soddisfazione simbolica del segno d'amore da quella legata all'oggetto di consumo. L'anoressica rischiando la vita stessa, negandosi radicalmente a ogni soddisfacimento dell'oggetto, per avere il segno d'amore da un Altro (familiare, sociale, culturale) che fraintende sistematicamente lo statuto del desiderio con quello del bisogno, e, dunque, risponde alla domanda d'amore del soggetto con la propria "pappa asfissiante". La bulimica, al contrario, provando a compensare l'assenza del segno d'amore – dunque la frustrazione della propria domanda d'amore – attraverso la rincorsa continua e infinitamente vorace dell'oggetto-cibo. In entrambi i movimenti troviamo al loro cuore la passione per il segno d'amore. È questa l'accentuazione speciale che L'ultima cena conferisce all'anoressia-bulimia. Nondimeno esistono già in questo testo dei contrappesi teorici forti alla versione romantica dell'anoressia-bulimia. Basti pensare al recupero teorico di una definizione marginale che Lacan dà del desiderio anoressico – simile in questo a quello tossicomanico – come desiderio della larva – dunque non dialettico, non centrato sulla domanda d'amore ma sul suo contrario, ovvero sulla separazione assoluta da ogni forma di domanda –, oppure alla tesi dell' olofrase anoressico-bulimica che mostra lo statuto non metaforico e anti-simbolico dell'anoressia e della bulimia che, come tale, resiste a ogni interpretazione semantica esigendo un trattamento preliminare come condizione di entrata del soggetto nel dispositivo della Cura. Tuttavia il suo quadro di riferimento resta la teoria del segno d'amore. La pratica clinica mi ha spinto in seguito a rivedere criticamente la centralità di questo quadro. Il suo ridimensionamento progressivo fu proporzionale all'incontro con la dimensione di odio puro che sembra orientare il soggetto anoressico-bulimico e che trova delle manifestazioni radicali nel transfert negativo, ma anche a un certo declino clinico della versione isterica dell'anoressia a favore di una maggiore diffusione delle versioni psicotiche delle anoressie e delle bulimie. A questo riguardo mi preme offrire almeno il punto di giuntura tra L'ultima cena e Clinica del vuoto: anoressie, dipendenze, psicosi che costituisce il punto che io giudico più rilevante del mio percorso teorico intorno ai cosiddetti disturbi dell'alimentazione. Il passaggio può essere schematizzato come passaggio dalla tesi del rifiuto anoressico come espressione del desiderio del soggetto, alla tesi del desiderio del soggetto che si degrada esso stesso a rifiuto. In estrema sintesi: quando Lacan ne La direzione della cura abborda la questione anoressica mette in particolare risalto il rapporto stretto che l'anoressica realizza tra il desiderio e il rifiuto. «È il bambino nutrito con più amore a rifiutare il nutrimento e orchestrare il suo rifiuto come un desiderio», scrive. È questo il nucleo essenziale dell'interpretazione lacaniana dell'anoressia che ispira L'ultima cena: l'anoressia è una manovra di separazione del soggetto dall'Altro, laddove l'Altro della domanda sembra soffocare ogni mancanza a scapito del desiderio (riempie il soggetto della sua "pappa asfissiante" senza dare al soggetto il segno del suo amore). Questa manovra si condensa nell'espressione «il rifiuto come desiderio». Nel senso che è attraverso il rifiuto anoressico che il desiderio può sopravvivere all'attentato della domanda dell'Altro. Possiamo però vedere in questa espressione una oscillazione inquietante che la lingua italiana consente di evidenziare nel modo più appropriato. Si tratta dell'oscillazione tra l'assunzione del rifiuto come espressione del desiderio, come scudo del desiderio e, invece, l'assunzione del desiderio come rifiuto, come scarto, come scadimento del desiderio stesso a oggetto rifiutato. Nell'oscillazione melanconica dell'anoressia è infatti il desiderio come rifiuto a essere in primo piano. Il desiderio viene rifiutato e si annulla nel godimento puro della pulsione di morte, in un godimento larvale e parassitario. Il soggetto non difende attraverso il rifiuto la sua soggettività ma si trova degradato a oggetto-rifiuto: mummificazione, devitalizzazione, delirio di identità, spirito di serietà. L'anoressia incarna un muro che intende contrapporsi al muro del linguaggio: muro contro muro. È questo il carattere ostinato, fuori dialettica, radicalmente narcisistico, nirvanico dell'anoressia contemporanea. Massimo Recalcati | << | < | > | >> |Pagina 19IntroduzioneL'amore domanda l'amore. Non cessa di domandarlo. Lo domanda... ancora. Ancora è il nome proprio della faglia da cui nell'Altro parte la domanda d'amore.
J. Lacan,
Il Seminario XX, Ancora
1. Ancora... Ancora, ancora, ancora... È la domanda che risuona senza parole e in una forma disperata nell'attacco bulimico. Il "cattivo infinito" della domanda bulimica — non c'è mai Altro sufficiente a poterla colmare — mostra, nel suo punto più estremo, l'intersezione con la domanda d'amore in quanto tale. Perché l'"intransitività" di questa domanda — per usare un'espressione di Lacan — consiste proprio nell'eccedenza che la anima rispetto al soddisfacimento possibile offerto dalla consumazione dell'oggetto. L'amore, infatti, non è una merce tra le altre. Non si può consumare. È ciò che sa bene l'anoressica che scegliendo di mangiare il niente rifiuta il mondo dell'avere e reclama il suo diritto a essere, il suo diritto all'amore. La domanda d'amore è senza fondo. È questa una delle verità che la bulimica incarna. Per questo è proprio lo scacco che essa incontra — non si può trovare la soddisfazione della domanda d'amore nella pura consumazione dell'oggetto, né nella sua facile reperibilità garantita dal discorso sociale – a rivelare il senso della protesta dell'anoressica: nessun oggetto vale l'amore, nessun oggetto può trattenere ciò che non è nell'ordine dell'avere, nessun oggetto può riempire il vuoto d'essere del soggetto, nessun oggetto è mai abbastanza. È questa la funzione del niente nell'anoressia: niente vale se non è segno dell'amore. Di questa verità svolge la prova – come si dice in matematica – la bulimica che in ogni crisi esibisce la vanità e l'inconsistenza di fondo della sostanza. Niente, infatti, nemmeno l'oggetto-cibo può suturare la mancanza che abita il soggetto. Nondimeno, però, l"ancora" della bulimica indica la presenza nell'oggetto-cibo di qualcosa di reale che non è mai del tutto simbolizzabile. Indica il resto puramente pulsionale dell'oggetto orale. Indica la cifra – interna, anche se irriducibile, all'oggetto del nutrimento – del godimento della pulsione orale. Godimento legato non alla realtà della sostanza – perché la pulsione, come sottolinea Lacan, non si chiude sull'oggetto – ma a quella del vuoto. Perché la pulsione orale non si risolve nell'assorbimento dell'oggetto ma costeggia, circonda il vuoto lasciato dalla perdita – inscritta da sempre nel soggetto in quanto promossa dall'azione alienante del linguaggio – dell'oggetto. Perché quando la bulimica mangia, non mangia cibo ma mangia ciò che non si può mangiare, mangia ciò di cui il cibo fa da simulacro. Mangia la Cosa. L'oggetto da sempre perduto del primo soddisfacimento. Mangia il vuoto. Un vuoto non commestibile e che proprio per questo causa la pulsione orale come spinta a una divorazione infinita.
È esattamente questa struttura pura della pulsione
come rotazione intorno al vuoto che la bulimia mette
in evidenza. Ancora, ancora, ancora... "Quando mangio cerco di mangiare una cosa
buona, una cosa buonissima. Cerco sempre questa cosa buona, buonissima,
senza trovarla mai", mi diceva Anita. Perché in effetti
la Cosa buonissima è perduta da sempre. È la Cosa di
cui parlano
Freud
e Lacan. È la Cosa che patisce del
significante. È la Cosa di cui solo un resto non simbolizzato persiste a
orientare il cammino del soggetto alla
sua ricerca. Così, Anita cercava la Cosa nella sostanza,
nell'oggetto-cibo... Ma ogni volta al suo posto incontrava la delusione del
non-incontro. Eppure il reale
non simbolizzabile dell'oggetto-cibo fa esistere, in un
certo senso, infinitamente la chimera dell'incontro con
la Cosa. Funziona da causa per il desiderio. "Mangio
allo stesso modo con il quale leggo i libri. Li divoro.
Voglio arrivare subito in fondo per sentire che cosa
c'è, per vedere che cosa c'è in fondo, alla fine". Ancora, dunque. Pagina dopo
pagina. Sempre più freneticamente. Mangiando il tempo. Sempre più voracemente.
Divorando tutto. Ancora, ancora, ancora fino in
fondo, fino all'infimo, all'immondo, al putridume,
ancora, ancora fino allo scandalo – magico e osceno –
della comparsa, provocata, del vomito, del disgusto
estremo. Fino al punto dove questa ricerca senza respiro d'avere incontra
l'inconsistenza dell'essere; il vuoto,
ancora, ancora il vuoto, invece del pieno.
2. L'ultimo Convivio La scena dell' Ultima cena si presta a dare la giusta cornice al dramma anoressico-bulimico. Come nel testo evangelico che racconta l'ultima volta di Gesù Cristo tra gli uomini, anche per l'anoressica-bulimica, sul luogo del Convivio discende l'ombra del tradimento, della delazione e della catastrofe imminenti, l'ombra della rottura del patto, della menzogna, l'ombra del sacrificio finale, l'ombra della morte. L' Ultima cena è un dramma dove il consumo conviviale del cibo è sospeso al compiersi di un destino fatale. Dopo scenderà la notte tetra dei Getsemani e la fatica atroce del Calvario e della Crocifissione. Dopo scenderà la notte fredda della solitudine. Il patto con l'Altro è rotto. È il lamento costante dell'anoressia-bulimia: l'Altro tradisce, abbandona, è l'Altro del non-amore. La notte anoressico-bulimica è la notte di una solitudine infinita. Nondimeno, lo spiritualismo dell'anoressica resta uno spiritualismo di maniera, esteticizzante, senza rapporto con l'universale del discorso. Resta uno spiritualismo vincolato all'estetica dell'immagine, al culto mondano e moderno del corpo-magro. Esso non apre al salto mistico al di là del conosciuto o al rischio incalcolabile di uno strappo dal mondo, quanto piuttosto all'esigenza di un dominio, di un controllo integrale, senza resti, dell'Ideale sulla pulsione. L'esigenza di un "sistema perfetto", diceva Manuela, "che permetta di non perdere niente". | << | < | > | >> |Pagina 253. Il discorso anoressico-bulimicoI codici nosografici standardizzati nel più recente DSM (IV) distinguono 1"`anoressia nervosa" dalla "bulimia". Questo libro scandaglia invece i principi del discorso anoressico-bulimico a partire da una tesi che l'esperienza clinica suffraga ampiamente: anoressia e bulimia non sono semplici alternative in antagonismo tra loro, ma due facce della stessa medaglia, dove l'anoressia indica la realizzazione dell'Ideale del soggetto, mentre la bulimia il suo naufragio legato all'irruzione del reale pulsionale sulla scena dell'Ideale. Dove, in altri termini, l'anoressia realizza una padronanza attraverso un'identificazione idealizzante e una pratica di privazione, mentre la bulimia manifesta lo sfaldamento di questo stesso sistema che cede sotto i colpi di una compulsione a ripetere sregolata. In questo senso la bulimica virtualizza l'oggetto dell'angoscia anoressica, mentre l'anoressica edifica l'Ideale della bulimica che resta sempre l'Ideale anoressico del corpo-magro. La logica che ispira il discorso anoressico-bulimico è una. Ecco perché utilizzerò per lo più la formula "anoressia-bulimia", anziché anoressia o bulimia; si tratta di evidenziare il più possibile la dialettica tra la pulsione e l'Ideale come dialettica che acquista un valore specifico nel discorso anoressico-bulimico, all'interno del quale il polo bulimico e il polo anoressico costituiscono indici di una sola oscillazione piuttosto che indicare due posizioni soggettive differenziate. Staccare la bulimia dall'anoressia o viceversa mutila, a mio parere, la possibilità di definire con rigore la logica del discorso anoressico-bulimico. Questa logica ha in effetti per lo più una prima articolazione di tipo anoressico (nell'anamnesi clinica delle nostre pazienti l'esordio della malattia coincide con l'esercizio di più o meno drastiche misure di restrizioni alimentari per poi radicalizzarsi eventualmente in un'anoressia restrittiva in senso proprio) e solo in un secondo tempo essa tende a evolvere nella bulimia. E, nondimeno, questa stessa evoluzione non abolisce la funzione regolativa dell'Ideale anoressico del corpo-magro il quale continua, in realtà, a governare la stessa bulimia. Perché l'esercizio bulimico del vomito è finalizzato a preservare l'immagine anoressica del corpo-magro. In questo senso si può dire che la bulimia è un dialetto dell'anoressia; la lingua madre resta, in effetti, quella anoressica mentre la posizione bulimica non è altro che un deragliamento del progetto anoressico, un suo cedimento fatale, anche se la bulimica "aggiunge" all'Ideale del corpo-magro e della privazione masochista dell'anoressia il godimento, mai del tutto simbolizzabile, della pulsione orale. L'uso dell'espressione "discorso" merita anch'essa, una breve delucidazione. L'insegnamento clinico di Lacan consiste nel pensare le posizioni del soggetto in termini strutturali. L'anoressia-bulimia non è una struttura. Le strutture sulle quali si fonda la clinica psicoanalitica nella sua matrice freudiana sono infatti quelle di nevrosi, psicosi e perversione. L'anoressia-bulimia indica piuttosto un fenomeno. Un fenomeno che per alcune sue caratteristiche specifiche – serialità, monotonia discorsiva, rigidità identificatoria, narcisismo esaltato – tende a occultare anziché rivelare la struttura del soggetto. E tuttavia esiste qualcosa che si configura come "discorso anoressico-bulimico" e che ordina in un certo senso il rapporto del soggetto con l'Altro. La parte clinica di questo libro considera dunque questi tre vertici (struttura, fenomeno, discorso) secondo una logica complessa. Se la distinzione tra struttura e fenomeno permette di ricondurre la diagnosi psicoanalitica al suo fondamento (dietro al fenomeno anoressico-bulimico si deve sempre ricercare la struttura differenziale del soggetto: nevrosi/psicosi/perversione), con il concetto di "discorso anoressico-bulimico" si prova a individuare la specificità di questa posizione soggettiva che non può essere semplicemente abolita dal rinvio alla struttura. Perché è con questo discorso e con la sua logica che la direzione della cura si deve misurare. Così utilizzando l'insegnamento clinico di Lacan e della sua scuola, unito alla mia pratica analitica, mi sono sforzato di isolare i principi di questo discorso: la passione per il niente, la dominanza imperativa della legge superegoica, l'inclinazione extrametaforica-olofrastica, la "spinta melanconica alla Cosa", la "scena primaria dello specchio", l'appetito di morte, il fondamento isterico, l'omologia "al" e, insieme, la sovversione "del" discorso del capitalista. Di tutti questi principi questo libro prova a offrire un'articolazione teorica d'insieme. | << | < | > | >> |Pagina 291. Il pieno e il vuoto1.1 Il vuoto e la sostanza La psicoanalisi insegna ad assumere il sintomo non come l'alterazione di una funzione (per esempio l'insonnia che disturba la funzione del sonno), ma come l'indice fondamentale della verità rimossa di un soggetto. Da questo punto di vista — che è il punto di vista generale della dottrina psicoanalitica — il presupposto decisivo sul quale si sostiene la nostra pratica analitica con soggetti affetti dai cosiddetti disturbi alimentari (anoressia e bulimia) consiste nell'assumere questi disturbi non come malattie dell'appetito — patologie dell'alimentazione —, ma innanzi tutto come posizioni soggettive. Presupposto tanto elementare quanto cruciale nell'orientare la cura non nella direzione di una normalizzazione della funzione organica alterata — quella, appunto, dell'appetito — ma in quella dell'ascolto della parola del soggetto e dell'apertura dell'inconscio che tale parola consente. Il tratto discorsivo dominante dell'anoressia-bulimia è quello della passione. L'anoressia-bulimia è in effetti una passione del soggetto. Una passione causata da un oggetto-sostanza (il cibo) che si dà come oggetto-causa, mai del tutto simbolizzabile, sia lì dove orienta il soggetto verso il suo rifiuto ostinato (anoressia), sia quando se ne impossessa in modo demoniaco imponendogli una sua assimilazione tanto vorace quanto infinita (bulimia). Nondimeno questa passione per l'oggetto-cibo – che sembra avere la caratteristica dell'attrazione irresistibile per un oggetto-sostanza reale – si rivela, nella sua radice ultima, come una passione per il vuoto. Al fondo dell'oggetto-cibo (dove rifiuto e assimilazione sregolata costituiscono di fatto, nel discorso del soggetto, due poli di una stessa tensione) c'è infatti il vuoto. Ma non il vuoto dello stomaco, non un vuoto "anatomizzato" che può essere riempito dall'oggetto-sostanza, ma quel vuoto – non empirico quanto ontologico – che riguarda il cuore stesso del soggetto. Quel vuoto che il soggetto porta con sé dalla sua origine. Quel vuoto che si sottrae a ogni possibile misura, a ogni calcolo, a ogni rappresentazione. Quel vuoto che costituisce il punto più intimo del soggetto e, insieme, l'estraneità più radicale. Quel vuoto che apre nel soggetto una mancanza incolmabile (precisata dall'insegnamento di Jacques Lacan come "mancanza-a-essere"), che non può essere saturata da nessun oggetto. Perché ogni oggetto si rivela vano rispetto a questa meta impossibile. Perché il vuoto che abita il soggetto non dipende dalla sostanza dell'oggetto ma inerisce alla stessa stoffa di cui è fatto, per così dire, il soggetto stesso. L'anoressia-bulimia è allora una passione per il vuoto nel senso che, pur orientando il soggetto verso direzioni opposte (la scelta anoressica è la scelta del rifiuto dell'oggetto-cibo, quella bulimica è la spinta alla sua divorazione illimitata), il soggetto che vi è implicato punta comunque a raggiungere e a conservare il vuoto. Perché l'abolizione del vuoto significherebbe in effetti l'abolizione stessa del soggetto.
Il vuoto è infatti la condizione perché possa esistere, insieme alla
mancanza, il desiderio. Così l'anoressica lo difende disperatamente nel modo
dell'identificazione, gettando tutto il suo essere in questa
impresa, impegnando tutto il suo essere nel farsi essa
stessa vuoto puro, pura mancanza a essere. La bulimica lo trova invece ogni
volta al termine delle sue
abbuffate. Lo trova al fondo della sostanza-cibo. Lo
trova nel punto in cui il suo godimento tocca il limite
dell'inconsistenza dell'oggetto. Attraverso il vomito
ella fa infatti vuoto nel suo corpo. Svuota il proprio
corpo dal peso della sostanza. Così al termine di ogni
crisi di fame mostra in realtà all'Altro che niente –
niente dell'oggetto-sostanza – potrà mai riempirla
veramente. Perché il suo vuoto non è il vuoto di un
contenitore ma quello – strutturale – della mancanza
a essere.
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